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1902: il Gargano? E’ un’isola sperduta isola verde

Come una sperduta isola verde alle cui rive s’arresta l’ansia del tempo senza riuscire ad affrettare in essa il ritmo della vita, né a disperdere le millenarie tradizioni perpetuatesi nel lungo ciclo di generazioni pastorali ed agricole: tale è il Gargano.  Il maggior fascino di questo appartato angolo d’Italia è tutto qui: nel meraviglioso cerchio di solitudine in cui tutta la regione è conclusa. La regione ha, nel suo aspetto fisico, il magnifico pregio d’adunare armoniosamente in breve spazio
tutte le più nobili e le diverse caratteristiche del paesaggio italico: i pianori stepposi e le virenti
valli, le livide lagune tra i canneti sonanti e l’azzurre cale marine tra gli alti scogli popolati di colombi e di gabbiani, la macchia ad arbusti e da cespugli tra i massi brulli e le ombrose foreste secolari, le distese cineree d’olivi, le vigne basse, le praterie fonte, gli agrumeti fragranti, le pinete scapigliate sul mare. Ma tutte queste visioni di paese, diverse ad ogni tratto, sempre pittoresche di linea e di colore, acquistano colà una speciale attrattiva, che non altrove, per quell’indefinibile senso che loro dona la solitudine. Da quando lasciate l’ultima stazione ferroviaria per inoltrarvi nelle sue vie, questo senso vi prende: bianche vie che sembra si dispieghino dileguandosi in un mondo fantastico, verso un paese di sogno. Voi andate per ore intere senza incontrarvi nessuno: una grande calma è d’intorno, a volte mistica e solenne, a volte anche paurosa. Silenzio: lo scampanare, a tratti, d’una mucca invisibile, nel folto; il gracchiare d’una gazza; il volo alto d’un nibbio; il grido d’un pastore in fondo alla valle. La via faticosamente si snoda lungo i fianchi della montagna arida e selvaggia, sull’ampio orizzonte chiuso lontano dalla corona dei laghi e dal mare: il biancore assolato v’abbaglia. Sembra che la via non debba aver fine mai, che mai si debba giungere ad un borgo; il pensiero d’un cattivo incontro incomincia ad insinuarsi sottilmente nel vostro cuore: voi sentite che qualora ciò s’avverasse, sareste completamente alla mercé dei mali intenzionati, poiché nessun aiuto potrebbe sperarsi in questa larga solitudine campestre. Aguzzate lo sguardo; vedete un uomo accosciato sul bordo all’ombra d’un masso: chi sarà mai? E’ un selciarolo in riposo:vi guarda un po’ incuriosito; vi saluta levandosi lentamente il cappello. Intanto il tintinnio d’una sonagliera lontana si fa sempre più distinto; un traino si profila sullo svolto della via; vi raggiunge; un altro saluto: «Bon giorno a ussignirìa!» Buona gente, in fondo. Quando la via attraversa le vigne, o passa tra gli olivi, o segue il litorale nel profumo delle zagare, ò s’insinua sotto la pineta, o si distende sui pianori coltivati a grano, il cuore si libera da questa angosciosa sottile preoccupazione che ha pure il suo fascino, e s’adagia in riposo sulla grande pace ch’è per ogni dove. Allora il senso di solitudine, che però sempre permane, diventa più lieve, ed è gioioso o malinconico a seconda della varietà del paesaggio circostante, a seconda dell’ora, a seconda del vostro stato d’animo. E vi accompagna fino alle prime case d’ogni borgo. Quanta serenità patriarcale hanno i borghi in certe ore! Sperduti come sono in mezzo ai campi, lungi l’uno dall’altro, appartati dal mondo, chiusi nella breve cerchia delle loro mura come fortilizi medioevali, serbano ancora per chi sappia intenderla una suadente malia che mette una strana lentezza nell’anima sottraendola alle diuturne ansie, fasciandola d’oblio e di pace in umiltà. Io che in essi ho trascorso tutta la mia infanzia ed il tempo migliore della prima giovinezza, ora che ne son lontano con intensa passione ripenso, nella febbrile rumorosa vita cittadina, a quelle ore di quiete. Ad uno ad uno i ricordi affiorano dal lago del cuore.
