Cento anni fa, il 14 ottobre 1920, si verificava a San Giovanni Rotondo il più sanguinoso eccidio del biennio rosso italiano.
Questo eccidio è rimasto finora confinato a livello locale, colpevolmente ignorato dalla storiografia accademica e di partito. Ma esso merita ben altra considerazione non soltanto per il numero di morti, superiore a quello che si verificherà poco più di un mese dopo a Bologna con l’assalto squadrista a Palazzo d’Accursio. A San Giovanni Rotondo, che nei mesi precedenti era stata interessata da poderose lotte dei contadini, soprattutto tra i ceti agrari si diffuse una grande paura, che spinse a preparare la controffensiva sul terreno sindacale e politico. Essi non tolleravano l’aspirazione dei contadini e dei lavoratori a vedersi riconosciuti i propri diritti né un nuovo ruolo dentro la società che cambiava. La reazione dei latifondisti si saldò con le aspirazioni dei piccoli proprietari terrieri, dei reduci delusi e traditi nelle loro speranze.
Il casus belli dell’eccidio fu la vittoria elettorale dei socialisti alle elezioni amministrative del 3 ottobre 1920, conquistata contro un inedito blocco d’ordine formato da liberali, nazionalisti, combattenti, che da lì a qualche mese daranno vita alla costituzione del fascio di combattimento, e il neonato Partito popolare, qui attestato su posizioni clerico-conservatrici. Una coalizione ampia incoraggiata dai rappresentanti locali dello Stato (commissario prefettizio, maresciallo dei carabinieri e delegato di P.S.), che, se non impedì ai socialisti di affermarsi con oltre duecento voti di vantaggio, innescò comunque nuovi processi politici.
Il 14 ottobre, giorno fissato per rinsediamento della nuova amministrazione, i socialisti promossero una manifestazione che si sarebbe conclusa con l’atto simbolico della bandiera rossa da issare al balcone del municipio. Una pratica abbastanza diffusa nei comuni della Capitanata, che però incontrò la fortissima ostilità dei partiti di opposizione disposti a tutto pur di impedire questo «affronto».
Le forze dell’ordine, massicciamente presenti e schierate, respinsero il tentativo dei dimostranti socialisti di penetrare nel municipio sparando all’impazzata e lasciando sul campo 14 morti (tra cui due donne e un carabiniere) e 85 feriti.
L’insensata repressione degli organi dello Stato non bloccò nelle settimane successive l’elezione della nuova giunta, capeggiata dal giovane avvocato Luigi Tamburrano né frenò subito l’ascesa dei socialisti dauni, che conquistarono la maggioranza assoluta dei voti alle elezioni provinciali e ben 27 amministrazioni comunali. In realtà fu il classico canto del cigno. Perché da quel momento si sviluppò la controffensiva delle squadre armate fasciste, che si diedero ad assaltare le sedi socialiste, le camere del lavoro e anche i municipi. Cominciava così quel periodo buio che avrebbe portato alla fine dello Stato liberale ed anche della democrazia.
Michele Galante
corrieremezzogiorno