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La riflessione (2) – L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL VIESTANO MODERNO

di Carmine Azzarone e Ninì delli Santi

“…In quale momento della sua storia il viestano ha intrapreso la via della “modernità”?-  Ma davvero Vieste ha intrapresa la via della modernità? Oppure si è recitata, in tutti questi anni, una fiction della modernità, abituati, ormai come siamo, a vivere in un quotidiano dove il confine tra reale e virtuale è sempre più invisibile? – Si direbbe che il viestano moderno richiama tanto l’immagine di un tizio che ricco per caso e dovendosi fingere presentabile, indossa lo smoking senza essersi fatto doccia, barba e capelli da un quarto di secolo…

 

Incipit da “La Grande Implosione” di Nini’ delli Santi

…in quale momento della sua storia il viestano ha intrapreso la via della “modernità”? quando ha rivolto la rotta in modo irreversibile verso la società del denaro, e dell’esclusione? fin dove bisogna risalire per intravedere i primi segnali di una profonda trasformazione spirituale? quando è stato e come è potuto accadere che i viestani innescassero concretamente il processo che li avrebbe portati alla grande implosione?”…

Riflessione

Ma davvero Vieste ha intrapresa la via della modernità? Oppure si è recitata, in tutti questi anni, una fiction della modernità, abituati, ormai come siamo, a vivere in un quotidiano dove il confine tra reale e virtuale è sempre più invisibile? Soccorre, in proposito, un altro illuminante passaggio tratto da La Grande Implosione, che rende ancor meglio il potenziale equivoco fra finzione e realtà: “il viestano moderno era colui che gioiva di qualsiasi innovazione commerciale, che si sentiva percorrere da vampate di desiderio appena gli si parlava di un nuovo piano regolatore generale, della legge 3/98, della legge sul giubileo, di piani integrati. In tutti i campi, l’ossessione del progresso -come arricchimento personale- si manifestava attraverso la ricerca del cambiamento, della novità. Il nuovo, per definizione, era migliore, lo si accettava ciecamente, senza contraddirlo in caso di bisogno, senza analizzarlo con senso critico”. Resa in questi termini la cosiddetta modernità non lascia spazio che ad un’ovvia una conclusione: Vieste ha finto di essersi ammodernata, perché ha spacciato per modernità un qualcosa che non ne è neanche parente alla lontana;  il viestano, pur di autoconvincersi di essere up-to-date, ha raccontato a se stesso una storia al quale egli per primo non crederebbe se gliela raccontassero gli altri.
Ma davvero una città intraprende la via della modernità sviluppandosi come si è sviluppata Vieste negli ultimi 30 anni? E quali sarebbero i contenuti di questa sedicente modernità che fa dire a tanti figli e nipoti che “è finito il tempo nel quale  i nostri nonni non sapevano né leggere e scrivere; oggi invece siamo MODERNI…” ? Si è moderni quando si ostenta come bagaglio “culturale” materialità mobiliare ed immobiliare, visibile, palpabile anche a misura di pugno nell’occhio? Si è moderni se una città sforna, come da una catena di montaggio di matrice fordista, lottizzazioni, insediamenti produttivi e improduttivi a go-go, quartieri dormitorio coniugabili con un concetto molto sui generis di vivibilità urbana? Si direbbe che il viestano moderno richiama tanto l’immagine di un tizio che ricco per caso e dovendosi fingere presentabile, indossa lo smoking senza essersi fatto doccia, barba e capelli da un quarto di secolo; che ritira la stretta di mano perché ha le dita sporche di sabbione; insomma uno che recita il ruolo fingendosi qualcun altro senza ricordare il proprio nome e cognome. Più crisi di identità di così, si muore. Più fiction di così, si crepa.
Evidentemente è questa una fenomenologia piuttosto comune in quelle realtà che sono state interessate da cambiamenti improvvisi, che ne hanno messo a repentaglio identikit economici, sociali e culturali. Me ne sono accorto –sbalordito!- leggendo un articolo dell’ Economist di due settimane fa dedicato all’Irlanda. Un’analisi che ne studiava l’ascesa economica improvvisa e la sua caduta altrettanto inaspettata. Un processo analogo a quanto è accaduto nella nostra realtà.  Da lì ho scoperto che Vieste è un po’ come… l’Irlanda e che una certa natura umana si ripete in qualsiasi luogo come certe leggi della fisica in un esperimento, una volta che le condizioni di verifica nelle quale devono confermarsi sono analoghe! Sembra un paragone ardito? Anche a me lo sembrava, ma mi sono dovuto ricredere. C’è qualcosa che accomuna la Tigre Celtica e la Perla del Gargano. Più di una caratteristica. Sorprendentemente. Tanto per cominciare, quella di essere state entrambe realtà assoggettate ad un boom in anni recenti. Ma c’è di più. Oltre al boom, adesso Tigre e Perla hanno in comune anche lo sboom, ovvero una fase di pericoloso ed inquietante declino di cui si conosce il punto di partenza, ma se ne ignora l’approdo. Uno scivolamento all’ingiù che sa tanto di quei movimenti franosi che si trascinano dal colle una casa fin dalle fondamenta per travolgerla e sbriciolarla a valle. A tanto si corre il rischio di culminare se non se ne viene a capo. Gli irlandesi, prima del boom avevano valori, stili di vita, tradizioni piuttosto radicati e ben riconoscibili, che all’improvviso sbiadiscono, o peggio, non ritrovano più nello spazio di un mattino. Scrive l’Economist: “appena arricchitisi gli irlandesi non parlano più nè di nazionalismo e nè di cattolicesimo così come erano abituati da decenni, ma solo di prezzi di proprietà immobiliare e di tempi di percorrenza casa-lavoro”, come dire: si dimenticano da dove vengono e di cosa erano fatti; e poi: si comportano come “un povero che all’improvviso ha vinto il superpremio della lotteria”(tradotto: spendono senza preoccuparsi di un futuro duraturo; fanno la cicala e disdegnano la formica); per di più: “si mostrano accoglienti e tolleranti con gli stranieri, contentissimi di vederli trasferirsi nella loro terra, ma ora che la festa è finita sarebbe meglio tornassero a casa, così da evitare  di costringerli ad emigrare, come accadeva ai loro nonni”. Anche il viestano, come l’irlandese, appena arricchitosi non parla più la lingua dei decenni trascorsi e ha favella solo per il prezzo a metro quadro delle case o per i tassi praticati dalle banche; si comporta come il povero che ha vinto il superpremio della lotteria (spende e spande in ricchezza materiale che si trova a dover devolvere ad eredi viziati ed incompetenti; interpreta la cicala e disdegna la formica) e, fino a quando la moneta circolava, tollerava anche gli stranieri, gli stessi che oggi vorrebbe fossero accompagnati alla porta, perché –a suo dire- danneggiano l’occupazione di chi a Vieste c’è nato e costringono i nostri giovani ad andarsene altrove. E così quando l’articolo del settimanale britannico conclude che gli irlandesi “amano raccontare su se stessi storie che sanno di essere bugie”, intuisco che è verità universalmente riconosciuta anche alle latitudini dell’essere viestani “moderni”.

