Ricordo dell’esodo degli italiani dall’Istria e Dalmazia e le vittime delle foibe
Ogni anno, dal 2003, il giorno 10 febbraio la televisione ricorda brevemente, con immagini d’epoca e qualche flash sulle cerimonie attuali, una tragedia che, al termine della seconda guerra mondiale, colpì la popolazione italiana delle province orientali al confine con la Iugoslavia: l’esodo forzato dalla loro terra e le uccisioni di inermi cittadini; le uccisioni solo vagamente risapute.
Io, giovane poco più che ventenne allora, seguii quelle vicende emotivamente coinvolto, anche perché, da ragazzo e negli anni dell’adolescenza ero vissuto con la mia famiglia in una delle città vittime della tragedia, avevo fatto parte della sua popolazione, a Zara, in Dalmazia, un avamposto esuberante di italianità. Quali lo erano altre città, nell’Istria.
Sono passati tanti anni, ma il tempo non cancella la storia, semmai l’arricchisce con le successive riflessioni. Delle quali tiene conto questa mia breve rievocazione.
L’8 maggio 1945 finiva la guerra in Europa. Con il Trattato di Pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, venivano tolte all’Italia sconfitta, e assegnate alla Iugoslavia, Pola e tutta l’Istria (tranne Trieste e un po’ del suo entroterra), le città di Fiume e Zara e alcune isole della Dalmazia. Tra quelle città e cittadine e le consorelle della nostra sponda adriatica scorreva da sempre un filo di simpatia, c’erano stati sempre contatti di vario genere, principalmente commerciali. Penso ai velieri – poi motovelieri – di Vieste, Rodi Garganico e Manfredonia, che trasportavano nelle città dell’Istria e della Dalmazia la produzione nostrana di agrumi, frutta in genere e ortaggi, tornandone qualche volta con del legname particolare, commissionato dalle segherie del luogo, o con qualche ciuffo di agnelli.
Gli italiani di quelle province scelsero in massa, di restare italiani, abbandonarono le loro case, i beni, la sistemazione e vennero nella penisola. Inizialmente furono accolti in campi profughi non tutti ben sistemati, allestiti in fretta e alla meglio, così come fu possibile nell’Italia disastrata di allora, poi gradatamente s’inserirono nel tessuto urbano delle città italiane, ricominciando la vita daccapo. Parecchi emigrarono all’estero, particolarmente in Argentina, Canada e Australia.
L’espansione territoriale degli Stati vincitori a danno dei vinti, sanzionata dal trattato di pace, fu l’ultimo sussulto in Europa di una concezione politica che coniugava la potenza e il prestigio di uno Stato con la conquista dei territori.
Prima dell’esodo, quando le forze partigiane di Tito entrarono nelle città e cittadine già italiane, compirono spietate esecuzioni fra gli italiani Negli ultimi giorni della guerra e in quelli successivi, a Trieste, che si affrettarono ad occupare prima dell’arrivo degli inglesi, dai quali furono fatti sgombrare dopo 40 giorni, uccisero e gettarono i corpi delle vittime nelle foibe (le fosse carsiche variamente profonde), diventate tristemente note per l’eccidio ivi compiuto. Si parla di 5000 italiani. Tra questi, due viestani, Vescera Vincenzo, agente di Pubblica Sicurezza a Trieste, e Cavaliere Francesco a Gorizia. Nella caserma della polizia di Trieste una lapide ricorda lo scomparso commilitone, nostro concittadino.
Quanto avvenne in quei giorni è tanto più sconcertante in quanto la guerra era ormai finita. Pur potendo immaginare la persistenza fra i combattenti di vecchi rancori e una certa assuefazione alla violenza e al sangue costituitasi nei tristi lunghi giorni della guerra, tanta crudeltà messa in atto rimane a dir poco sconcertante.
Per molti anni, dopo la guerra di quella tragedia l’Italia ufficiale ha parlato poco o niente, anche per l’influenza dei comunisti di casa nostra che non volevano attriti cin la vicina Iugoslavia comunista di Tito. Poi, con la dissoluzione del comunismo in gran parte del mondo, a cominciare dal primo Stato che l’aveva attuato, l’Unione Sovietica, mutatis mutandis, la classe politica nazionale ha trovato la maniera di portare alla luce questa pagina della storia rimasta taciuta e nel 2003, ha istituito la «Giornata del Ricordo», fissata al 10 febbraio, giorno anniversario della firma del trattato di pace.
In detto giorno del 2007, ricorrendo il 60° anniversario del trattato di pace, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, uomo al di sopra di ogni sospetto, data la parte politica di appartenenza e l’onestà intellettuale che tutti gli riconoscono, deplorò ufficialmente il silenzio sulla tragedia delle foibe e sull’esodo degli italiani dalle terre perdute, silenzio mantenuto «per pregiudiziali ideologiche e cecità politica — sono sue parole — e per calcoli politici internazionali». Un convincimento che ha voluto ribadire il 10 febbraio di qualche giorno fa, nel corso dell’incontro avvenuto al Quirinale con i massimi esponenti delle istituzioni, le rappresentanze degli esuli giuliano-dalmati e i giornalisti. Le sue parole: «Siamo qui per rinnovare anche quest’anno l’impegno comune del ricordo, della vicinanza, della solidarietà contro l’oblio e anche contro forme di rimozione diplomatica che hanno pesato nel passato… Questo capitolo della nostra storia dev’essere non solo riconosciuto, ma anche acquisito come un patrimonio comune dalla nuova Slovenia e dalla nuova Croazia (sono due degli Stati sorti dalla disgregazione della Iugoslavia, quelli che si sono spartiti i territori tolti all’Italia), che s’incontrano con l’Italia nell’Unione Europea, che è portatrice di rispetto per le diversità e dello spirito di convivenza»».
Ci sono, nelle parole del Presidente Napolitano, sentimento e ragione; c’è l’affermazione che conoscere, ricordare, tramandare, amare la propria nazione, sono valori sempre validi da tenere da conto, a cui occorre aggiungere il rispetto degli altri, delle loro ragioni, della pace su tutto. Cose di cui, grazie a Dio, gli Stati europei già da molti anni si sono resi conto, e di conseguenza, superando secolari divergenze sfociate periodicamente in guerre sanguinose, si sono associati nell’Unione Europea. La diaspora degli italiani dai territori in cui erano nati e vissuti, avanti raccontata, non avrebbe potuto essere, e non potrebbe esserci, in una comunità di Paesi qual è l’U.E., nel cui ambito ogni divergenza può essere risolta pacificamente e la convivenza tra genti di nazionalità diverse nei territori di confine e/o comunque diversi, e dovunque diverse per qualsivoglia motivo, è ormai un dato di fatto, in quanto tutti vogliono vivere in pace.
Tanto è vero che da 65 anni nel nostro continente non ci sono più guerre, si può circolare liberamente da un Paese all’altro, nei momenti difficili, qual è questo attuale in cui l’economia scricchiola, soccorre una certa collaborazione fra gli Stati membri, nel complesso, insomma, ci è possibile guardare con fiducia al futuro. Per cui si procede. Pur tra inevitabili difficoltà, ma con la certezza di essere sulla strada giusta, si procede.
Ludovico Ragno