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1620: IL SACCO DEI TURCHI A MANFREDONIA

Il Duca Don Pietro di Ossuna, non contento del suo incarico di Viceré del Regno di Napoli, nutrì il pensiero di staccarlo dalla Corona spagnola e di farsi egli sovrano di Napoli, A tale sco­po armò a sue spese 20 navi e arruolò 16.000 soldati. Molti erano i suoi parti­giani, capitanati da Don Giulio Genui­no. Se non vi riuscì, fu perché la nobiltà napoletana inviò a Madrid prima Fra’ Lorenzo da Brindisi e poi Don France­sco Spinelli e Don Lelio Brancacci. per riferirne al Re, Filippo IV, che alla fine lo rimosse e destinò a Napoli, nel 1619, a sostituirlo il Card. Borgia.

Succeduto nel Vicereame di Napoli a Don Francesco de Castro, l’Ossuna aveva chiesto e ottenuto dalla Città di Napoli un donativo di 1.200.000 ducati e un prestito di 454.367 ducati e dalla Corte di Spagna un aumento di 15.000 ducati dell’appannaggio vicereale. Ave­va ordito una congiura per fare assas­sinare i Senatori veneziani, perché con­trari agli interessi spagnoli, contrastati dai Duchi di Savoia e di Mantova nella questione della successione del Monfer­rato. Aveva combattuto contro i Turchi, saccheggiatori delle città del litorale adriatico, e catturato molti loro vascel­li e galee, dando prova sia d’astuzia che di ardimento. Ma s’era pure procurato molti odi e rancori del patriziato napole­tano, che si riteneva da lui vessato.

Preavvertito, quindi, del suo proba­bile richiamo in patria, il Duca di Ossu­na. che pure non esitò poi, ad avvenuto richiamo, a ritornare in Spagna, nelle more, mentre faceva apparente mostra di una devota obbedienza, incoraggiò i Turchi a invadere il Regno, prometten­do loro l’appoggio e il favore del popolo napoletano. Adescati da queste promes­se, i Turchi vi si prepararono e il loro Capudan Chalil Pasha calafatò la sua flotta di 40 galee a Navarino, prese a Damasco due annonarie e reclutò i piloti occor­renti, per viaggiare verso Manfredonia, innanzi alla quale ormeggiò il 16 agosto 1620.

I Manfredoniani avevano eletto, nel 1619, i pubblici amministratori della loro città e quindi si trovavano in carica quale Mastrogiurato Don Pietro Quirino, quale Eletto Don Eusannio del Nobile e quale Tesoriere Don Luciano Beccarino. Erano Pretore Don Antonio Perez e Castellano Don Ferdinando Valasco.

Tutti costoro rimasero attoniti al triste annunzio dell’avere ormeggiato i Turchi a Chianca Masiello e a Cella del Fico. Prevedendo la grave iattura, che incombeva sulla loro città, ne infor­marono subito il nuovo Viceré Card. Borgia, sollecitando soccorsi. Molti cittadini cercarono scampo da una sicura incursione nemica nella fuga sulle vici­ne montagne o verso le città finitime. I notabili, le famiglie nobili e ricche, 72 preti, 10 frati e 70 monache trovarono rifugio nel Castello, ove furono pure trasferiti grandi tesori e molti oggetti preziosi. Fu alzato il ponte levatoio del­la fortezza e ne furono chiuse e bene assicurate le porte.

La flotta turca, postasi al riparo dal fuoco delle artiglierie del Castello, sbarcò numerosi armati, i quali, per non esserne colpiti, raggiunsero i monti sovrastanti e da essi irruppero nella cit­tà per le Porte Nuova, o della Tribuna, e Foggia, o dello Spuntone. Penetrati nell’abitato, si impossessarono agevol­mente dei bastioni della cinta muraria, che trovarono ben provvisti di cannoni e munizioni. Dagli stessi bastioni, una parte dei Turchi aprì il fuoco contro il Castello, altri si impadronirono della Torre delle Cisterne e di Palazzo Visco, punti dominanti la fortezza. Altri ancora si riversarono nelle case, nelle chiese, nei conventi, nei monasteri, facendo scempio di tutto e raccogliendo largo bottino. Non contenti, procedettero alla distruzione e all’incendio di tutto quanto non potevano asportare, spar­gendo ovunque la devastazione.

La città rimase così, in breve tempo, completamente deserta.

I Turchi restarono assoluti padroni dell’indifeso abitato, ma non del Castel­lo, e, sapendo che in esso s’era rifugiata la parte migliore della cittadinanza e vi era stata trasferita la parte più preziosa delle civiche ricchezze, tentarono ripe­tutamente di penetrarvi, restando sem­pre uccisi o respinti.

Tre giorni durò questo stato di cose. Al tramonto i Turchi si ritiravano al si­curo sulle loro galee e ne discendevano all’alba.

