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150 Anni dell’Unità/ QUANDO LA FAME AZZANNA, IL POPOLO REAGISCE

 C’erano a Cagnano, nel 1860, anno della “impresa dei mille”, liberali e conservatori, entrambi i gruppi costituiti da proprietari agiati e laureati, appartenenti al ceto dei “galantuomini”, che cominciarono ad affacciarsi sullo scenario della storia del paese tra la Rivoluzione del 1799 e gli anni delle leggi eversive della feudalità, sostituendosi alla nobiltà. Liberali e conservatori, si adattarono presto ai cambiamenti, tant’è che li troviamo in amministrazione sia prima che dopo l’Unità, obbedendo quindi alle leggi dei Borbone prima, dei Savoia dopo. Inoltre, erano solidali nel difendere i propri interessi, sia quando si trattava di occupare le terre demaniali, sia quando bisognava nascondersi al fisco (ad esempio, tentando di prorogare la questione della “Riseca”), attuando da subito la pratica del “trasformismo”. C’erano a Cagnano anche intellettuali veri fautori del cambiamento, come Carmelo Palladino, che rinunciarono agli agi consolidati dai loro padri galantuomini per fare propria la causa del popolo, sposando inizialmente gli ideali mazziniani e successivamente la causa anarchica bakuniana, prendendo insomma le distanze da qualsiasi forma di governo. Giovane “di buoni studi e pieno di zelo per la causa comune”, generoso e altruista, Palladino sposò la causa dei poveri, sostenendola anche finanziariamente insieme a Cafiero e Malatesta, istruendo gli operai, partecipando ai lavori dell’Internazionale socialista e facendo propaganda, tentando di avviare a soluzione la questione sociale in quel tempo dirompente, connessa nel Mezzogiorno alla questione demaniale e all’assurda sopravvivenza delle “caste” (enorme era infatti il divario tra “proprietari” e “bracciali”).

C’era a Cagnano, nel 1860, la restante popolazione, molto numerosa e analfabeta, che ignorava gli ideali patriottici ma non i problemi della “pancia” e probabilmente furono i problemi dettati dalla fame e dall’odio di classe a fomentare la sommossa popolare che li vedrà scendere in campo nel mese di ottobre. E l’ala conservatrice per mano del popolo tuonò forte il giorno del plebiscito, allorché i bracciali – donne comprese – dietro la spinta dei galantuomini, dei preti e degli ex ufficiali dell’esercito borbonico, che avevano fatto il quartier generale nei nostri boschi, si fece fautore di vituperevoli bestialità. La tesi è confortata da una esternazione della guardia nazionale A. Palladino, che in data 26 ottobre 1860, subito dopo l’assassinio di Salvatore Donatacci, informava le superiori autorità: “La reazione, rompendo l’unità del popolo cagnanese, ha scavato una profonda demarcazione tra i galantuomini e la plebe”.

Questo non vuole dire che prima tra le due classi vi fosse idillio, ma che la forbice evidentemente si allargò in quella circostanza, allorché il popolo tirò fuori la parte peggiore di sé. In ogni caso, secondo il parere degli amministratori, bisognava esorcizzare il popolo indiavolato organizzando “una missione del popolo ad opera di bravi sacerdoti”. Così pure il sindaco, che sollecitò il governatore a nominare al più presto l’arciprete “mancante da sei mesi”, indugiando sulla condizione della “popolazione già di per sé impreparata e priva dei primi rudimenti della fede e della religione” e del clero, “famoso per la sua ignoranza”, il quale “trascurando ogni obbligo di coscienza”, invece di avviare la popolazione “nelle virtù cristiane, l’ha pervertita nei costumi”. I preti – si legge nel documento – sono guidati dal “bene individuale e delle proprie famiglie”, “non si curano del bene pubblico, e non hanno sentimento di patriottismo”.

