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COSTITUZIONE E ANARCHIA IN VIESTE NEL 1848

Dopo la breve parentesi costituzionale del 1848, più imposta dagli even­ti che voluta, Ferdinando II di Borbone diede subito inizio al giro di vite che lentamente, ma in modo inesorabile portò al soffocamento di ogni libertà. La reazione raggiunse gli angoli più remoti nel Regno delle Due Sicilie e nume­rosi furono i processi politici che vennero celebrati presso le varie Gran Corti Criminali. Spesso colpirono nel segno e severe condanne, anche alla pena capitale, fecero pagare a caro prezzo gli aneliti di libertà dei patrioti (1). Altre volte, invece, l’azione giudiziaria fu provocata, specie nei piccoli centri, più che dal fatto politico, esistente si, ma marginale, da vere e proprie faide tra famiglie già da tempo in lotta per la supremazia cittadina, oppure da rancori personali da soddisfare. E’ in quest’ultima categoria che vanno collocati i pro­cessi celebrati presso la Gran Corte Criminale di Lucera per i fatti accaduti nel 1848 in alcune cittadine del Gargano come S. Giovanni Rotondo, Monte Sant’Angelo, Sannicandro, Rodi e Vieste.

Il procedimento penale a carico di numerosi cittadini di Vieste (o Viesti, come allora si chiamava) è forse quello che più degli altri desta un certo interesse per le implicanze non solo di ordine politico, ma anche e soprattutto sociale ed economico, dalle quali scaturisce un vivace spaccato della vita nel centro costiero garganico intorno alla metà del secolo scorso.

Nel 1849 Vieste contava 5.108 abitanti (2) ed era una attiva cittadina, nonostante restasse piuttosto isolata dal resto della provincia sia per la sua posizione periferica che per la rilevante carenza di strade (per raggiungere Foggia occorrevano circa sedici ore di viaggio). La sua economia era basata principalmente sulla produzione di olio, di mandorle, di agrumi e di un parti­colare tipo di resina (manna), la migliore che si potesse trovare nel regno e ritenuta rimedio efficacissimo nella cura dei “mali del petto” (3), e poi anche su un ampio commercio di legnami, di carbone e di olio, grazie al suo porto che, secondo in Capitanata dopo Manfredonia, registrava a qull’epoca un mo­vimento di navigazione di circa trenta bastimenti al mese, anche se quasi tutti di navigazione di cabotaggio.

Se buona poteva, quindi, considerarsi in complesso la condizione eco­nomica della cittadina garganica, non altrettanto era, nei primi mesi del 1848, la situazione politica.

La locale borghesia liberale era divisa in due fazioni dilaniate non tanto da contrasti ideologici, quanto dalla difesa di interessi privati. Da una parte c’era la borghesia agraria, liberale moderata che, contenta della costituzione ottenuta e desiderosa della sua piena attuazione, mirava ad impadronirsi salda­mente del potere politico nell’amministrazione locale per meglio resistere alla pressione dei contadini che volevano attuare il “comunismo” inteso come spin­ta all’occupazione e alla ripartizione delle terre; dall’altra i commercianti e il ceto intellettuale della borghesia, liberali progressisti, o, meglio, radicali, i quali alla costituzione chiedevano, invece, una maggiore rappresentatività popola­re, una più diretta gestione del potere sia a livello locale che centrale. La rivalità tra i due gruppi risaliva ad una profonda ed inveterata inimi­cizia che da tempo regnava tra le famiglie Petrone, Vigilante, Caizzi, Code e Del Viscio, liberali moderati, e le famiglie Medina, Nobile, Bosco e Spina, li­berali radicali, intorno alle quali si erano raggruppati o per legami di sangue o per interesse numerosi parenti ed amici. I capi, nonché i principali ispiratori della complicata strategia dei due gruppi, erano Matteo Petrone, Capitano della Guardia Nazionale, già carbona­ro nel 1820, amico di Guglielmo Pepe e appartenente alla setta dell’Unità Ita­liana, e Andrea Medina, sindaco. All’origine del dissidio vi fu un contenzioso sorto tra l’amministrazione comunale di Vieste e i fratelli Petrone. Questi ulti­mi, Filippo, Matteo, Gaetano e Michele, erano proprietari di un grosso alleva­mento di pecore e di capre che tenevano quasi per l’intero anno sui pascoli comunali e per parecchio tempo, fino a quando cioè uno di essi, e precisa- mente Michele, fu sindaco, non pagarono la fida nella misura dovuta (4). Que­sto abuso a lungo andare mise ancora di più in difficoltà l’amministrazione di Vieste che già non riusciva, a sua volta, a corrispondere annualmente al fisco l’imposta sui demani risecati che la Giunta del Tavoliere le aveva assegnato (5). Quando, però, nel 1846 fu eletto sindaco Andrea Medina l’illecito ebbe termine e in una riunione del 25 ottobre dello stesso anno il Decurionato di Vieste, dopo aver attentamente esaminato la vertenza dei Petrone le cui richie­ste erano in netto contrasto con la legge del 26 aprile 1834 per la quale ogni cittadino aveva l’obbligo di corrispondere la fida di pascolo all’amministrazio­ne, considerando che i pastori i cui armenti godevano solamente per alcuni mesi all’anno del pascolo comunale pagavano una fida di carlini tre per ogni animale, decise a maggioranza di respingere la richiesta dei fratelli Petrone di pagare la fida “in privilegio e per transazione” come “ingiusta e non fondata” perchè ogni agevolazione che si concedeva ai Petrone avrebbe pesato su tutti gli altri allevatori (6). Anche l’Intendente Patroni fu di questo avviso e inviò a Vieste il consigliere provinciale Vincenzo D’Ambrosio di San Severo (7) col compito di accertare la reale entità della somma che i Petrone dovevano paga­re. E, dopo aver rifatto il ruolo della fida, D’Ambrosio li tassò per cinquecento ducati annui invece degli ottanta che fino ad allora avevano pagato. Dopo questa decisione i rapporti fra i Petrone e i Medina non furono, ovviamente, dei più idilliaci, tuttavia la costituzione concessa da Ferdinando II sembrò cancellare con un colpo di spugna ogni risentimento, alimentando la speranza di un avvenire migliore del passato, grazie agli incarichi di prestigio ai quali tutti i galantuomini aspiravano nel nuovo regime costituzionale. Infatti i fratelli Petrone unitamente al sindaco e al Decurionato si prodigarono la mattina del 7 marzo 1848, dopo che le autorità giudiziarie ed amministrative di Vieste ebbero giurato fedeltà al re e alla costituzione, a formare il corteo popolare alla testa del quale attraversarono il paese al suono della banda, gridando “Vivi Pio IX, il Re nostro signore e la costituzione” (8). La tregua fu di breve durata perchè ben presto la rivalità fra le due fazioni, “animate da malevoli passioni”, esplose in tutta la sua violenza, dando luogo ad avveni­menti che, apparentemente senza alcun legame tra loro, sono in realtà ricon­ducibili ad una stessa matrice, finalizzata a intimorire gli avversari ed a scre­ditarli agli occhi delle autorità con scritti, spesso anonimi, e poi anche nei confronti della popolazione che, ignara delle trame abilmente ordite, diventa­va una potente arma nelle mani ora degli uni, ora degli altri. Si era venuto a creare in Vieste, dove quasi tutti in quel periodo giravano armati, un clima di continua tensione a soffrire il quale era la povera gente che, invece di godere della ventilata libertà concessa dallo statuto costituzionale, si vedeva in qual­che circostanza privata, per ritorsione, dei più elementari diritti come quello di macinare il grano e di rifornirsi di legna. Inoltre chi si rifiutava di eseguire certi ordini veniva persino sottoposto ad un linciaggio morale per mezzo di odiosi scritti che venivano affissi in luoghi pubblici (9).

