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Sarà Yossou N’dour e il 95-enne Antonio Piccininno a concludere la XV Edizione del Carpino Folk Fest

Questa sera a Carpino – Piazza del Popolo ore 21.30 Youssou N’Dour “Dakar-Kingston” Cantori di Carpino. "Stile, storia e musica alla Carpinese".

 

Voci celebri e anziani cantori locali si sono alternati sugli strumenti della tradizione a evocare le storie e i desideri, la gioia e il dolore di un popolo della terra che riassume in sé alcuni tra i più importanti significati della Puglia, in dialogo con altre terre e altre musiche della nostra regione, ma poi il viaggio ha guardando oltre di sé, alla musica world, ai tanti altri messaggi musicali dei popoli del mondo per poi ritornare al Gargano. Un luogo di carnale coinvolgimento, ma anche di sognante simbolicità: questa piccola penisola protrusa nell’Adriatico, frastagliata da una scogliera di fascino, ricoperta di boschi e zone umide, punteggiata da borghi antichissimi di civiltà contadina, nelle sere d’estate che dalla calura cedono alle brezze del mare si anima delle voci pregnanti e delle martellanti sonorità del Carpino Folk Festival.

Attraverso questo Viaggio abbiamo pensato di indurre una riflessione sugli anni che stiamo vivendo, i quali hanno visto lo sfaldarsi di una geografia stabile, e insieme hanno accennato a quel processo migratorio che confonderà i confini dei territori a cui faceva riferimento la nostra identità.
Usi, consumi e culture si contaminano e se “morale” o “etica” vuol dire costume, è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche fondate sulla nozione di proprietà, territorio e confine a favore di un’etica che, dissolvendo recinti e certezze, va configurandosi come un’etica del viaggiatore, che non si appella al diritto, ma all’esperienza, perché, a differenza dell’uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà e nel confine, il viaggiatore non può vivere, senza elaborare la diversità dell’esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nell’anima e nel cielo stellato che per ogni viaggiatore hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la vita in tensione.

Fine dell’uomo come lo abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà, del confine e della legge, e nascita di quell’uomo più difficile da collocare, perché viaggiatore inarrestabile, in uno spazio che non è garantito neppure dall’aristotelico "cielo delle stelle fisse", perché anche questo cielo è tramontato per noi. E con il cielo la terra, perché non è più terra di protezione e luogo di riparo.

In questo nostro viaggio tra tempi diversi, luoghi curiosi e personaggi anche fantastici e bizzarri pensiamo a noi stessi secondo quell’"etica del viandante" che ci indica Galimberti: la capacità di Ulisse di prendere le decisioni secondo le situazioni e le prove che man mano deve affrontare, memore della lezione greca del “conosci te stesso”, cioè conoscere prima di tutto le proprie potenzialità e limiti, per non oltrepassarli, per trovare sempre la giusta misura.

Yossou N’dour
"Dakar-Kingston"
Cantante ipnotico, musicista poliedrico, Youssou N’Dour è partito dalla tradizione delle danze "mbalax" del suo Senegal per approdare a un singolare afro-pop.

E’ il musicista africano più conosciuto al mondo, grazie anche alle sue collaborazioni con personaggi come Peter Gabriel, Paul Simon, Sting e Neneh Cherry. La sua musica mescola ritmi africani, caraibici e pop, alla ricerca della perfetta unione tra le radici della sua terra e il panorama contemporaneo, spaziando dall’utilizzo della lingua inglese a quella francese, ma non rinunciando all’espressività del Wolof, la lingua nazionale senegalese.

Nato il primo ottobre del 1959 nella Medina, uno dei quartieri storici di Dakar, in una famiglia di griots (i cantastorie, personaggi chiave della cultura africana), N’Dour mette subito in luce il suo straordinario talento. "Sono nato con il dono del canto: ho una missione da compiere", racconta. E così, praticamente bambino, inizia a cantare nelle cerimonie dei battesimi e delle circoncisioni. A 16 anni realizza il suo primo singolo, "M’ba," e diventa già una star della radio. Per un certo periodo frequenta anche la scuola d’arte di Dakar, quindi, la sua carriera si sviluppa rapidamente.