La reazione del popolo cagnanese si verificò il 21 ottobre 1860, giorno del plebiscito in cui gli elettori avrebbero dovuto votare l’annessione al Regno di Vittorio Emanuele II. Quella mattina, alle 10, un corteo di uomini armati di spiedi, forche, asce e scuri, nonché di donne urlanti come tigri assalì il corpo di guardia nazionale al grido di “Viva Francesco II”, distrusse gli stemmi del nuovo re e di Garibaldi, portò in trionfo per il paese le effigi del re borbonico e di Sofia (di Baviera, ultima regina del Regno delle Due Sicilie – foto 1 e 2 sotto; ndr), e non permise di votare. Sigillate le urne, il decurionato scappò via temendo il peggio. Inutile fu ogni tentativo di portare la calma. La folla si diresse poi verso la chiesa, impose al sacerdote di impartire la benedizione e di eseguire il canto del Te Deum. Uscita in piazza dette fuoco alle urne e ogni altro materiale utile alla votazione. I galantuomini si chiusero in casa. Il sindaco rischiò probabilmente la vita quando la folla minacciosa si recò in Comune, cacciò via i decurioni e installò l’amministrazione borbonica. Il paese quel giorno rimase bloccato.

Il 22, un gruppo armato circondò le mura del paese per impedire che vi entrassero i militari che fossero accorsi dal circondario. La Guardia nazionale, impotente, dovette ritirarsi, mentre la folla ripeté il rituale della giornata precedente: corteo, grida, folla armata inneggiante il re Borbone, funzione in chiesa con Te Deum. Tramite il banditore fu imposto ai galantuomini di uscire in piazza e unirsi al coro. La famiglia Donatacci, però, si rifiutò di obbedire, indignando i rivoltosi che il giorno successivo, 23 ottobre, ripeterono la scenata in piazza. La reazione del popolo cagnanese non fu frutto di una improvvisazione, né mera risposta agli eventi dei comuni vicini: a Cagnano, la mattina del 21 erano giunti da San Marco in Lamis molti bracciali, mentre dal 20 ottobre 1860 diversi sbandati dell’esercito borbonico, nascosti sulle alture vicine, minacciavano San Giovanni Rotondo.

Paolo Giangualano, inoltre, ex caporale del 23° Cacciatori, “ritiratosi senza regolare congedo” spargeva voce che la dinastia borbonica avrebbe presto fatto ritorno, mentre sin dal 10 ottobre il carcere di Cagnano era pieno di persone che avevano diffuso dicerie antigovernative e il sindaco chiedeva che i detenuti fossero dirottati altrove. In ogni caso il peggio doveva ancora venire e il “fattaccio” che riguarda Cagnano è accaduto il giorno 24 ottobre, come si legge anche in un dattiloscritto anonimo.

Nel 1860, Cagnano contava 5317 anime, che abitavano piccoli caseggiati distribuiti intorno ai due lati del corso principale, l’allora “Coppa”, “la cui perfetta rettilineità congiunta ad una discreta ampiezza dava ai paesani motivo di pavoneggiarsi coi forestieri e di attaccare briga con gli antagonisti viciniori. La vita del piccolo nucleo – narra Anonimo – si svolgeva tranquilla e monotona, distribuita tra il lavoro nei campi e la pesca del lago, il gioco delle bocce e le allegre soste nelle numerose osterie. Qualche rissa sanguinosa, condotta a fil di coltello e spesso coronata da omicidio, veniva a rompere a tratti quella quiete stagnante; poi la corrente riprendeva il suo corso e gli uomini le proprie abitudini. Le bettole ridiventavano gremite e per le straduzze mal rischiarate dai tizzoni a mano, il canto rauco dei giovinastri avvinazzati non di rado salutava i primi chiarori mattutini, riflessi dai pavidi visi delle donne, affacciate ai veroni, in attesa di una rustica frase d’amore, ispirata dai lumi del vino.”