Insomma la vita “nella gemma del Gargano” (10), come già allora era definita Vieste, era diventata quasi impossibile. E a tutto ciò non bisogna dimenticare di aggiungere il malcontento dei contadini. Quando Ferdinando II il 9 febbraio 1848 firmò lo statuto costituzio­nale, anche il popolo sperò in un sollievo alla sua vita misera e, in modo particolare, i contadini intravidero la possibilità che finalmente ci sarebbe sta­ta la tanto sospirata divisione delle terre. La costituzione tradiva, però, queste aspettative; tuttavia le nuove idee costituzionalistiche e democratiche si so­vrapposero alle vecchie rivendicazioni dei contadini del Gargano, le cui finali­tà di lotta rimasero quelle di sempre, per di più acutizzate di recente dalla carestia e dalla crisi economica. A Peschici, a Monte Sant’Angelo e a San Giovanni Rotondo la ribellione dei contadini fu repressa dalla Guardia Nazio­nale. A Vieste, dove non c’era un efficiente corpo della Guardia Nazionale, e il motivo lo vedremo più avanti, la rabbia dei contadini, che in un primo momento aveva portato all’invasione e alla divisione dei terreni appartenenti al demanio comunale, in seguito fu strumentalizzata e diretta dal gruppo Me­dina – Bosco all’occupazione delle grosse estensioni di terreno che appartene­vano a Francesco Code e ad altri proprietari, amici del Petrone, che se ne erano precedentemente impossessati ed erano odiati perchè arricchiti con usu­re ed estorsioni. L’invasione delle terre di Francesco Code, direttore dei dazi indiretti, personaggio molto influente a Vieste, fu preceduta da una subdola azione denigratoria nei suoi confronti. La notte tra il 23 e il 24 -febbraio 1848 alcune persone notarono che una barca sostava nell’ampia rada antistante il Convento dei Cappuccini e “faceva taluni segni a fuoco che sembravano corrisposti da un fanale posto ad una finestra del Convento” (11). Ciò fece nascere la voce che tra i frati si nascondesse “il nemico della nazione”, l’odiato monsignore Celestino Maria Code, nativo di San Giovanni Rotondo, Arcivescovo di Patrasso, famigerato confessore di Ferdinando II, al quale lo stesso re aveva imposto di lasciare Napoli il 26 gennaio precedente. Il popolo, sobillato, insorse e pretese che la notte stessa fosse perquisito il monastero, obbligando la Guardia Nazionale c il giudice regio Politi a farlo. La perquisizione non diede, però, esito positivo. Di monsignor Code non fu trovata alcuna traccia, nè, ammessa la sua presen­za a Vieste, sarebbe stato possibile il contrario, considerando i recessi di cui solitamente erano fomiti i conventi. Il sindaco Medina, però, accusando il giudice regio per le sue “forme stancanti e dilatorie per           , qualche tempo dopo sosteneva con assoluta certezza in una lettera all’Intendente che il prelato era stato a Vieste fino a tutto il 27 di quel mese (12). L’episodio fu, comunque, accortamente sfruttato da Medina, Nobile, Bosco ed altri, i quali, tirando in ballo la parentela che univa il vescovo a Francesco Code, gli incitarono contro la folla che saccheggiò la sua casa e tentò persino di ucciderlo. Fu a stento salvato dall’intervento di alcuni galantuomini. Ormai il Direttore dei dazi indiretti era nell’occhio del ciclone ed ogni occasione era buona per rinfacciargli che si era arricchito tartassando la povera gente. Quando, ad esem­pio, il corteo del 7 marzo attraversò Vieste, inneggiando alla costituzione, non si verificarono incidenti di rilievo. Solo nel momento in cui la folla passò davanti alla casa di Code si udì gridare minacciosamente “Abbasso i ladri” (13). Dopo questi precedenti riuscì facile a Vincenzo Medina alla fine di mar­zo del 1848 spingere un gruppo di contadini pastori, che pretendevano il dirit­to di pascolo, ad invadere i fondi di Francesco Code. Prima abbatterono una parte dei muri che recintavano il parco di Valle delle Macine e lo aprirono al pascolo dei loro animali, poi, dopo qualche mese, la stessa sorte toccò al par­co Valle Zizzarri. Francesco Code denunziò per l’accaduto i fratelli sacerdote Vincenzo e Domenico Protano, Andrea e Pietro Cariglia, Francesco Antonio Papalano, Matteo Pastorella e Giorgio Iannoli. Il giudice regio di Vieste li condannò ad un anno di carcere ciascuno, al pagamento di complessivi ducati 107,50 per i danni causati e alle spese processuali. I condannati si appellaro­no, però, alla Gran Corte Criminale di Lucerà che assolse il sacerdote Vincen­zo Protano e modificò per gli altri la sentenza a tre mesi di prigione e “soli­dalmente” alle spese di giudizio (14). Ma Francesco Code non fu il solo a subire l’occupazione delle terre. Nel maggio dello stesso anno il sindaco, il cancelliere Pasquale Abruzzini, i fratelli Carlantonio e Giovanni Vincenzo No­bile, cognati del sindaco, e il sacerdote don Vincenzo Protano, per rendersi benemeriti agli occhi della popolazione, misero in giro la voce che il Consi­glio d’intendenza aveva deliberato che i contadini potevano impadronirsi del frutto degli alberi ed esercitare gli altri usi, tra cui quello dell’erba statonica, cioè del pascolo estivo dall’8 maggio al 29 settembre, nelle difese di S. Tecla, Campo e Piscina dei Frati, quest’ultima già invasa nei primi mesi del 1848 dai contadini di Peschici e sulla quale non erano ancora cessati gli abusi (15). Uno dei proprietari Michele Caniglia, del comune di Rivisondoli, a nome di tutti gli altri, presentò una denunzia, avallata da Antonio Spinelli, già Inten­dente di Capitanata dal 1818 al 1820, al Direttore di Polizia Scorza e all’inten­dente Fuccilo in cui, dopo aver esposto la situazione di estremo disagio in cui erano costretti a vivere dagli avvenimenti, chiedeva alle autorità, soprattutto locali, di restituire “la pace alle oneste famiglie e la quiete a quello infelice paese… impedendo a quelle popolazioni di fare ancora irruzione su’ beni al­trui e violenze ed oltraggi al sacro diritto della proprietà” (16). L’episodio, però, più clamoroso dell’intera vicenda fu, senza dubbio al­cuno, la cacciate del giudice regio. Emilio Politi fu nominato giudice nel Circondario di Vieste il 24 luglio 1846, proprio nel periodo in cui il contenzioso per il pagamento della fida dei pascoli fra l’amministrazione comunale e i fratelli Petrone era nella fase più acuta e nella cittadina garganica già avvenivano “torbidi politici”. Agli inizi del suo mandato si mantenne al di sopra delle parti, ma in seguito, essendo, come amava spesso mettere in evidenza, “di opinione liberale sebbene mode­rato” (17), passò, anche per l’influenza che su di lui esercitava il farmacista Luigi Del Viscio (18), dalla parte di Matteo Petrone che in quel tempo era giudice supplente. E l’apporto del giudice si rilevò subito determinante. Quando con decreto del 13 marzo 1848 fu istituita la Guardia Nazionale in cui la nomina degli ufficiali superiori era riservata al re e quella degli ufficiali infe­riori e dei sottufficiali era elettiva, in provincia per occupare tali cariche si fece, in genere, ricorso agli intrighi (19). A Vieste i candidati alla carica di Capitano della Guardia Nazionale erano Carlantonio Nobile, cognato del sin­daco, e Matteo Petrone. Fu eletto quest’ultimo con l’appoggio del giudice Poli­ti che inferse così il primo duro colpo alla parte avversa, ma non il solo, perchè a coprire l’incarico di giudice supplente, lasciato dal Petrone, propose Raffaele Vigilante, che apparteneva al gruppo, a scapito di Vincenzo Medina, cugino del sindaco. Il comportamento del giudice scatenò la reazione dei Me­dina e dei Nobile i quali non solo impugnarono con un ricorso al Ministro dell’Interno la legittimità della nomina di Matteo Petrone, il quale, a loro dire, come giudice supplente non poteva candidarsi alla carica di Capitano della Guardia Nazionale, ma sostennero anche la protesta degli esclusi dalle liste della Guardia Nazionale, affermando che tutti ne dovevano far parte, e questo perchè, aumentato il numero dei militi, si procedesse ad una nuova elezione del Capitano, invalidando la precedente. Infine chiesero esplicitamente all’In­tendente che il giudice Emilio Politi che “voleva immischiarsi in tutto farsi a tutti superiore e rompere ogni legame ed armonia”, manifestandosi in ciò “degno agente della abolita polizia, i di cui noti abusi spaventarono questa buona popolazione”, fosse allontanato da Vieste, anche perchó nella vita pri­vata il giudice si era, come scrisse il sindaco, “coperto d’infamia per fatti orrendi che taccio per non lordare la mia penna” (20).

