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LE TRADIZIONI DI UNA VOLTA: IL NATALE

Nei tempi passati l’atmosfera non era preparata dal fragore dei “botti”, che oggi scoppiano agli angoli delle strade con dispendio di denaro e con il repentaglio dell’incolumità dei passanti, ma dall’ansietà di vivere un giorno insieme per godere le gioie delle pareti familiari.La festa del Natale era un appuntamento importante della vita e ci si preparava con fervore, trepidazione e con spirito di religiosità. Era tanto sentita quest’attesa, che la si ricordava nelle ninne nanne, nelle cantilene, nelle filastrocche, nei proverbi e nei canti popolari sia sacri che profani. C’era nell’aria tanta frenesia da contare quasi quotidianamente i giorni mancanti: “Sante Necola – a Natale diciannove”, “Santa Cuncètta – a Natale diciassètte”, “Santa Lucia – a Natale tridece dìje”.
I giovani, invece, davano l’antifona a questa festività il primo novembre con la strapuletta” cantata dietro la porta della fidanzata:
Cara mia amata speranza
che me saraj chenzorta,
mo’ c’iaccanosce se me purte affètte:
Vaje ‘ncima, sope a lu scupèrte
E purte nuce assaj e sorve na sarte!
Se tu me dàje l’ànnema dli morte,
ìje a Natale te denghe l’affarte.
(Cara amata, speranza che mi sarai consorte, ora voglio vedere se mi porti affetto: vai sopra sul terrazzo e portami tante noci e un serto di sorbe! Se tu adesso mi dai “l’anima dei morti”, io a Natale ti darò l’”offerta” (ovvero la strenna natalizia).
Oggi i mezzi di comunicazione di massa ci hanno fatto dimenticare le antiche tradizioni, hanno standardizzato il nostro comportamento, il nostro linguaggio, il nostro modo di vedere e di pensare. Un tempo a vivacizzare questa importante festività non erano i “botti”, ma l’ansietà di godere con la famiglia le gioie e la serenità delle pareti domestiche. Credo che questo avveniva in tutto i paesi d’Italia, tanto che fu coniato il detto “A Natale con i tuoi, / a Pasqua con chi vuoi”.
Fin dai primi di dicembre, in tutte le case, le massaie si affannavano a preparare le riserve alimentari: salsicce, sopressate, pancette, gelatine di carne, sugna, sanguinaccio, cotognate, mostarde, vincotto, sarde salate, taralli, puparate, scalefatidde e, chi poteva si deliziava a realizzare rosolio, latte di mandorle e limoncino o a conservare il liquoroso moscato, e, inoltre, con le bucce di arance e limone, quelle doppie fatte a strisce, venivano messe sotto zucchero a curarle per fare la frutta candita. In questo periodo avveniva di tutto, specie nelle serate fredde, intorno ai fuochi scoppiettanti dei camini: le nonne raccontavano favole natalizie, si giocava agli indovinelli, alla morra, all’asso piglia tutto, al gioco dell’oca, al ciuccio, al sette e mezzo, alla stoppa, alla tombola… Fra un gioco e l’altro s’intrecciavano canti pastorali, nenie e ninne nanne, sia sacre che profane. A rendere più gioiosa e febbrile l’attesa contribuiva l’immancabile suono delle ciaramelle e delle zampogne dei pastori abruzzesi, venuti a svernare con i loro greggi nel Tavoliere. Il loro modo di vestire era un forte e attento richiamo specialmente per i ragazzi: indossavano un giubbone di pelle di pecora o di capra con tutto il loro pelame, bianco e marrone (u pudduccione), un paio di pantaloni di fustagno o di velluto, le cui estremità si abbottonavano ed entravano nei calzettoni di lana bianca, tenuti fermi da corde intrecciate attorno ai polpacci, proveniente dai calzari, li zampitte, di pelle di capra, con la punta rivolta verso l’alto. Un cappello a cono, quasi sempre sgualcito e stinto, copriva la testa, la camicia dal colletto aperto mostrava la maglia di lana fatta con i ferri, mentre il mantello nero (la cappa) scendeva dalle spalle. I ragazzi, più che apprezzare il giovane che suonava la ciaramella, s’incantavano a guardare l’anziano che con le gote gonfie soffiava nella cornamusa dotata di due o tre otri (pive).
