Sotto il coperchio della Basilica Concattedrale di Vieste, un San Michele ed un San Giorgio, liberatore di principesse e paesaggi, appaiono in due grandi medaglioni che incentrano una Santissima Trinità con Assunzione.
Le tre opere fanno parte di quella stagione artistica dalla complessa fisionomia culturale, il Settecento, grazioso commiato della tradizione. Un occhio libero ma disciplinato, disteso ma attento, schietto ma raffinato, alla visione dello scenografico plafond, scopre, per propria attitudine e natura, un disturbo gratuito ed inaspettato. Un insulto all’illusionismo ottico. Nel tempo, si verificarono notevoli cadute di colore che, nell’ottocento, furono integralmente rattoppate con posticci interventi pseudo-pittorici (sembra intravedersi l’avanguardia del Villani, naif di Vieste). Lo sfregio fu innocente ed inconsapevole, il danno incalcolabile. Ad una veloce analisi delle opere, si può ipotizzare la presenza di un sicuro artista. Il San Michele librante sugli angeli ribelli, l’allestimento scenografico della celeste Assunzione di Maria, ignara del sottostante angiolone a tre ali, il suggestivo paesaggio del San Giorgio (castello viestano annesso) sono tracce inconfutabili di un certo talento, elevate performance in altri luoghi del secolo. Troppi dettagli denunciano la felice definizione dei modelli pittorici. Del colore originario, disgraziatamente soverchiato dalla maldestra ridipintura, non si intravede nessuna traccia. Tanta scienza ed una evidente incapacità nel realizzare, perenni virtù viestane, coesistono sorprendentemente. A beffa dell’oltraggio, al margine inferiore sinistro della tela centrale, una ulteriore damnatio memoriae pittorica vela tracce epigrafiche: i dati delle opere. Fra restauri, eruditismi e celebrazioni, nessuno si è accorto di quell’indizio scampato allo scempio, trascurando così, almeno a titolo di banale curiosità, i dovuti provvedimenti.
Quanta diligenza nei confronti della vita e dei segni che ci gravitano intorno.
Il vescovo Nicolò Cimaglia, risanatore instancabile della vita sociale e culturale di Vieste, nella sua terza relatio al papa Benedetto XIV, datata 9 Dicembre 1760, così scrive: «…et ut Ecclesiae ornamento esset, ac decori, egregii Pictoris opera depictum volui, qui tres insuper tabulas affabre depictas…» Quanto zelo e fatica si legge tra le righe di quella lunga relatio, descrizione minuziosa ed orgogliosa della rinnovata fabbrica dello squassato duomo viestano. Il nostro vescovo ci dice anche il costo di queste e di altre opere: ottocentocinquanta scudi napoletani, cifra considerevole per l’economia del paesello di tremilaottocento anime. Salvo smentite, è impensabile che delle brutte opere, così come oggi appaiono, siano state poste a chiusura e sigillo della chiesa madre, simbolo di ricostruzione e di rinascita della città.
Da cotanta «fioritura» emergono le due tele della Santissima Trinità e della Presentazione al Tempio del viestano Tomaiulo, tra i viestani il più grande, il più ignorato.Purtroppo, né il luogo né lo spazio ci permettono un’analisi dettagliata del percorso e delle scelte stilistiche del nostro pittore. Solamente alcuni rapidi improvvisi sulla grande tela di San Simeone. Con occhi devoti si rievocano affinità tra il bel profilo mariano del dipinto e quello della statua di Merino. Tutta bella, perciò difficile, la figura protesa della Vergine. Gli astanti, chi appartati in penombra, chi partecipi e curiosi del momento, sono l’intima quinta dell’episodio evangelico. Eccellenza artistica, il raro San Giuseppe in disparte, misurato ed austero al margine, degno contrafforte della sacra pantomima. Tela imponente e sobria, dominata dall’impalcatura di maestose colonne, originaria messa in scena dell’Antico Tiziano. Bastano queste due opere viestane per evidenziare il sicuro discepolato e la dipendenza dai modi del Solimena, dove alcuni motivi, seppure con piglio diverso, sono dei veri e propri duplicati delle invenzioni dell’anziano maestro. E gran mastro d’arte fu l’Abate Ciccio, ma anche ispiratore di uno squadrone di garbatissimi e monotoni pittori, sciame e delizia delle province. Da ricordare, però, nidiate d’eccezione, dalle quali giganteggia la figura del Giaquinto, mago molfettese. Certo è che il nostro illustre concittadino suggerisce un classicismo pittorico più aspro, naturale, più religiosamente vero; un mondo dipinto su trama calcarea, scottature dei suoi luoghi d’origine. Il suo reale valore artistico è ancora tutto da approfondire, così come la sua posizione nel folto e regio vivaio.Questo non è un tentativo occulto di attribuire al Nostro anche l’originaria realizzazione delle tre tele del soffitto. Allo stato attuale, per quanto verosimili, possiamo solo dimenar congetture, salvo inattese e risolutive riesumazioni di documenti. Infine, una personale ed ammiccante insinuazione: è dir poco eccezionale ed imbarazzante la somiglianza tra il San Michele svolazzante in Cattedrale, non ancora pago di giustizia, ed una Minerva in bozzetto del Tomaiulo; ma diciamolo pure: sono uguali.
Associazione «L’Apparenza»
(Franco Lorusso)