L’intendente Coppola rispose in data 15 aprile che per trasferire il fun­zionario ci volevano fatti, prove e non parole, perchè, egli scrisse, “se ogni cittadino nell’attuale libero sistema governativo vive sotto la garanzia della legge, nè può venir molestato senza formale giudizio, uguale e più forte ga­ranzia gode un pubblico funzionario” (21). Ciò che stava avvenendo a Vieste, però era seguito con una certa ap­prensione dalle autorità provinciali, tanto che il nuovo intendente Andrea Lombardi, giunto a Foggia il 18 aprile, appena venne a conoscenza dei fatti, chiese al Procuratore Generale del re presso la Gran Corte Criminale di Luce­ra la sostituzione del giudice Politi perche “nelle attuali circostanze politiche”, egli scrisse, “è cosa assai interessante che i giudici regi riscuotano nei capo- luoghi di circondario la piena fiducia ed armonizzino con tutti senza pendere da alcuno de’ partiti che disgraziatamente vedono regnare particolarmente ne’ piccoli comuni” (22). A Vieste intanto Medina e i suoi erano impegnati a raccogliere le prove richieste contro il giudice e, anche se l’affare presentava non poche difficoltà, in quanto nessuno se la sentiva di parlare per timore di vendetta, alla fine riuscirono a mettere insieme un nutrito dossier nel quale le colpe di Emilio Politi erano scrupolosamente elencate e ognuna di esse era seguita anche dal nome dei testimoni. Il tutto fu inviato al Ministro di Grazia e Giustizia a nome dei cittadini del circondario di Vieste i quali aprirono il loro “cahier des doléances” sostenendo che “E’ mostruoso vedere ancora in carica un uomo che si è venduto infame oppressore del pubblico e persecutore degli infelici” (23). Queste le accuse:

  • si appropiava, dicendo che veniva distribuito ai poveri, del denaro ricavato , dalla vendita delle olive che le guardie rurali sequestravano e depositavano nel giudicato;
  • estorceva denaro per la formazione delle liste della Guardia Nazionale;
  • quando l’Intendente gli affidò il compito di scegliere chi poteva far parte della guardia d’onore, obbligava tutti gli aspiranti a versargli quattro o cinque ducati;
  • nelle cause civili indirizzava i contendenti da avvocati di suo gradimento;
  • era superbo e maltrattava chiunque, anche pubblicamente;
  • infine, l’accusa più infamante, aveva stuprato Lucia Grima, un’orfanella di sette anni.