Ed ecco il “fattaccio” che nell’anno della spedizione dei Mille vide fautore il popolo, istigato probabilmente dai più facoltosi, accanirsi nei confronti della famiglia Donatacci: Salvatore, proprietario di un magazzino, donna Lucrezia, sua moglie, e i figli Michele, il canonico che simpatizzava per Casa Savoia, e Vincenzo di dodici anni. “La domenica del 23 ottobre 1860, il reverendissimo canonico Michele Donatacci, figlio di Salvatore e di Donna Lucrezia de Monte, saliva sul pulpito di Santa Maria delle Grazie e, dopo aver letto il vangelo di Luca, con calda e alata parola, annunziava al popolo lo storico evento (l’impresa di Garibaldi; nda). Lo scandalo fu enorme: fischi e urla altissime accolsero le parole del pastore, costretto dalla folla invasata ad abbandonare la chiesa e a barricarsi con i fratelli nella casa paterna.”

Mentre la reazione dilagò per le vie del paese “i nobili, rotta ogni apparente ipocrisia, sfogavano il loro odio per mano altrui, rimanendo al sicuro nelle proprie abitazioni”. […] La folla, armata di scuri, spiedi e schioppi ferocemente gridando e minacciando, bloccò via Grillari e via Speranzella, portandosi nelle immediate adiacenze di casa Donatacci al grido di ‘Viva il Borbone!’ Dal tumulto partirono le prime fucilate che abbattutesi sulle porte d’entrata la misero a fuoco. Il signore Donatacci Salvatore, visto il grave pericolo che incorreva la sua famiglia, si precipitò con un materasso ad attutire l’incendio, ma nell’impresa una palla lo colpì alla fronte e lo stese cadavere. A tale doloroso spettacolo il figlio del defunto, canonico Michele, armato, si portò all’altra parte dell’abitazione, sboccante in via Speranzella e, mirato dalla feritoia il più acceso tra la folla, lo uccise.

“Non era egli il primo frate – commenta Anonimo – che imbracciava lo schioppo in difesa di un ideale! Intanto i fratelli del sacerdote mettevano in salvo la madre Lucrezia, verso i sentieri, per raggiungere a fatica la via principale del paese ed essere ospitata dai parenti. Senonché, riconosciuta dai tumultuanti, fu minacciata di morte sul rogo. Molte mani si tendevano verso la donna per mutare la minaccia in realtà, quando il canonico Di Miscia Giuseppe, con ingannevoli promesse, riuscì a strapparla al furore popolare, mettendola in salvo nella propria abitazione. Il desiderio di vedere bruciata viva donna Lucrezia aveva diretto la folla verso la via principale, liberando per un attimo casa nostra, stretta da tenace assedio sin dalle prime ore del mattino; abbiamo così modo di allontanarci alla svelta.

“Io, col dodicenne fratello Vincenzo, percorrendo segretamente le vie campestri, armato di archibugio, mi portai fuori dall’abitazione, in un podere di mia proprietà in contrada Bagno ove attesi fiducioso l’invocati soccorsi. Era l’ora meridiana, la calura opprimente a causa del sole ancora alto sui colli della Difesa. Preso da gran sete, ordinai al fratello di attingere acqua ad una fonte lì presso, per mezzo di corno all’uopo portato, e nell’inviarlo gli rilasciai per caso lo schioppo che avevo meco. E ciò fu grande provvidenza, poiché un porcaro, intento lì attorno a tagliar ramoscelli da un pero, fortemente meravigliato di non vederlo morto gli andò addosso con una scure, tosto morendo per l’arma di Vincenzo bravamente adoprata in propria difesa”.