Dotato di un tenore dolce e suggestivo, N’Dour si mette in luce al Miami, il club più alla moda della capitale senegalese, insieme alla sua Star Band: "Quando ho iniziato a cantare, altri paesi africani come il Ghana o la Nigeria avevano cominciato a sviluppare la loro tradizione di musica moderna. In Senegal, invece, fino a tutti gli anni Sessanta la musica alla moda era rimasta quella cubana di Johnny Pacheco. Noi volevamo cantare nella nostra lingua wolof. Insieme con la Star Band ho creato una musica, il ‘mbalax’, che in lingua wolof indica il ritmo che proviene da un tamburo chiamato ‘mbeung mbeung’".

Proprio il ritmo incessante e ipnotico è fin dall’inizio la caratteristica peculiare della sua musica, segnata dall’incedere del tama, il tamburo parlante usato per la comunicazione tra villaggi: "A Dakar quando dicono ‘è molto mbalax’, vuol dire che ha un ritmo forte e distinto – racconta -. Ai tamburi viene dato il nome collettivo sabars e formano la base del mbalax. Tra questi il tama è il tamburo che invita alla danza". E con Youssou N’ Dour suona dal 1977 il miglior suonatore di tama del Senegal, Assane Thiam.

Al Carpino Folk Festival il re del mbalax, Youssou N’Dour, porta il suo ultimo album che ha dedicato a Bob Marley.
Il CD è intitolato Dakar-Kingston ed è stato registrato tra Parigi e i Tuff Gong Studios giamaicani, con musicisti del calibro di Tyrone Downie (The Wailers), il sassofonista Dean Fraser, il chitarrista Earl "Chinna" Smith, il batterista Shaun "Mark "Sansone e il bassista Michael Fletcher.
«A quasi 30 anni dalla morte – dice – Bob Marley resta un simbolo di libertà, un simbolo del sogno africano». Ancora Marley? «Per quelli della mia generazione è stato la speranza. La prima star mondiale a venire da un Paese sottosviluppato. Quello che ci ha fatto pensare: "Allora perché non io?", la scossa che ancora oggi manca a milioni di ragazzini africani. L’ Africa deve sollevarsi con le proprie gambe: molto, molto prima del "Yes We Can" di Obama, Marley ci ha illuminato: Stand Up, Africa Unite»

Cantori di Carpino
"Stile, storia e musica alla Carpinese"
Semplicemente straordinari, gli unici grandi maestri della tarantella. Grazie alla loro memoria non si sono perse nel tempo quelle tradizioni che hanno reso Carpino il punto di riferimento della musica Folk italiana. Le fortunate collaborazioni con Eugenio Bennato, Teresa de Sio, Giovanni Lindo Ferretti e altri hanno portato loro, e soprattutto la loro musica, alla ribalta, riscoprendone e valorizzandone le portentose caratteristiche. Sicuramente i decani della musica italiana: i "Buena vista social club" Garganici, capaci, ultraottantenni, di portare le loro note, la loro arte, la loro inventiva, fatta di ritmi trascinanti e melodie struggenti, in giro per la nostra penisola, di concerto in concerto. Mille anni di musica che risuonano sulle corde della chitarra battente. Chi ha la fortuna di ascoltare i “Cantori di Carpino”, entra in un circuito magico, primordiale. Si sente proiettato in un mondo scomparso, ma che sente rivivere dentro se stesso, in una sorta di metempsicosi che vi fa ritornare quelli che forse un tempo, in un’altra vita, si è stati.

Scomparsi Andrea Sacco e Antonio Maccarone, è oggi Antonio Piccininno il riconosciuto guardiano della tradizione. Non solo perché l’ha custodita e trasmessa cantando, ma anche perché si è accollato un compito difficile e di straordinario valore: mettere per iscritto questa sapienza orale. Prima che fosse troppo tardi.
Antonio Piccininno indubbiamente incarna la figura tipica del cantore tradizionale. Nato nel 1916, dopo appena un anno rimane orfano di entrambi i genitori. Inizia a lavorare come pastore e in seguito come contadino bracciante, per poi spostarsi in paese per prendere moglie. Attualmente è bisnonno. Antonio Piccininno come i "mistici pastori" descritti dal Tancredi in "Folklore Garganico", ispira un innato senso di rispetto verso la saggezza antica del suo popolo, come gli antichi aedi dell’Iliade e dell’Odissea."
Allo spettacolo collaborano sette giovani musicisti carpinesi, che tutt’ora accompagnano il loro “nonno” in giro per il mondo.