Sin dal suo arrivo a Vieste il giudice aveva mostrato di essere “così in­temperante e rotto a vizio di lussuria che giunse a muovere ad indignazione gli abitanti dell’intero circondario da lui amministrato. Egli non poneva men­te allo stato o condizione delle donne e cercava di sfogare la sua libidine in tutti i modi” (24). Numerose furono le donne, anche sposate, da lui insidiate. Oggetto delle sue particolari attenzioni erano anche le detenute che, soprattut­to se giovani e piacenti, venivano di notte introdotte, con la complicità del carceriere, nella sua abitazione perchè egli ne approfittasse. Ma la vera igno­minia il giudice la commise quando la sera del 24 dicembre 1847, vigilia di Natale, la piccola Lucia Grima si recò a casa sua per chiedere l’elemosina. Fattala entrare, le diede una moneta d’argento e la condusse nella sua camera da letto dove le usò violenza trasmettendole anche una terribile malattia vene­rea. La bimba voleva gridare, ma il bruto con una mano le chiuse la bocca perchè le grida non fossero udite. Dopo le tolse la moneta che poco prima le aveva donato, le diede un pezzo di pane e la mandò via (25). La serva del giudice Marianna Cirillo, che aveva intuito l’accaduto, divulgò il misfatto e fu perciò arrestata dal Politi con l’accusa di “aver parlato male del magistrato”. La liberò dopo sei giorni di carcere duro, quando i figli della malcapitata minacciarono di ucciderlo. La poveretta morì però dopo pochi giorni in conse­guenza degli stenti a cui era stata sottoposta.Venuti a conoscenza di queste nefandezze, il Procuratore Generale del re e l’Intendente stavano provvedendo con sollecitudine al trasferimento del­l’indegno funzionario, anche perchè volevano evitare che fosse insultato e malmenato “con grave scandalo della giustizia” (26), allorché la situazione a Vieste precipitò.La mattina del 30 aprile 1848, domenica, giorno lieto per i Viestani ricorrendo la festa di S. Giorgio, il santo patrono, si sparse la voce che si voleva cacciare il giudice dalla città e davanti alla farmacia di Sante Nobile si radunarono una trentina di persone “tra galantuomini, artieri e uomini di piaz­za”, tra i quali fu notato anche Vincenzo Medina. Qualcuno gridò “fuori il giudice, fuori lo scellerato, fuori il ladro, fuori l’occhiorizzo” (termine que­st’ultimo che nel dialetto locale stava a significare il debosciato), e niente si udì che riguardasse lo stupro della bambina. Ma l’energico intervento del Ca­pitano della Guardia Nazionale Matteo Petrone e la processione del santo che in quel momento usciva dalla chiesa sciolsero l’assembramento. A questo pri­mo fallito tentativo un altro ne seguì dopo poche ore. Erano le quindici e molta gente era raccolta nella parte centrale del paese detta Largo del Fosso (ora Piazza Vittorio Emanuele II), intenta a divertirsi, quando, per una strana coincidenza, alcuni marinai provenienti da Bari diffusero la notizia che il Ve­scovo di Molfetta e l’Intendente di Bari erano stati cacciati dalle rispettive città dalla folla che inneggiava alla costituzione (27). La novità si sparse rapi­damente, suscitando nella popolazione di Vieste il desiderio di fare altrettanto con l’indegno giudice. Vincenzo Medina e Carlantonio Nobile non si lasciarono sfuggire l’occasione per raggiungere finalmente il loro scopo e questa vol­ta, per incitare ancora di più la folla, pensarono di tirar fuori la storia dello stupro. Medina mandò subito Gaetano del Piano, cugino della ragazza, a pren­derla in casa della sorella e, col pretesto di portarla in farmacia, la fece con­durre in mezzo alla gente, dove suo zio Pasquale Tantimonaco la prese, la sollevò e mostrò al popolo “le di lei pollate parti pudende… a segno di pietà verso di lei e di indignazione verso il giudice” (28) e, gridando “abbasso l’infame, abbasso il galeota, lo svergognato, l’assassino”, incitò i presenti a punire l’autore di tanto misfatto. La folla tumultante corse allora verso il regio giudicato, dove il giudice Politi abitava, ma non lo trovò, perché, temendo il peggio, aveva trovato nel frattempo rifugio in casa di una certa Margherita Silvestri dove lo andarono a prelevare Sante Nobile, Carlo Bosco e Pasquale D’Errico e a stento lo sottrassero al linciaggio poiché molti volevano percuo­terlo con grossi bastoni e qualcuno tentò anche di colpirlo con pietre. Gli fu comunque imposto di uscire da Vieste sopra un asino, seguito per lungo tratto dalla folla che lo insultava e lo scherniva. Alcuni galantuomini, tra cui anche il sindaco e Carlantonio Nobile, lo accompagnarono illeso fino a Focareta, una località a considerevole distanza dal paese, da dove, su una barca apposi­tamente noleggiata, raggiunse Manfredonia.Il giorno successivo, 1° maggio, Matteo Petrone informò dell’accaduto l’Intendente con un dettagliato rapporto in cui molto diplomaticamente mise in evidenza come il suo intervento unitamente a quello “dell’ottimo” sindaco ave­va salvato la vita al giudice (29).L’intendente Andrea Lombardi, in quel particolare periodo, non aveva però i mezzi per ristabilire l’ordine a Vieste, perchè insufficenti erano gli uomini sia della Guardia Nazionale che della Guardia di Pubblica Sicurezza che aveva a disposizione (30).Scrisse, infatti, in margine al foglio inviatogli dal Petrone ” i fatti anar­chici continuano e noi ci ridurremmo al più deplorevole stato. Ma che fare? Quando avremo forza fisica sì, renderemo forza morale. Si scriva in tanto riprovando il fatto”. Nel leggere quelle notizie il funzionario dovette provare per prima la rabbia dell’impotenza e poi subito un senso di fatalistica rasse­gnazione, unito alla consapevolezza che sarebbe stato il primo, e forse l’unico, a pagare le conseguenze di quegli avvenimenti.Intanto il giudice Emilio Politi dopo i drammatici fatti “non mai pro­dusse querela o istanza di punizione contro i suoi offensori e espressamente ha rinunciato a qualunque azione penale”. Tuttavia il processo per la sua espulsione, fu istruito d’ufficio “nella ipotesi che gli insulti si fossero praticati contro un magistrato per occasione dell’esercizio delle sue funzioni” (31). In attesa dell’esito del processo fu inviato ad Orta (l’attuale Ortanova); quando la Gran Corte Criminale di Capitanata con decisione del 9 novembre 1850 stabilìche era stato scacciato da Vieste non per motivi inerenti la sua funzione pub­blica, bensì per le “di lui laidezze e irrefrenate lascivie”, fu rimosso dal suo ufficio, ma non subì alcuna condanna perchè i parenti della bimba non sporse­ro denuncia nei suoi confronti.Con un cinismo veramente unico, però, l’ex giudice non perdeva occa­sione per mettere in rilievo il vero motivo della sua destituzione. A Monte Sant’Angelo ad alcuni suoi conoscenti disse che era stato cacciato da Vieste “per affari di brachetta”‘, a Foggia riferì a un certo Michele Massarotti “di essere avvenuta la sua espulsione per opera della cafoneria di Vieste, per affare di brachetta”‘, a Lucerà, infine, nella farmacia di Vincenzo Tandoia dichiarò “che era stato cacciato da Vieste non per affari di carica, ma per cose di brachetta” (32).Comunque l’allontanamento di Emilio Politi non bastò a restituire la tranquillità agli abitanti di Vieste, perchè la lotta tra le due fazioni continuò ancora senza tregua. Ad accendere gli entusiasmi popolari che spesso si tra­mutavano in veri e propri tumulti, il cui scopo era, in sostanza, unicamente quello di mettere sempre maggiormente in evidenza la incapacità della Guar­dia Nazionale di Vieste e del suo Capitano a mantenere l’ordine, bastava che “vari emissari incitatori alla indisciplina e alla inobbedienza” diffondessero ad arte notizie riguardanti sia i piccoli fatti locali che i grossi avvenimenti europei di quel travagliato periodo che fu il 1848 che venivano apprese, anche se con un certo ritardo comprensibile a quei tempi, dalla lettura giornali sovversivi” che avveniva nella farmacia di Sante Nobile, luogo di incontro di quei “pochi notabili demagoghi” che formavano il gruppo Medina – Nobile (33). Così avveniva che “gli ultimi accadimenti di Vienna” (34); “le voci di recenti rivolte avvenute nè Reali Domini oltre il Faro, ove dicevasi inviate altre truppe” (35); “le vittorie riportate dagli ungheresi sulle imperiali truppe austriache e russe” (36); “i disturbi di Rodi con lo sparo di fucilate” (37); e, infine, la notizia che di tutte le altre avrebbe dovuto essere la logica conse­guenza “che l’Augusto nostro sovrano stava con due piedi in una scarpa”, messa in giro da Carlantonio Nobile al suo rientro da un viaggio a Napoli, co­stituissero il pretesto di continue tensioni a causa delle quali quasi tutti a Vie­ste giravano armati. E nulla poteva fare in realtà la Guardia Nazionale per porre rimedio ad una situazione che andava sempre più degenerando, perchè, oltre ad aver un organico incompleto, non essendosi mai proceduto alla nomi­na dei sottufficiali a causa delle note polemiche suscitate dalla elezione a Ca­pitano di Matteo Petrone, i militi che ne facevano parte venivano costretti “da influente autorità”, con minaccie più o meno velate, a non prestare servizio.Nel frattempo, in attesa che venisse nominato il titolare, la carica di giudice nella cittadina garganica fu affidata al supplente Raffaele Vigilante, il quale, insieme al padre Antonio, proprietario terriero, era un elemento di spicco del gruppo dei Petrone. Entrambi erano capaci di tutto e la rapidità e la determinazione con cui attuavano i loro disegni era tale che tutti li soprannominavano “Saetta e Saettino”. Elementi quindi, sotto un certo aspet­to, più pericolosi del deposto giudice per i Medina e i Nobile i quali non tardarono ad accorgersene. Infatti la prima mossa del giudice supplente fu quella di accusare di brogli elettorali il farmacista Sante Nobile e il medico Carlo Bosco, segretario del collegio elettorale sia nelle prime che nelle secon­de elezioni dei deputati al parlamento (38). I due, secondo l’accusa, avevano consegnato agli elettori “ipolizzini”, cioè le schede, su cui erano già scritti i nomi di Zuppetta, Ricciardi e Lanza (39), “distornando il libero suffragio de­gli elettori del comune di Vieste” e, in occasione della seconda elezione, scris­sero anche proteste contro il re, come quella in cui si leggeva che “non era egli padrone di ordinare la novella elezione dei deputati” (40). In quella cir­costanza ai due vennero anche attribuite frasi, a dir poco irriguardose, nei confronti di Ferdinando II.Sembra che Sante Nobile abbia detto: “Io mi fatto di quel fesso del re borbone”, e Carlo Bosco: “Quel fesso del re, figlio di puttana, è morto tre quarti, una gli è lasciata. Deve uscire dal regno assolutamente. Vogliamo Carlo Alberto”. La reazione dei due accusati non si fece attendere molto e poco mancò che il 13 luglio 1848 non scoppiasse un tumulto di vaste proporzioni. Carlo Bosco, Sante Nobile e i loro amici, infatti, sparsero artatamente la voce che alcuni galantuomini, ovviamente della fazione avversa, tra cui Placidino Cop­pola, Sante Vincenzo Nobile, primo tenente della Guardia Nazionale, Pasqua­lino Petrone, Vincenzo Abruzzini e Giambattista Foglia, “desiderosi di com­mettere atti di lascivia sulle donne del basso volgo di Vieste, volevano fare dei tentativi di proclamare la repubblica e piantare l’albero della libertà onde ottenere il doppio fine di perdere maggiormente i loro nemici e nel sub­buglio e nel tumulto di tal fatto godersi le donne dei lavoratori” (41). E, per rendere la cosa più credibile, si impossessarono dell’albero di una nave che era custodito nel trappeto di Gaetano Petrone e cercarono di convincere, dietro compenso, un tale Michele Maiorano a piantarlo al centro del Largo del Fos­so. Costui, però, considerando i rischi a cui sarebbe andato incontro, si rifiutò di farlo. Le popolane di Vieste, intanto, avendo udito che si voleva instaurare la repubblica per macchiare il loro onore, indignate oltre che allarmate, man­darono a chiamare i loro uomini che lavoravano nel bosco i quali, infuriati, corsero in paese armati di scuri e di armi improprie, decisi ad ammazzare chiunque avesse osato piantare l’esecrabile albero. Solamente Matteo Petrone con alcuni militi della Guardia Nazionale e soprattutto il canonico don Tom­maso Fazzini convinsero “il ceto dei massari e dei bracciali” che mai sarebbe accaduto una cosa simile. E mentre tutta Vieste era in fermento, il sindacoAndrea Medina e il cognato Carlantonio Nobile erano tranquillamente seduti nella farmacia di Sante Nobile ad attendere l’evolversi degli eventi, leggendo i giornali (42).Nel denunziare questo grave episodio all’Intendente il sindaco non tra­scurò di curare la sua immagine di tutore dell’ordine chiedendo l’invio a Vie­ste di una decina di guardie di pubblica sicurezza, anzi fece pure presente di avere già inviato una lettera al capitano della guardia nazionale in cui lo invi­tava a collaborare al mantenimento della calma nel paese e ad operare “ogni modo onde rendere soddisfatti gli ordini superiori”. L’Intendente, che era ancora Andrea Lombardi, aveva ben capito che il vero, grave problema di Vieste era il violento dissidio esistente tra questi due personaggi e, ritenendo di poterlo comporre convocandoli a sè, non prese al­cun drastico provvedimento.