Il periodo vero e proprio natalizio iniziava con la novena dell’Immacolata. Le chiese si riempivano di uomini e donne e risuonavano di canti popolari. Il 13 dicembre, S. Lucia era un giorno particolare, riservato alla meditazione e al sacrificio: in quasi tutte le case si consumava un pranzo povero e molto frugale a base di fave scondite e senza sale (fave gratte), cotte nella pignatta sul fuoco del camino. I devoti più radicali ne mangiavano solo 13 con una fettina di pane a ricordo del martirio subìto dalla giovine santa, che non volle rinunziare alla fede di Cristo.
In questo stesso giorno iniziava anche il computo cabalistico delle Calende, annotando sul calendario le variazioni del tempo, per avere un quadro sulle previsioni del tempo per l’anno nuovo: Il giorno 13 rappresentava il mese di gennaio, il 14 febbraio, il 15 marzo…, il 24 dicembre. Saltato il giorno di Natale, col 26 si ricominciava il computo per la controprova, in senso inverso, vale a dire partendo col dicembre e terminando col gennaio nel giorno dell’Epifania. Se le caratteristiche del tempo collimavano nei rispettivi mesi, le previsioni non si dovevano discostare di molto dalla verità. Il giorno di Natale non veniva contato, ma ad esso il contadino prestava particolare attenzione, perché se era “sicche, lu massare era ricche”, cioè se il tempo era asciutto, secco, la stagione agraria doveva dare ottimo raccolto.
A partire dal giorno dell’Immacolata in quasi tutte le case ci si allestiva il presepio. Partecipi della realizzazione erano i bambini, aiutati dai genitori e dai fratelli più grandi. Lo si realizzava sul comò, su un tavolo o, dove c’era possibilità di spazio su una piattaforma di un paio di metri quadrati. L’ossatura era costituita da contorti rami d’ulivi  o di mandorlo, potati di recente, si ricoprivano con la carta dei sacchetti di cemento, conservati per tempo, per creare montagne, valli e caverne, a loro volta schizzate con la calce liquida, che non mancava mai nelle case, per rompere la monotonia del colore marrone. Il muschio, raccolto qualche giorno prima negli anfratti delle valli o al muriteche, cioè nelle parti di terreno roccioso, dove poco batteva il sole , serviva per fare prati e pascoli. Le strade, che erano tutte dirette verso la grotta, erano segnate dalla farina o dalla rena bianca. Con un po’ di fantasia si realizzavano pagliai con rametti e fili di paglia, case e casette con pezzi di legno, scovati fra i riccioli e la segatura nel laboratorio del falegname compiacente o con cartone sagomato e tutti dipinti con colori vivaci. Un pezzo di vetro o di specchio recintato di muschio rappresentava il laghetto, mentre strisce di carta argentata fungevano da fiumi e ruscelli su cui venivano poggiate piccole anatre di celluloide e pecore in atto di bere.
Non sempre i pupazzi era di creta, molti venivano confezionati in casa con la cera.
Al centro del presepio vi era la grotta che accoglieva Giuseppe e Maria, proni davanti a un cestello con la sola paglia e ai loro lati il bue e l’asinello inginocchiati.
Non c’era lo scintillio delle luci, ma  solo i riverberi del fioco lumino che ardeva nel piattino colmo d’olio, posto nelle vicinanze della grotta.
Tutto questo paesaggio era a sua volta racchiuso, a mo’ di capanna, da rami di ulivo o di pino, guarniti da arance, limoni e corbezzoli.
La sera quando tutto era silenzio, le ombre dei pupazzi allungati, i monti e le valli dalle tante fessure oscure, create dalla soffusa luce del lumino, davano un senso di mistero, di attesa. Noi ragazzi ne eravamo affascinati e col pensiero immaginavamo i lunghi e faticosi viaggi che la gente intraprendeva per visitare il Bambino Gesù.