L’INTERVISTA AL CANTORE «Non mi faccio prendere dalla nostalgia, io canto» – di Italo Magno
Carpino abita una collina vista lago e da lì ama perdersi a guardare lontano le vaste distese di uliveti. Arrivo con mia moglie in auto e ci fermiamo davanti all’ampia balconata del bar della piazza centrale, dove Alessandro Sinigagliese, un cordiale giovanottone dell’Associazione Culturale Carpino Folk Festival, ha stabilito il luogo dell’incontro. E lì era ad attendermi Antonio Piccininno, l’ultimo erede dei cantori di Carpino. Appena mi vede, con tanto di block notes e registratore tra le mani, solleva dalla sedia le sue gambe lunghissime, per mostrare una gentilezza nel volto e nei modi che riesce a metterci subito a nostro agio. Gli dico cosa intendo fare e lui ci propone di appartarci su un gradone che percorre tutto un lato di quella sorta di terrazza antistante il bar. Ma io gli chiedo di andare più in là, dove può far da corona una bella rampicante fiorita. Però, prima di sederci gli scatto qualche foto. E lui non si fa pregare, mostrandosi già abituato a simili approcci. Quindi pigio sul tasto del registratore per avviare l’intervista.
Senti Antonio, so che di solito ti rivolgono domande riguardanti i canti che tu porti in giro per il mondo. Io invece vorrei prima sapere qualcosa della tua infanzia.
Devi sapere che io sono nato il 1916 e a due anni ho perso la mamma ed il papà, morti per l’influenza spagnola. Così, rimasto orfano, fui affidato ai miei nonni materni. Ma i tempi di allora erano cattivi, c’era la fame, così a otto anni mi hanno mandato al bosco a guardare le pecore. Qui vi erano delle persone adulte che si tramandavano questi canti popolari. Erano solo canti orali ed io, non avendo altro da fare, passavo il tempo a cantarli, mentre guardavo le pecore. Quando poi sono diventato grandicello, ho lasciato il mestiere del pastore e mi sono dedicato alla coltura dei campi…
Come contadino o bracciante?
Come bracciante, perciò non stavo sempre in un posto, ma giravo per le campagne.
Lì, a sera, si usava che quando un ragazzo s’innamorava di una ragazza faceva portare la serenata. Quindi quasi ogni sera venivo chiamato, ora per portare la serenata ad una ragazza, ora ad un’altra e siccome cantavo bene le richieste non mancavano. Mi chiamavano non solo i giovanotti in amore, ma anche ai matrimoni, al carnevale, durante la raccolta delle ulive, del grano, secondo le usanze della nostra zona. Così ci divertivamo.
A parte questo, c’erano allora nelle campagne di Carpino lotte bracciantili per la terra, per migliori salari, per migliorare le vostre condizioni di lavoro?
Eh, le cose allora non erano belle. Chi aveva qualche pezzo di terreno se lo teneva stretto, ma non dava molti soldi agli operai. Non avevamo luce, né acqua, che ci toccava prendere lontano in qualche campagna dov’e c’era.
Quindi voi non partecipavate alle grandi lotte per la terra, non conoscevate, ad esempio Giuseppe Di Vittorio?
No, no. Sentivamo parlare del suo impegno per i braccianti, ma da queste parti non si è visto.
A questo proposito, siccome Matteo Salvatore s’interessava nei suoi canti popolari soprattutto della situazione di oppressione nelle campagne e nei piccoli borghi rurali, mi vuoi spiegare quali furono i tuoi rapporti con lui.
Io ho conosciuto Matteo Salvatore tramite Teresa De Sio. Abbiamo fatto pure dei filmati insieme e l’anno scorso c’è stata una serata in suo onore ad Apricena, a quattro anni dalla morte. Abbiamo cantato al teatro davanti a sua figlia e a tutta la popolazione. Ho cantato con lui non moltissime volte, in tutto una quindicina. Lui ha il suo repertorio, io il mio, che è prevalentemente d’amore.
Insomma i canti d’amore ti hanno accompagnato per tutta la vita?