Mandò a Vieste un distaccamento di guardie di pubblica sicurezza che vi rimase fino ai primi di novembre e in una lettera al sindaco si limitò ad esortarli alla collaborazione scrivendo che “se la guardia nazionale, composta de’ migliori cittadini fosse strettamente unita e non lacerata da civili discor­die, partorite da mal concepite passioni e fomentate da’ tristi, non avrebbero sconcerti, ed invece si godrebbero in pace le libere istituzioni come in quei luoghi ne’ quali regna la concordia. Prima dunque che si vada incontro a guai maggiori e deplorabili, bisogna che ella col capitano della guardia na­zionale renda questa forza compatta, imponenete ed operosa e che, in caso di nuovi ammutinamenti siano all’istante arrestati i capi e passati al potere giu­diziario” (43). Ma il direttore di polizia Abatemarco non gli perdonò questa debolezza e, dopo essersi rammaricato che la Capitanata e, in modo particolare il Cir­condario di Vieste, non era andata esente da “quello spirito di libertinaggio e di anarchia” che ha turbato il regno, rammentò ad Andrea Lombardi che com­pito dell’Intendente, oltre a quello di incitare i propri funzionari a compiere il loro dovere, era anche quello di punire severamente coloro che nei momenti difficili “si facevano notare per oscitanza ed altri mancamenti” (44). Così il 18 agosto 1848 Andrea Lombardi fu esonerato dalla carica di Intendente della Capitanata e al suo posto fu nominato il 17 ottobre successivo Giuseppe De Marco il quale, contrariamente al suo predecessore, agì con rapidità e decisio­ne. Egli infatti capì subito che per ridare serenità agli abitanti della cittadi­na garganica, prima di ogni altra cosa, bisognava agire drasticamente sui due principali responsabili dei mali viestani: il sindaco e il capitano della guardia nazionale. La destituzione del sindacò Andrea Medina avvenne subito nei pri­mi giorni del dicembre 1848 (gli successe, dopo travagliate elezioni, Orazio Nobile); la rimozione, invece, dal grado di capitano della guardia nazionale di Matteo Petrone richiese tempi più lunghi che l’Intendente accellerò, dando se­guito a varie petizioni rivolte, a suo tempo, al re e al ministro dell’interno dello stesso sindaco, da Carlantonio Nobile e controfirmate da numerosi citta­dini che chiedevano lo scioglimento del corpo della guardia nazionale di Vie­ste perchè non era in grado di poter garantire l’ordine e il rispetto delle leggi. Il decreto che ne ordinava il disarmo (primo caso nel Regno delle Due Sicilie) fu emanato nel maggio del 1849.