La novena di Natale era seguita dalla gran parte del popolo, non solo nelle parrocchie anche nelle altre chiese rettoriali. Le donne, in genere, oltre a seguire con devozione i riti natalizi, si dedicavano ai lavori domestici utilizzando anche le ore notturne. Impastavano la farina nella madia per fare il pane, che veniva portato al forno nelle prime luci dell’alba. Per accontentare i figli facevano con la stessa massa un bambolotto con il corpo intrecciato (Cristo in fasce) o delle pagnottine a forma di ranocchie. Fra un gioco e un canto, preparavano calzuncidd, chelustre, cartellate, struffele, crespèlle, cicerate, mustacciule, castagnette, mànnole atterrate e ostia cchiene e le strade profumavano d’olio fritto, di cannella e chiodi di garofano.
Anche i sarti avevano un gran da fare per confezionare vestiti fino a notte fonda: prendere le misure dei committenti, tagliare, impastare e cucire, provare e riprovare, onde essere precisi e puntuali nelle consegne, perché, come diceva il proverbio, “Lu jurne di Natale, – ci mùtene li craunère – e pure le ferrare”. I macellai guarnivano gli stipiti degli ingressi dei loro negozi con sfilze di salsicce, tacchini e di capretti con la testa all’ingiù, infiocchettati con nastrini colorati. Gli ortolani, nei mercati, o agli angoli delle strade, facevano a gare per vendere ogni sorta di verdura sia coltivata che raccolta nei prati.
L’antivigilia di Natale in molti paesi del Gargano si consumava un pranzo molto frugale e quasi sempre a base di verdura oppure fettuccine e ceci (làine e cice), con sugo di baccalà .La sera, in quasi tutte le vie si accendevano le fanoie che duravano fino a dopo la mezzanotte, incuranti del freddo uomini e donne, giovani e anziani, recitavano il rosario e si intonavano le nenie:
“La notte di Natale è notta santa, –  nasce Gesù Bambine a la capanna”
“Quante nascette Ninne a Bettlemme, – jeva notte e pareva mmizejurne”
Nella bragia si cuocevano le patate, che venivano consumate, dopo averci soffiato sopra per allontanare quel tanto di cenere, senza condimento. Prima che il fuoco si consumasse, le donne portavano in casa un po’ di tizzoni ardenti e li depositavano nei bracieri o nel focolaio come reliquia e benedizione del Santo Natale.
I giovani invece si divertivano a parodiare:
lLa notte de Natale nun ce dorme, – ci pigghia la catarre e ci va sunanne »
oppure:
Tu scende dalle stelle – cu nu piatte de filatelle,
Tu scende dalla luna – cu lu piatte de maccarune;
Tu scendi nella grotta – cu nu piatte de ricotta”.
Anche per il mezzogiorno successivo si mangiava la minestra verde, fatta con diverse specie di verdure, condite con un leggero sughetto di pomodoro, sedano e cipolla o li cardune (foglie dei carciofi) con brodo di cotica di maiale, ricoperta da una buona mangiata di formaggio grattugiato o con le uova o l’ardica con olio e sale. Era il cosiddetto digiuno di Natale, imposto da un’antica tradizione e ricordato nel proverbio “Chi nun faj u disciune a Natale, o jè turche o jè ‘nemale”. La sera, però, a secondo gli usi del paesi, il menu era abbondante: insalata di alicette crude, fettine di prosciutto, di salsicce e uova soda; spaghetti con alici salate o con baccalà al sugo di pomodoro; baccalà o capitone in umido o fritto; arance, mandarini, melecotogne, uva e sorbe; noccioline, noci, mandorle abbrustolite. il tutto innaffiato da vino novello e da moscato. Spiluccando pettole, chelustre e calzuncidde, si completava la serata con una chiassosa giocata a tombola. Al suono del campanone della cattedrale o della chiesa madre grandi e piccoli si recavano in Chiesa ad assistere alla Messa di Mezzanotte e alla simbolica nascita di Gesù.
Al rientro anche nelle case, dove c’era il presepio, avveniva la simbolica nascita. Al più piccolo era dato l’onore di portare in processione la statuina del Bambino per tutta la casa, seguito dal resto della famiglia, che in segno di allegria aveva in mano una fontanella accesa dalle mille scintille e intonava il “Tu scendi dalle stelle” di S. Alfonso de’ Liguori. Ed era la mamma a mettere sul pagliericcio il Bambinello.