Non per tutta la vita. Questi canti li abbiamo portati avanti fino all’inizio dell’ultima guerra mondiale. Poi gli uomini sono andati tutti via. Dopo la guerra ci siamo ritrovati col grammofono, la radio e più tardi anche con la televisione, per cui i nostri canti sono stati messi da parte. Ognuno si è lanciato sulla modernità e quindi il ricordo dei canti e delle povere musiche spontanee si è perso. Però io ed altri abbiamo sempre tenuta attiva la fiamma dell’antichità, fino a che non è venuto a trovarci un giorno un uomo di spettacolo di Bologna che ci ha scoperto. Poi sono venuti Eugenio Bennato, Teresa De Sio e De Simone di Napoli e tutti sono stati interessati ai nostri canti, si sono presi i testi, i nostri nomi, ci hanno fatto le foto e se ne sono andati.
Così è arrivato il successo…
Macchè. Per alcuni anni non li abbiamo più visti né sentiti. Dopo sette otto anni ci hanno chiamati e siamo andati a Milano. Dopo Milano siamo andati a Napoli, al teatro “De Filippo”. E finalmente si è rifatto vivo anche Eugenio Bennato e quando lo abbiamo visto lo abbiamo rimproverato perché dopo averci promesso tanto non si era fatto più vedere. Lui si è scusato e ci ha avvertiti che voleva portarci con lui a Roma. E per diverse volte abbiamo fatto su e giù da Carpino a Napoli e a Roma per esibirci. In questo via vai la gente ha cominciato a conoscerci ed hanno preso ad invitarci con Bennato o senza Bennato. Poi ci siamo allargati e siamo usciti anche fuori dall’Italia. Siamo stati a Gerusalemme, siamo stati a Nazareth, insomma, in tutti i posti più belli del mondo. Abbiamo anche cantato a Tel Aviv, a Berlino, a Norinberga, a Bruxelles, a Barcellona, a Dubrovnik ed in moltissime città d’Italia. Insomma abbiamo passato un anno intero cantando.
Naturalmente in queste tournee non andavi da solo?
Andavo con i miei amici cantori, Andrea Sacco, Antonio Maccarone e qualche altro. Poi i compagni miei si sono fatti più anziani e allora si sono avvicinati dei giovani che volevano imparare come si canta per portare avanti gli antichi canti di Carpino. Ed ora è da una quindicina d’anni che giro l’Italia con questi giovani, tant’è vero che il 19 aprile passato siamo stati a Torino con i ragazzi a ritirare un premio, così cerchiamo ancora di portare avanti la nostra tradizione…
Senti Antonio, per tenere a mente i canti di Carpino hai dovuti scriverli. Quindi sei andato a scuola.
No, io a scuola non ci sono andato quando era il tempo, perché impegnato con le pecore e la vita di campagna. Però quando mi sono fatto grande sono andato qualche anno alla scuola serale. Ma già quando guardavo le pecore tenevo la penna ed il quaderno. Le persone mi dicevano di scrivere qualcosa, ad esempio scrivi Carpino, scrivi Foggia ed io scrivevo qualunque cosa mi dicevano e poi l’imparavo, così piano piano ho imparato a fare qualche cosa, non un granché, ma qualche cosa, le cose mie le so fare…
Allora in un primo momento ti sei avvalso del ricordo orale, poi invece piano piano ti sei esercitato…
Veramente tren’anni fa venne da Monte Sant’Angelo il professore Francesco Nasuti, che si occupa di teatro, e mi disse: “Antonio visto che sei abbastanza appassionato di canti antichi, perché non fai la raccolta di tutti i canti paesani”. Così io mi sono messo in giro per il paese e agli uomini più anziani domandavo: “Sai qualche canzone paesana?”, riuscendo a raccogliere due o trecento canzoni, che ho passato al professore Nasuti e lui ne ha fatto un libro.
C’è qualche canto che hai composto tu?
No, io sono solo cantante.
Nei tuoi canti spesso è presente il tema della donna…
Sì, è vero. Ma i canti popolari sono soprattutto dedicati alla donna. I nostri canti sono canti d’amore, che il giovane rivolge alla donna di cui è innamorato.
E com’era, ai tuoi tempi, il rapporto tra uomo e donna?
Eh, non era come oggi. Innanzitutto ai miei tempi l’uomo non la poteva vedere la propria ragazza realmente. La vedeva solo da lontano, quando quella andava in chiesa; qualche volta la vedeva un po’ di contrabbando, ma raramente perché se questo accadeva si riempiva il paese e per non farsi parlare ognuno si manteneva, dovendo conservare l’onestà fino al matrimonio. Io per esempio mi sono sposato a vent’anni e mia moglie ne aveva diciotto. Ho conosciuto mia moglie solo dopo il matrimonio. Prima non ci ho mai parlato.
Ma davvero?
Sì, le ho fatto solo la dichiarazione d’amore.
