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Facebook e privacy delle immagini, un rapporto difficile

Nato nel 2004 dalla mente dell’allora diciannovenne Mark Zuckerberg, Facebook era inizialmente uno strumento per mettere in contatto gli studenti e i professori delle università americane. Un fenomeno quasi di nicchia, che prima invase l’Università di Harvard (presso la quale era iscritto anche Mark) poi si estese al prestigioso MIT di Boston e a diverse altre università americane, fino a includere le scuole superiori, le grandi aziende e qualsiasi individuo che abbia superato i tredici anni di età. Quest’ultimo passo avvenne l’11 settembre 2006: Facebook era pronto per diventare il social network più popolato del web e superare il suo avversario di sempre, MySpace, fino a quel momento piattaforma preferita per tutti coloro che avevano voglia di condividere qualcosa.

I dati parlano chiaro: nel giugno del 2008 ben 132 milioni di persone risultavano iscritte a Facebook, 15 milioni in più (e non sono pochi) delle cifre registrate da MySpace, e le statistiche sfornate il 31 dicembre 2008 parlano di un superamento di quota 140 milioni. Questo senza contare che la rete di Zuckerberg registra anche una crescita globale senza pari, toccando punte del 403% in Medio Oriente e Africa, 458% in Asia e 10.555% in America Latina. Un vero e proprio fenomeno internazionale, è ovvio, ma non senza risvolti negativi come, ad esempio, la quasi impossibilità di governare le informazioni (più o meno private) che vengono inserite nel network di Mark Zuckerberg all’insaputa dell’utente. 
Quest’ultima specificazione appare necessaria. Molti utenti di internet preferiscono non iscriversi al tanto osannato Facebook solo per paura che alcune informazioni personali possano andare a finire nelle mani di chissà quale individuo sconosciuto. Questo timore – che tra l’altro relega i pochi individui non iscritti a Facebook in un alone di totale "marzianità" rispetto a buona parte della popolazione mondiale  – non è del tutto lontano dalla realtà. O meglio, viene applicato in maniera errata e si focalizza sulla semplice iscrizione al servizio. Pochi di questi timorati sanno che la loro privacy rischia di essere calpestata nonostante la loro totale assenza dalla comunità più grande del web.

Questo perché Facebook è nato come uno strumento per condividere tutto quello che si espone sulla propria pagina con la nostra community privata e, in quanto frutto puro del web 2.0, utilizza tutte le potenzialità della rete per adempiere al suo dovere. Per questa volta, infatti, possiamo tralasciare i tre rischi principali a cui si espone l’utente medio dei social network – ovvero una mancanza di un rapido ed efficace diritto all’oblio, il mantenimento dei dati personali all’insaputa dell’utente e gli scambi di identità – e concentrarci su uno degli strumenti che può infliggere il maggior numero di danni all’immagine di una persona, che ha già causato diverse diatribe legali e che, soprattutto, non può essere assolutamente controllato dai terzi: il tag delle immagini.

Sfruttando gli studi di biometrica facciale, il software destinato al caricamento e alla condivisione delle immagini su Facebook riconosce automaticamente i visi delle persone comprese in una foto, e con il comando "tag" si può automaticamente ricondurre una determinata porzione di immagine a una persona che, per l’appunto, può essere iscritta o meno su Facebook. Nel primo caso, il diretto interessato viene automaticamente avvisato da Facebook che è stato "taggato" in una foto, nel secondo, invece, questo processo dovrebbe essere affidato al buon senso di colui che ha caricato la foto. Una sensibilità, diciamocelo, spesso assente.

Tra i casi principali di danni all’immagine, ripercussioni sulla vita reale e violazione della privacy avvenuti attraverso questo meccanismo di riconoscimento fotografico ricordiamo quello della cheerleader dei New England Patriots Caitilin Davis, espulsa dalla sua squadra dopo che su Facebook sono apparse delle foto in cui era impegnata a decorare con disegni e svastiche un suo amico addormentato, e del recentissimo episodio del pronto soccorso piemontese Molinette, in cui alcune infermiere si fanno immortalare sorridendo accanto a un uomo ubriaco. La foto è stata modificata (sulla pancia scoperta dell’uomo ubriaco è stata aggiunta la scritta "Son ciucco perso") ed è stata pubblicata su Facebook da una terza infermiera. Risultato? Sospensione dal servizio per le tre donne.

Questi sono solo alcuni episodi, i più attuali e forse i più evidenti, di come una pratica innocua come la condivisione delle immagini con il resto della propria comunità virtuale può essere deleteria all’immagine sociale dell’individuo. Un pericolo che incombe sia nei confronti di chi subisce il torto di essere "condiviso" controvoglia, e per di più in condizioni infelici (vedi il ragazzo cosparso di disegni o il malcapitato del pronto soccorso), sia verso tutti coloro che, pensando di strappare un sorriso o un commento simpatico, si ritrovano a dover affrontare pesanti conseguenze. Non che non siano meritate (spetta ad altri decidere) ma che possono sicuramente essere evitate con un minimo di coscienza.

Riccardo Esposito