Il giorno di Natale la mensa era bandita con fumanti piatti di orecchiette, di maccheroni “cu zippr” o di “’ntrùcciule” con ragù, ravioli con ricotta dolce, mentre a cena, la mensa profumava di capretto o tacchino con patate a “racanate”, cotto con fuoco sopra e fuoco sotto. E in entrambi i momenti non mancavano sulla tavola le cannarutizije (leccornie) preparate dalle mamme.
L’indomani, giorno di S. Stefano si consumavano gli avanzi dei giorni prima,o pasti molto frugali a base di minestra verde o di semolino in brodo.
La festa finiva qui. L’indomani si ritornava alla vita normale, ai propri lavori, alle solite faccende. Le strade si spopolavano e, immancabilmente arrivava il freddo e, nei paesi all’interno del Gargano, anche la neve. A salutare questi giorni festivi, un po’ con rimpianto, ma più di tutto con facezia e molta ironia, maliziosamente si cantava
Tre tummule di ‘rane
Ce vonne a Natale:
Une p’li pizze, e  une p’lu pane
E l’aute accurdame le ruffiane
Prim’e Natale né fridde né fame,
dope Natale fridde e fame.
Prim’e Natale cu lu muse vunte,
 dope Natale ci facile li cunte.
Bisognava aspettare ora la festa di S. Silvestro, ultimo giorno dell’anno, per vedere rianimare il paese. Le donne si affannavano negli acquisti per preparare, per la sera, il cenone e i dodici pasti in onore di ogni mese per l’indomani, giorno di Capodanno.
Si trascorreva la serata con balli, giochi di società e tombolate, ma allo scoccare della mezzanotte si usciva fuori per far scoppiare i botti, i tric-trac e le pisciavunnadde o sparare alcuni colpi col fucile. Si cacciava così l’Anno Vecchio e si accoglieva con allegria l’Anno Nuovo.
C’era in quest’occasione una brutta costumanza: si gettavano in mezzo alla strada immondizie e tutti quegli oggetti inservibili, che per la scarsità degli spazzini restavano per giorni, creando uno spettacolo poco edificante e disagevole ai passanti.
In molti paesi i tredici pasti, si consumavano dopo la baldoria di mezzanotte.
Una usanza molto curiosa di fine anno, in voga a Vieste fino a una quarantina di anni fa, era quella del “biglietto di S. Silvestro”. I ragazzi, nella serata dell’ultimo dell’anno, muniti di fogli di quaderni su cui erano elencati i giocattoli che desideravano, e maneggiando, a mo’ di piattini, vecchi coperchi, barattoli ed altri oggetti rumorosi, attraversavano le vie del paese in cerca delle persone calve, costringendole a firmare i foglietti di carta. Più firme riuscivano a collezionare e più possibilità avevano di ritirare i giocattoli desiderati. I malcapitati calvi, se non firmavano, uscivano rintronati dal putiferio prodotto da quegli strumenti assordanti: le loro grida per mandarli via, erano inascoltate. I ragazzi riservavano per ultimo la visita al Circolo detto “dei galantuomini”, perché sapevano di trovare persone dalla calvizie accentuata, come gli insegnanti Sante Jannoli e Vincenzo Carpano, i medici Alfredo Piracci, Ferdinando Nardella e Mimì Medina, l’ing, Lorenzo Diana, il cav. Del Giudice, Attilio Piracci e tanti altri. Questi da uomini di spirito, stavano allo scherzo e autografavano i biglietti. I ragazzi rientrava nelle proprie case aspettando la mezzanotte, per recarsi a S. Silvestro, luogo misterioso ed introvabile. Per raggiungerlo era necessario baciare il sedere la portolano, l’unico che poteva indicare la via. O perché il buio faceva loro paura o perché cadevano dal sonno, nessuno mai si è mosso dalla propria casa. Se qualcuno l’ha fatto, non ha saputo rintracciare né la strada e né il portolano, ed è restato, quindi, a mani vuote.
Matteo Siena