Il popolo irruppe nuovamente in casa Donatacci e, trovato Salvatore morto sul letto, dove era stato composto dai familiari prima che scappassero, prese il cadavere e lo trascinò brutalmente per le vie del paese, fu buttato nell’orto di San Francesco ove tuttora esistono ruderi dell’antico convento dei Frati Minori. Tra i capi della sommossa era proprio Giangualano, l’ex milite borbonico. C’era, inoltre, Nunzio Scirtuicchio, che per tre giorni fu visto girare armato per il paese. In quell’occasione i due arrestarono anche il proprietario Giuseppe Pepe, ma poi lo rilasciarono. Nei giorni successivi dalla contrada Moricone si videro apparire i primi garibaldini, al comando di un capitano, reduci da San Giovanni Rotondo, ove avevano fatto giustizia sommaria degli indiziati fautori borbonici. Una voce popolare riporta che dalle montagne si videro scendere centinaia e centinaia di camicie rosse, che quando queste si avvicinarono, però, con grande sorpresa, rivelarono essere solamente delle pecore, le quali erano state rivestite di un panno rosso, sì da somigliare ai garibaldini.

Non sappiamo quanto di vero ci sia in questa leggenda, certo è che, per soffocare la rivolta, arrestare i capi e imporre il plebiscito, giunse in effetti il generale Liborio Romano, sostenuto da una squadra di militari di Monte Sant’Angelo al comando di Michele Cesare Rebecchi, che fece poi ritorno a San Giovanni, dove erano stati uccisi barbaramente ventiquattro cittadini, di varia estrazione sociale, lasciando comunque parte della sua brigata a Cagnano. Un consiglio di guerra in data 18 novembre condannò immediatamente Paolo Giangualano e Nunzio Scirtuicchio alla pena di morte con la fucilazione e altri venti (di cui sei sammarchesi e due donne) a trenta anni di carcere, rei imputati di “eccitamento a mano armata alla guerra civile tra gli abitanti di una stessa popolazione e inducendoli ad armarsi gli uni contro gli altri nel fine di abbattere il governo, di devastazione, di incendio di casa abitata, di strage, di saccheggio, omicidio consumato accompagnato da violenza politica”. Gli altri rivoltosi (in tutto 63) furono assolti per mancanza di prove. Nel 1861, con decreto del 16 luglio, la pena comminata a Giangualano e Scirtuichio fu commutata in lavori forzati a vita, mentre gli altri complici godettero di un abbassamento di pena dai 4 ai 7 anni. Tra i capi della rivolta erano anche il venditore di sale e tabacchi e sua moglie, rei di avere dato agli insorti lo stemma borbonico portato in trionfo per il paese.

I cittadini di Cagnano aventi diritto (il 12% della popolazione) votarono solo il 3 novembre 1860: 428 schede, tutte per il sì. Il 6 novembre il governatore Gaetano del Giudice annunciava alla popolazione il ripristino dell’ordine sia a Cagnano sia a San Giovanni. Ma non fu così, dal momento che per oltre tre anni ancora si assistette ad atti di violenza opera dei briganti, quasi tutti braccianti che non superavano l’età di venticinque anni. L’intransigente capitano, cui fu affidata l’azione antibrigantesca, scriveva al generale Seismit-Doda, comandante della zona militare di Foggia: “Debbo, inoltre, far conoscere alla S.V. che qui quasi metà della popolazione vive sulla pesca del lago di Varano ed ora non potendo più uscire dal paese per lo stato d’assedio e per la presenza nelle campagne dei briganti, sbandati e renitenti, si troverà fra qualche giorno alla miseria, cioè alla fame”.

“Qui nulla è cambiato – conferma Tardio in “Lettera al Farini” del 22 maggio 1861, pp. 261-62 – del vecchio sistema di amministrare … si rubava e si ruba, si facevano intrighi e si fanno tuttavia, soverchiava la prepotenza e soverchia, ma con questa differenza, che sotto i Borbone si proteggevano i soverchiatori e gli spioni, veniva al certo garantita la tranquillità pubblica o la vita del cittadino laddove ora in un’era che si dice di risorgimento la tranquillità pubblica, la vita, l’onore e le sostanze degli uomini onesti sono in balia del brigantaggio e dell’anarchia.”

Leonarda Crisetti
puntodistella.it