Un ulteriore passo verso la normalizzazione venne fatto con l’arrivo del nuovo giudice regio Francesco Rossi di Accadia il quale, se bene fosse stato nominato il 29 luglio 1848, raggiunse Vieste solo il 25 novembre dietro solle­citazione del nuovo Intendente (45).

Egli si trovò subito in una situazione, a dir poco, drammatica: accolto con diffidenza, aveva il difficile compito di svolgere le prime indagini per accertare le responsabilità di quanto era accaduto e non poteva fare alcun affi­damento sulla guardia nazionale per la quasi totale inefficienza in cui versava. Chiese perciò subito all’Intendente l’invio a Vieste di un distaccamento di dra­goni o di qualunque altra arma, scrivendo che era indispensabile per “frenare l’abuso che quasi tutti impunemente si permettono di asportare stili, baionette, bastoni animati ed altre armi Vietate ed anche perchè non evvi chi possa eseguire un mandato di deposito, di accompagnamento ed altro, per cui la giustizia trovasi in tale rallentamento che quasi viene vilispesa da’ medesimi delinquenti e facinorosi” (46). Solamente il 10 marzo 1849 il generale Mar­cantonio Colonna di Stigliano comandante la forza mobile in Puglia, ordina al colonello Matteo D’Afflitto, comandante delle armi nella provincia di Capita­nata, di mandare a Vieste un drappello di guardie di pubblica sicurezza per garantire l’incolumità personale al giudice (47).

Naturalmente tutta la ingarbugliata vicenda ebbe un seguito giudiziario. Per i fatti accaduti a Vieste ben quattro furono i processi celebrati presso la Gran Corte Criminale di Capitanata in Lucerà e settantasei gli imputati “fra i quali trovasi”, come ebbe ad affermare l’avvocato Francesco Di Giovine di Lucerà che li difese tutti, “i più distinti valentuomini per l’impegno, per mo­rale e per dovizie” (48). Una prima istruzione fu affidata nel luglio del 1849 a Follieri, Giudice Istruttore del Distretto di Foggia f.f., residente in Lucerà, alla conclusione della quale i principali capi d’accusa furono: “cospirazione diretta a cambiare la forma di governo” per Sante Nobile,Carlo Bosco, Carlantonio Nobile ed altri; “ostacoli diretti al libero esercizio degli altrui diritti garantiti dalla legge in persona di Emilio Politi, regio giudice del Circondario di Vie­ste” nei confronti di Andrea Medina e molti altri; “diroccamento di macerie e occupazioni di due fondi sativi, erbiferi e macchiosi di proprietà di Code Francesco” a carico di Francesco Papalano, Giorgio Iannoli, Domenico Profa­no ed altri. Gli imputati furono arrestati il 7 giugno 1850 e sottoposti ad interroga­torio il giorno successivo. Tutti si protestarono, ovviamente, innocenti, chie­dendo che fossero ascoltati circa duecento testimoni “di tutta fede e probità”. La Gran Corte Criminale, “onde rischiarare le circostanze di fatto dedotte negli interrogatori”, accolse la richiesta e dispose una seconda istruzione del processo, affidandola, questa volta, al Giudice Istruttore titolare del Distretto di Foggia Prologo, il quale, per meglio assolvere il delicato incarico, si recò a Vieste. Ma lo scrupoloso giudice non portò a termine il suo compito e lasciò le cose a metà, perchè dopo minuziosi indagini, si accorse che l’interrogatorio dei testimoni “lungi di porgere più chiaro lume di verità”, l’avrebbe forse “perduta o almeno oscurata”. Così il 6 agosto 1850 inviò tutti i documenti raccolti alla Gran Corte Criminale , chiedendo ad Antonio Pepe, Procuratore del re “ulteriori e precisi rinsegnamenti all’esatto e più sicuro compimento degli obblighi del mio ministero” (49). Che cosa poteva aver spinto il magi­strato ad una decisione così grave? A Vieste, come in altre parti del regno, dopo le delusioni seguite alla costituzione, dalla quale, in sostanza, nessuno aveva tratto i benefici sperati, i galantuomini avevano posto termine alle loro lotte di potere e la sospensione prima e l’arresto poi del sindaco, il disarmo della locale guardia nazionale, la triste esperienza delle prigioni che alcuni di essi stavano vivendo, aveva indotto tutti a più miti consigli. Il giudice istruttore dovette, quindi, avere la convinzione che alla fine della sua istruttoria si sarebbe trovato di fronte ad “un’altra verità”, chiara­mente in contrasto con la precedente e, nella certezza che a quel punto fosse ormai difficilissimo trovare il bandolo della matassa in quella intrigatissima vicenda, declinò l’incarico. La Gran Corte Criminale ritenne poco valide e futili le ragioni addotte da Prologo e stabilì che l’istruzione fosse proseguita e terminata dal Giudice Commissario della Causa Mongelli residenza”, cioè a Lucera. Così con l’interrogatorio dei nuovi testimoni tutti a discarico e la ritrattazione delle accuse da parte dei testimoni a carico, quaranta dei quali affermarono di essere stati corrotti dal farmacista Luigi Del Viscio, si chiuse finalmente la fase istruttoria. Il processo che seguì terminò con la sentenza del 9 novembre 1850 che assolse quasi tutti gli imputati (tranne quei pochi, come abbiamo visto, con­dannati per aver occupato e danneggiato i fondi di Francesco Code) e li rimi­se in libertà “per la in corrispondenza dei fatti raccolti col primo processo e quelli sviluppati dal proseguimento delle istruzioni” e la Gran Corte Crimina­le, inoltre, “vietava ogni ulteriore procedimento” (50).