Ah, almeno quella l’hai rivolta a lei?
No, a lei no. L’ho fatta ad una zia, che abitava lì vicino, quella ha portato l’ambasciata, mi ha dato la risposta di sì e poi abbiamo preso a scriverci, sempre tramite la zia che dava la lettera alla mia fidanzata che mi rispondeva tramite questa donna….
Eh, però qualche contatto pure sfuggiva…
No, no, no, no, niente! Non ci ho mai parlato, solo la vedevo in chiesa o quando andava in campagna, perché tutti allora lavoravano, anche le donne. La mattina qui era una fiera, uomini e animali tutti in movimento per dirigersi alla campagna. In città rimanevano solo i cucitori, i barbieri e qualche negoziante. Il resto del paese, tutto in campagna. Quando poi ci siamo sposati, dopo la festa ci hanno portato alla casa nuova, sono venuti i compagni miei per la serenata e, quando sono andati via chiudendo la porta, io ci ho tirato giù la sbarra. Allora sono andato da lei, che stava pensierosa perché si vergognava, e presi ad accarezzarla, poi piano piano cominciai a toglierle qualche indumento da dosso e così, una volta spogliata, abbiamo fatto l’amore.
Ah!
Embè!
Antonio ho visto che suoni benissimo le nacchere. Chi ti ha insegnato?
Le nacchere sono uno strumento che si è sempre suonato. Io non saprei cantare senza le nacchere, perché quelle danno il tono al canto. Però la musica non me l’ha insegnata nessuno. Io sono un cantore con nacchere ed è l’uso che mi ha insegnato a suonarle; so anche fare qualcosa con la chitarra battente, però non sono bravo.
Hai cantato parecchie volte con Eugenio Bennato?
Eh, ho cantato tante volte. Ultimamente ho cantato insieme a lui a San Vito dei Normanni. E ho cantato pure con Teresa De Sio, parecchie volte. Purtroppo non posso cantare più con i miei vecchi amici cantori. Tutti deceduti. È morto prima Andrea Sacco, poi Maccarone, l’anno scorso.
Essere rimasto l’ultimo dei cantori di Carpino ti fa ricordare con nostalgia i tempi passati?
Sì, mi dispiace per i compagni che non ci sono. Ma io non mi faccio prendere dalla nostalgia perché ho sempre voglia di cantare, se fosse possibile vorrei cantare tutte le sere, quello è il mio divertimento.
Però Antonio, ora occorre lanciare nei canti anche qualche giovane bravo di Carpino.
Mo’ ti voglio dire una cosa. I giovani amano sentire i canti popolari, ma non amano impegnarsi molto in questo lavoro. Qualche donna invece si sente cantare bene. Io sono anche stato chiamato parecchie volte a scuola per insegnare qualcosa ai ragazzi e farli appassionare ai canti della tradizione. Il mio desiderio è che i giovani portino avanti i nostri canti popolari.
Un’ultima domanda. La bellissima Ninna Nanna di Carpino, secondo te, com’è nata?
Ascolta. A Carpino non tutte le madri avevano una culla. Allora chi non ce l’aveva, usava una mezza sedia, si metteva il figlio in braccio e cantava la ninna nanna, facendo avanti e dietro sulle gambette di legno fino ad addormentare il bambino. Questa ninna nanna io la canto sempre, l’ho imparata da bambino e non manco mai, mai, mai di cantarla.
Quando te la sento cantare mi faccio prendere dalla commozione…
E pure io. Mentre la canto devo stare attento giacché sono in pubblico e se non mi trattengo mi scappa il pianto… perché mi ricordo che sono vissuto senza la mamma e a me la ninna nanna non me l’ha mai cantata nessuno.
Finisce qui, con il fazzoletto che raccoglie le lacrime di un uomo buono, la mia intervista ad Antonio Piccininno, 95 anni, ultimo cantore di Carpino, memoria storica della tradizione popolare. Sto per augurargli lunga vita fino a cent’anni, ma per lui non posso farlo e debbo allungarla almeno fino a centocinquanta. Con la fibra e la lucidità che si ritrova potrebbe anche arrivarci.

Testi e materiali per la comunicazione
Antonio Basile, Domenico Sergio Antonacci, Sara di Bari
Alessandro Sinigagliese

Ufficio Stampa Associazione Culturale
Carpino Folk Festival
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71010 Carpino (FG)
Antonio Basile
tel. 339 5299998
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