Nel Castello, intanto, cominciavano a mancare le provviste. L’assedio as­sillava i rifugiati con un duro dilemma: morire d’inedia o essere tradotti schiavi in Turchia. Lo scoraggiamento era ge­nerale. Le milizie, indebolite dai disagi, mal si prestavano a un prolungamento della difesa. Era mancato l’arrivo di soc­corsi e non si aveva più speranza che essi potessero ormai giungere in tem­po. Raccolti in assemblea generale, mi­liti e rifugiati decisero d’arrendersi per avere almeno salva la vita. Sul bastione di levante fu issata la bandiera bianca e subito un ufficiale turco si avvicinò alle mura. Gli fu proposta la resa della fortezza, purché a onorevoli condizio­ni. Riferita tale richiesta a Chalil Pasha, questi l’accolse: la fortezza doveva es­sere sgombrata entro due ore, la milizia disarmata e i ricoverati non potevano portar seco, all’uscita, alcun oggetto.

Lo stesso Chalil Pasha fece erigere un padiglione all’ingresso del Castello e vi prese posto in compagnia di un inter­prete, tenendo una clessidra in mano, per assistere all’uscita de­gli assediati, i quali dovet­tero sfilare, mezzo ignudi, davanti a lui, fra i dileggi delle schiere turche. Così, alle ore 14 del 18 agosto 1620, i Turchi, già padroni della città, lo furono pure del Castello, che spoglia­rono di tutte le ricchezze contenutevi. Invasi quindi dal timore dell’eventuale sopraggiungere di soccor­si, partirono in gran fretta, portando seco tutto il ricco bottino del sacco dato alla doviziosa città e lasciando tracce, ormai incancellabi­li, della loro feroce incur­sione, che essi avevano in­teso che servisse di monito ai Napoletani.

Il Viceré Card. Borgia, ricevute le infauste notizie dell’incursione turca, spe­ditegli dal R. Governatore Don Antonio Perez, dispo­se immediatamente l’invio di 2000 cavalieri in aiuto dei Manfredoniani. Questi però, giunti ad Ariano, tro­varono un messo mandato loro dal Castellano Don Ferdinando Velasco, con l’annunzio che la città era stata già saccheggiata, che il Castello s’era arreso e che i Turchi avevano ormai abbandona­to il lido sipontino.

I soccorritori decisero quindi di far ritorno a Napoli. Il Castellano, accusato di tradimento per l’avvenuta resa, fu imprigionato e rinchiuso nel Castello di Barletta, ove morì ancor prima che la causa fosse discussa.

Le religiose ricoveratesi nel Castello furono destinate dall’Arcivescovo Card. Ginnasio nel Convento delle Celestine di Monte S. Angelo e in quello della Mad­dalena di Foggia e dal Vescovo Mons. Domenico D’Aponte di Troia in vari altri conventi della sua diocesi.

Si procedette alla stima dei danni subiti dalla città e ne risultò che tutte le ville e case erano state saccheggiate, di­roccate e incenerite, il Duomo, le Chiese e i Monasteri erano stati tutti spogliati e demoliti, l’Episcopio danneggiato, le ricche teche derubate, le sacre reliquie sparse per strada. Quanto di queste era rimasto fu recuperato e, raccolto in una cassetta di piombo, fu deposto sotto

l’altare maggiore del Duomo.

Gli archivi erano stati sconvolti o dati alle fiamme e con essi furono perse le più antiche memorie della città, tra cui cinque voluminosi tomi degli Annali di Siponto, i privilegi sovrani, i registri notarili. Fu recuperato solo qualche documento mezzo abbruciacchiato.

I Turchi avevano pure asportato 36 cannoni di bronzo, lasciando nelle loro postazioni solo quelli di ferro, e le campane delle Chiese, meno quelle dei Conventi dei Frati Predicatori e dei Fra­ti Minori Conventuali, non ritenute di pregio. Avevano pure asportate tutte le granaglie dai magazzini e dal Piano delle Fosse.

Si procedette a un approssimativo conteggio delle vittime: i 700 Turchi e 1.000 Manfredoniani. Molti cittadini era­no stati catturati, ridotti in schiavitù e venduti nei mercati di Costantinopoli. Fra questi v’era il Canonico della Catte­drale sipontina Mons. Angelo Tamburrano, che, creduto morto, era stato dal­l’Arcivescovo surrogato.

Dopo molti anni, men­tre il Capitolo si radunava per officiare nel Coro, i Canonici vi trovarono seduto un vecchio lacero e malandato. Avendolo essi invitato ad allontanarsi, egli si fece riconoscere e pretese rispetto e mante­nimento del seggio occu­pato prima della sua cat­tura. Durante l’incursione turca, peraltro, egli aveva provveduto a occultare il tesoro del Capitolo, che fu puntualmente rinvenuto intatto.

Fra le donne ridotte in schiavitù fu una graziosa giovinetta, di nome Giacometta Beccarini, che venne offerta in dono al Sultano e perciò ospitata nel Serraglio (harem). Di­venuta la favorita di quel Califfo, divenne madre e fu chiamata dalla Corte ottomana “Grande Suktana .