Il Pubblico Ministero, tuttavia, il 5 dicembre 1850 impugnava la deci­sione con un ricorso per annullamento alla Suprema Corte di Giustizia perchè la Gran Corte Criminale “mancava di giurisdizione per conoscere de’ reati di competenza corregionale”. Il ricorso fu respinto il 24 gennaio 1851 ed ebbe così termine la vicenda forse più singolare del risorgimento in Capitanata, i cui principali protagonisti però furono, secondo la prassi, ancora per qualche tempo sottoposti a stretta vigilanza da parte della polizia borbonica. Ma non accadde più nulla e la loro esistenza rientrò nella normalità, tanto che il nuovo giudice regio di Vieste Antonio Profilo scriveva all’Intendente il 3 novembre 1851 che Carlantonio Nobile e Carlo Bosco avevano “serbato condotta irre­prensibile sotto tutti gli aspetti di religione, di polizia e di morale” e, concludeva “io credo, se ella diversamente non stima, di potersi accogliere le domande dei signori Nobile e Bosco che chiedono la reintegra nella opinione di fedeli sudditi di S. M. il Re” (51).

NOTE

  • In tutto il Regno delle Due Sicilie i condannati per i fatti del 1848 furono ottocentocinquanta di cui quarantasette a morte, tredici all’ergastolo e tutti gli altri ai ferri. In seguito, però, le pene capitali vennero commutate in venticinque ergastoli e ventidue condanne ai ferri, per cui si ebbero complessivamente tren­totto ergastoli e ottocentododici condanne ai ferri. Vedere Appendice ARDITO P., Le avventure di Nicola Morra ex bandito pugliese, Monopoli, Stabilimento Tipografico Nicola Ghezzi, 1896.
  • ASANTE F., Città e campagne nella Puglia del secolo XX. L’evoluzione democratica, Libraire Droz, Ginevra, 1975.
  • GIULIANI V., Memorie storiche, politiche, ecclesistiche della città di Vieste, Saluzzo, 1873, p.18.
  • La fida era il prezzo dei pascoli del Tavoliere che i pastori pagavano alla Dogana per ogni capo di bestiame piccolo (pecore, capre e agnelli) o grande (vacche, buoi, giumente).
  • Quando i locati (pastori o proprietari) non corrispondevano al fisco la fida dovuta, la Giunta del Tavo­liere procedeva al distacco di una parte del terreno fiscale (riseca) che, al momento della censuazione, veniva richiesto dai comuni e ad essi assegnato dietro versamento di un canone annuo.
  • Archivio di Stato di Foggia (d’ora in poi A.S.F.), Sezione di Lucerà, Gran Corte Criminale di Capitana­ta, Processi Penali, F. 373, f. 3261, foglio 96.
  • VINCENZO D’AMBROSIO di Felice, nato ITI gennaio 1813, era dottore legale. Fu sindaco di San Severo dal gennaio 1845 al gennaio 1847.
  • EMILIO POLITI a GAETANO COPPOLA, Viesti 7 marzo 1848. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 196, f. 5585.
  • EMILIO POLITI a GAETANO COPPOLA, Viesti 28 marzo 1848. A.S.F., Polizia Serie 1A, F. 147, f. 1669.
  • ANDREA MEDIA a GIUSEPPE AURELIO LAURIA, Viesti 25 aprile 1848. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 195, f. 5562.
  • GAETANO COPPOLA a CARLO POERIO, Foggia 4 marzo 1848. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 196, f. 5585. Il primo nucleo del convento fu costruito nel 1634 nel punto in cui la spiaggia di S. Lorenzo forma un’ampia insenatura.
  • ANDREA MEDINA a GAETANO COPPOLA, Viesti 7 aprile 1848. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 195,, f. 5562.
  • EMILIO POLITI a GAETANO COPPOLA, Viesti 7 marzo 1848. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 195, f. 5585. La casa di Francesco Code si trovava di fronte alla farmacia di Luigi Del Viscio nella via Forno Danelli, ora via Veste.
  • A.S.F., Sezione di Lucerà, Gran Corte Criminale di Capitanata, Processi Penali, F. 375 f. 3272, foglio 288.
  • Le riseche di S. Tecla e Campo, di complessive carra 76 e versure 10, erano divise tra il demanio di Vieste e il Regio Fisco. Confinavano con il Mare Adriatico, con Pugnochiuso, con il Demanio di Vieste, con il bosco di Vieste e con il territorio di Monte S. Angelo. La riseca di Piscina dei Frati, di carra 5, era anch’essa in parte divisa tra il demanio di Vieste e il Regio Fisco. Confinava con il territorio di Peschici, con Macchia Pastinelli, con il demanio di Vieste, con il territorio risecato dal demanio di Peschici a favore del Regio Fisco. A.S.F., Tavoliere di Puglia, b. 28, f. 454, 2v. – 2 bis r.
  • FRANCESCO SCORZA a GIROLAMO FUCCILO, Napoli 20 maggio 1849. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 203, f. 5672.

EMILIO POLITI a GAETANO COPPOLA, Viesti 7 marzo 1848. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 196, f. 5585.