Meriggi d’estate! Per le vie, nessuno; non una vela sul mare spietatamente azzurro nello scintillio del solleone; non un brivido nell’aria immota. D’un tratto rompeva il silenzio un trillo di canzone che si slargava smorzandosi in una cadenza stanca e voluttuosa come di canto orientale: la sensuale visione d’Oriente s’attardava nel desiderio, suscitata dalla cadenza, acuita dal pensiero dell’aspetto e del temperamento un po’ levantino delle donne del luogo, fermata dall’illusione del paesaggio a case basse dalle cupole bianche fra le terrazze come in molte costruzioni moresche. Quando il canto cessava, ristagnava il silenzio sonnolente; nemmeno il lento risucchio del mare lontano s’udiva. Ogni tanto il battere degli zoccoli d’un cavallo chiuso in una stalla prossima; poi un pianto di bimbo; il rumore ritmico della culla smossa; l’accenno sommesso d’una ninna-nanna… E presto il canto, sul sonno del bimbo, moriva. Notti di luna! il chiarore inondava la via tanto bianca da sembrare abbagliante di sole, ed incupiva le ombre negli orti. Dal tetto vicmo scendeva con dolcezza il singhiozzo d’un gufo in amore: appena una nota, breve, gutturale, quasi umana, ripetuta a lunghi intervalli sincroni; un altro rispondeva da un tetto più oltre; un altro, appena percettibile, dalle lontananze. Dalle lontananze, dai campi, or sì or no giungeva l’abbaiare dei cani insonni a guardia dei casolari. Poi nella via passava un gruppo di pastori, ed uno suonava la chitarra, e non cantavano… Mistica pace bevuta in una piccola chiesa conventuale nelle ore in cui nessun altro era a pregarvi; voci di campane ascolte nell’alba dilagare sul borgo già desto e tuttora silente; trilli di rondini goduti da un cantuccio d’altana, nel tramonto! L’ora del tramonto acqnista colà in certi luoghi un senso così squisito di malinconia che l’animane resta come smarrita nel ricordo di sensazioni vissute in un sogno lontano.
Sui bordi dei laghi: la distesa viscida delle acque s’accende per poco di larghe strie ignee serpeggianti tra i toni cupi d’ametista e di lapistàzuli, mentre le ombre discendono dalle montagne e lentamente s’addensano sulla circostante campagna desolata; s’ode lontanare sui sentieri scampanare d’un gregge che muove verso l’addiaccio; una voce lontana, che chiama; uno sbattere d’ali tra le canne; un sibilo di vento tra le valli.
Ma non dappertutto s’insinua, in quell’ora, lo stesso senso di pacata tristezza. Quanta gioconda serenità è invece sulle vie del ritorno dalle vigne, dagli olivi, dai «giardini» d’agrumi, dove passano a frotte le fanciulle, e cantano!Quale ampio respiro di grandiosità sul mare! Là gli orizzonti marini, amplissimi come d’oceano poiché le Tremiti, le sole isole in vista, anziché restringerne l’arco quasi lo slargano così diafane e chiare come appaiono basse sull’acque, gli orizzonti marini danno a chi
guarda una indefinibile sensazione di solennità che invano si cercherebbe su altri lidi d’Italia. Forse è pel fatto che a volte non una barca, non una vela è sull’ampia distesa azzurra: od una sola, bianca; o un piccolo sciame di paranze sospeso lontano, tra il cielo e il mare, come di farfalle. Il profilo d’un grosso veliero a vele quadre, il passaggio d’una torpediniera rasente la costa,l’apparire d’un filo di fumo nelle lontananze, lo stesso approdo settimanale dei vaporetti rappresentano parentesi rare e brevi in quella divina solitudine. [. . .1
Come a rievocarmi più intensamente la visione e ad acuirmi più profondamente il desiderio del mio paese, nella lontananza, viene ogni anno un piccolo avvenimento che è dai più ignorato o trascurato: il passaggio delle greggi, a notte alta, per le vie di Roma. Tutta la via dov’è la mia casa romana, per un istante, nella chiara notte autunnale è inondata di pecore da un capo all’altro; e sembra, dall’alto delle finestre, un gran fiume vivente, sotto la luce bianca delle lampade, nel lento fluttuare delle groppe lanute pigiate l’una all’altra dietro ai mandriani ed ai mastini. Un belare in sordina; l’incitamento sommesso d’un pastore; il ticchettìo dei passi lontanamente: fin che la visione pastorale poco a poco vanisce. Anche l’ultimo gruppo delle pecore zoppe, un po’ staccato dal grosso, guidato da un bimbo, scompare allo svolto…

Michele Vocino