La sua vicenda è nar­rata in vario modo.

Si disse che apparte­nesse a ricca e distinta famiglia toscana, senese o fiorentina. Il padre, che occupava un alta posizione nella milizia spagnola, era stato distaccato a Manfredonia, donde era richiamato in patria per urgenti affari. Perciò aveva allora affidato questa figlia, che egli aveva per il suo più grande tesoro, alle Clarisse di Manfredonia. Avvenuta l’incursione turca, le Suore erano fuggite dal Convento, abbandonandovi ­la fanciulla. Penetrati i Turchi nel Convento, la trovarono dormiente senza scomporsi, sorrise loro ingenuamente e, ammirata dal luccichio delle loro armi, disse loro che pur d’esse s’ornava suo padre. I Turchi rimasero ammirati di tanta ingenuità e della sua leggiadria, onde, senza farle alcun male, la portarono seco a Istanbul per offrirla in dono al Sultano.

Altri hanno affermato invece che Giacometta Beccarmi era stata chiesta in moglie da Edoardo Malavolti. Il padre di costei gliela aveva negata per antico odio delle due famiglie. L’aveva rinchiusa perciò nel Convento delle Clarisse, trasferendola da Siena a Manfredonia. Rapita quivi dai Turchi nel 1620, era sta­ta chiusa nel Serraglio e, morta la Sulta­na, essa era stata proclamata Sultana.. Aveva dato alla luce un figlio, Simulan­do di volere con lui recarsi in pellegri­naggio alla Mecca, s’era fatta, per pre­via segreta intesa, rapire dai Cavalieri Gerosolimitani di Malta, su una galea comandata dal Priore di Bagnari, Fra’ Fabrizio Ruffo. Il figlio Osman era stato battezzato dal Vescovo di Bari, Mons. Tommaso Ruffo, che lo aveva ammesso nell’Ordine dei FF. Predicatori, col nome di Fr. Ottomano. Morto il Sultano, costui era stato chiamato a succedergli sul trono, ma vi aveva rinunziato, per non abiurare il Cristianesimo. Era vissuto a Napoli e vi era morto in odore di santità nel Monastero della Concordia. I Duchi di Bagnara erano in possesso di sue re­liquie.

E’ certo, a parte queste narrazioni, che Giacometta, divenuta Sultana, si fece ritrarre in abbigliamento ottomano e mandò il quadro in dono proprio alle Clarisse di Manfredonia.

Tale quadro, restaurato a cura del­l’amministrazione municipale, si trova­va nel 1932 esposto nel Gabinetto del Podestà “prò tempore” di Manfredonia.

Tra l’altro, Antonio Barberini, Car­dinale Protettore dei FF. Minori, officiò nel 1639 l’Arcivescovo sipontino Orazio della Molara di raccomandare a Giovan­ni Tommaso Beccarino, fratello di Giacometta, “Sultana di Costantinopoli”, di intervenire presso la sorella per otte­nere facilitazioni per alcuni Conventi di FF. Minori e riottenere alcune reliquie sottratte dai Turchi nell’incursione del 1620.

Un maggiore racconto, pur roman­zato, della vicenda può leggersi in “L’Islam e la Croce” di Cristanziano Serricchio (Venezia, Marsilio, 2002), testo di pregevole fattura.

Dopo l’abbandono di Manfredonia da parte del Turchi, l’Arcivescovo Gin­nasio, che si era rifugiato a Monte S. An­gelo, .ritornò a Manfredonia e si prodigò nel consolare gli afflitti superstiti, nel richiamare in patria i profughi e nel dare riassetto alla città. Chiese e ottenne dal Governo spagnolo che per un trenten­nio tutti coloro che fossero andati ad abitare in Manfredonia godessero dell’esenzione da imposte e da qualsiasi altro gravame fiscale.

Il Capitolo Metropolitano cominciò ad adunarsi, per officiare, nella Cappel­la di San Marco. Il Castello fu affidato al Capitano Don Giovanni Ceshavlaxa, che nel 1265 sposò la vedova di Traiano Affatati di Bari. Fu costui che, mal sop­portando la posizione preminente di palazzi privati sul Castello, il che lo ren­deva praticamente indifendibile, fece abbattere il piano superiore di Palazzo Visco, dal quale i Turchi avevano potuto bombardare la fortezza.

Le Clarisse tornarono al loro Con­vento, dopo che fu restaurato. Le Cele­stine, non essendo più fruibile né riattabile il loro Convento, furono ospitate nel Palazzo di Città, che allora si chiamava Casa della Pubblica Cancelleria, o Palaz­zo Pretoriano, divenuto poi Convento delle Benedettine.

Fu ricostituito il Parlamento manfredoniano e, avendo esso ceduto la propria sede a quelle Suore, occupò il Convento della Maddalena, nel quale attualmente risiede l’Amministrazione Municipale.

Manfredonia riprese a vivere.

Emilio Benvenuto