  • Originario di Vico, aveva nella centralissima via Forno Danelli una farmacia che era il luogo di riunione del gruppo Petrone e per questo fu minacciato di morte, tanto che dovette per qualche tempo rifugiarsi nel paese natio. Proprietario terriero, non aveva particolari ambizioni politiche, badando princi­palmente a curare i propri interessi tra cui il commercio dell’olio di oliva che vendeva sul mercato di Trieste con la mediazione del sensale Angelo Raffaele Lucatelli che lo teneva informato dei prezzi. I medicinali che Del Viscio vendeva nella sua farmacia erano “ottimi“, non escluso il solfato di chinino e i prezzi erano convenienti. Vedere Francesco Rossi a Orazio Nobile, Viesti 20 gennaio 1850. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 208, f. 5963.
  • La guardia nazionale fu istituita per difendere la costituzione e per mantenere l’ordine e la pace pubblica. Di essa potevano far parte “i proprietari, i professori, gli impiegati, i capi d’arte e di bottega, gli agricoltori e in generale tutti coloro che avendo i mezzi di vestirsi a proprie spese, presentino per la loro probità conosciuta sicura guarentigia alla società“. Erano esclusi i magistrati, gli ecclesiastici, i militari, i componenti la forza doganale, i custodi delle prigioni e gli altri agenti subalterni di giustizia e di polizia, i domestici, i condannati per furto, frode e fallimento, i vagabondi e i mendicanti (Legge del 13 marzo 1848, n. 9, in CoU. LL. DD., pp. 146 – 154).
  • ANDREA MEDINA a GAETANO COPPOLA, Viesti 7 aprile 1848. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 195, f. 5562.
  • GAETANO COPPOLA a ANDREA MEDINA, Foggia 15 aprile 1848. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 195, f. 5562.
  • ANDREA LOMBARDI a GIUSEPPE AURELIO LA URIA, Foggia 25 aprile 1848. A.S.F., Polizia Serie Ia, F. 147, f. 1669.
  • A.S.F., Polizia Serie Ia, F. 147, f. 1669.
  • A.S.F., Sezione di Lucera, Gran Corte Criminale di Capitanata; Processi Penali, F. 60, f. 974.
  • Dalla deposizione di Lucia Grima fatta al giudice istruttore del Distretto di Foggia Gioacchino Prolo­go il 10 luglio 1850 in A.S.F., Sezione di Lucera, Gran Corte Criminale di Capitanata, Processi Penali, F. 373, f. 3261.
  • GIUSEPPE AURELIO LAURIA a ANDREA LOMBARDI, Lucera 25 aprile 1848. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 195, f. 5562.
  • Il vescovo Giovanni Costantini fu cacciato da Molfetta il 16 aprile 1848 e si rifugò in Napoli. Vedere Archivio Diocesano di Molfetta, Fondo Capitolo, Conclusioni Capitolari 1847 – 1853, foglio 18. Anche l’intendente di Bari Giuseppe De Cesare, accusato di gravi responsabilità nella conduzione amministrativa della provincia, fu costretto dal popolo a lasciare la città (Museo Civico Bari, Miscellanea, doc. n. 45).
  • À.S.F., Sezione di Lucera, Gran Corte Criminale di Capitanata, Processi Penali, F. 309, f. 2808.
  • MATTEO PETRONE a ANDREA LOMBARDI, Viesti Io maggio 1848. A.S.F., Polizia Serie Ia, F. 147, f. 1669.
  • Dopo la concessione dello Statuto Costituzionale, il corpo della gendarmeria fu sciolto perchè partico­larmente odiato nel periodo in cui era comandato da Del Carretto e il servizio di polizia giudiziaria fu affidato dal 17 marzo 1848 ad un nuovo corpo, la Guardi adi Pubblica Sicurezza.
  •  A.S.F., Sezione di Lucera, Gran Corte Criminale di Capitanata, Processi Penali, F. 375, f. 3272.
  •  A.S.F., Sezione di Lucera, Gran Corte Criminale di Capitanata, Processi Penali, F. 60, f. 974.
  • MATTEO PETRONE a GIUSEPPE DE MARCO, Viesti 10 novembre 1848. A.S.F., Polizia Serie Ia, F. 147, f. 1669.
  • A Vienna con una rivolta iniziata il 13 maggio 1848 i liberali, dopo aver sopraffatto la truppa, hanno imposto l’allontanamento del Mettemich, la libertà di stampa e la concessione della costituzione.

Nel settembre del 1848 imponenti forze borboniche attaccarono Messina e riuscirono a vincere la disperata resistenza della popolazione solo dopo un feroce bombardamento che causò gravissime perdite umane.

  • Si allude alla valorosa resistenza degli ungheresi guidati da Lajos Kossuth che il 14 aprile 1848 proclamò la decadenza della dinastia degli Asburgo. Agli austriaci comandati dal generale Haynau si uni­rono in seguito i russi dello zar Nicola I e gli ungheresi furono costretti a capitolare a Vilagos il 13 agosto 1848.
  • A Rodi i disordini avvenuti nelTaprile del 1848 hanno provocato il processo contro Pietro Verna ed altri.
  • La legge elettorale, secondo quanto stabilito dall’art. 62 della Costituzione, fu promulgata il 28 feb­braio 1848 e la limitazione imposta dal censo all’elettorato sia attivo che passivo fu ritenuta eccessiva. Un decreto del ministro dell’interno Raffaele Conforti in data 5 aprile 1848 allargò la base censitaria per le elezioni che ebbero luogo il 18 aprile. Dopo i ben noti fatti del 15 maggio, le nuove elezioni, sulla base della legge elettorale di Bozzelli, ritoccata in senso restrittivo, si svolsero il 15 giugno 1848. Sia nelle prime che nelle seconde elezioni la partecipazione fu molto scarsa e furono eletti, grosso modo, gli stessi uomini.
  • LUIGI ZUPPETTA, grande penalista e patriota, nacque a Castelnuovo della Daunia il 20 giugno 1810 e morì a Portici l’8 maggio 1889. GIUSEPPE RICCIARDI nacque a Napoli il 19 luglio 1808 e morì il 1° giugno 1882. VINCENZO LANZA, medico, nacque a Foggia l’8 maggio 1784 e si spense a Napoli il 3 aprile 1860.
  • A.S.F., Sezione di Lucerà, Gran Corte Criminale di Capitanata, Processi penali, F. 60, f. 974.
  • Idem, voi 13°.
  • RAFFAELE VIGILANTE a RAFFAELE GUERRA, Viesti 18 dicembre 1849. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 203, f. 5692.
  • ANDREA LOMBARDI ad ANDREA MEDINA, Foggia 20 luglio 1848. A.S.F., Polizia Serie 1A, F. 147, f. 1669.
  • GIUSEPPE ABATEMARCO ad ANDREA LOMBARDI, Napoli 25 luglio 1848. A.S.F., Polizia Serie 1A, F. 147, f. 1669.
  • Già cancelliere giudiziario del Circondiario di Apricena e di Rotondella, allatto della nomina era giudice supplente nel Circondario di Accadia.
  • FRANCESCO ROSSI a GIUSEPPE DE MARCO, Viesti 22 dicembre 1848. A.S.F., Polizia Serie 2A, F.196, f. 5586.
  • MARCANTONIO COLONNA a MATTEO D’AFFLITTO, Barletta 10 marzo 1849. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 196, f. 5586.
  • A.S.F., Sezione di Lucerà, Gran Corte Criminale di Capitanata, Processi Penali, F. 309, f. 2808.
  • GIOACCHINO PROLOGO ad ANTONIO PEPE, Viesti 6 agosto 1850. A.S.F., Sezione di Lucerà, Gran Corte Criminale di Capitanta, Processi Penali, F. 60, f. 974.
  • Idem.

ANTONIO PROFILO a RAFFAELE GUERRA, Viesti 3 novembre 1881. A.S.F., Polizia Serie 2A, F. 203 f. 5692.

Giuseppe Clemente