Explicit da “La Grande Implosione”

(…) come mai i viestani non si sono scandalizzati delle mere illusioni che comportava questa concezione del progresso? molte innovazioni, in effetti, offrivano solo progressi illusorî. concepite essenzialmente per arricchire imprenditori e commercianti, non fornivano niente di importante sul piano umano. (…)

(…)una volta di più, dunque, abbiamo constatato che alcuni osservatori, alla fine del xx secolo, avevano cercato di mettere sull’avviso i loro contemporanei. ma i viestani erano rimasti fedeli alle interpretazioni di Francesco Notarangelo, il quale aveva raccontato loro che lo sviluppo di quella vieste avrebbe immancabilmente fornito la felicità: per quanto enormi potessero essere le smentite, quelli continuavano a crederci. e, cosa ancora più incomprensibile ai nostri occhi, erano rimasti attaccati a quest’ultima considerazione di Lillino:

«il progresso avrebbe portato non solo verità e felicità ma anche virtù.»

in modo abbastanza logico, i viestani avevano così interpretato il messaggio nei seguenti termini: dal momento che il culto del progresso bastava a rendere virtuosi, era inutile preoccuparsi di trasmettere valori. a che pro inculcare nei giovani principî antiquati, norme obsolete? (…)

(…)Tuttavia, anche alla fine del xx secolo erano ancora presenti residui di valori cristiani, altruistici, caritatevoli. Tanino aveva attirato la nostra attenzione su un tema di successo della fine del xx secolo, quello della cosiddetta coscienza planetaria, cioè privilegiare il lontano per dimenticare il vicino. questa manìa, divenuta ben presto patologia, si manifestava sotto molteplici forme. era normale che chi abitava in un grande palazzo non avesse mai rivolto la parola ai coinquilini e non era un caso eccezionale che un dirimpettaio di casa fosse stato trovato morto dopo qualche giorno.Pertanto non c’era da meravigliarsi se, in simbiosi con questa cronica disattenzione nei riguardi del vicino, si sviluppasse una coscienza planetaria, inoculata nelle coscienze dallo schermo del televisore.