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Sanità e spesa Scure sulle cliniche no ai tetti «predefiniti»

Le nuove strutture accreditate con il servizio sanitario nazionale non hanno diritto a un badget automatico frutto di una operazione aritmetica, ma a un «tetto» comunque stabilito dalla Regione. Lo ha deciso il Tar sciogliendo una volta per tutte il nodo del presunto rimborso da 40 milioni di euro che pendeva come una Spada di Damocle sulle già precarie casse regionali. I giudici amministrativi della III sezione (presidente Pietro Morea, relatore Paolo Amovilli), gli stessi autori di un provvedimento che destò polemiche da parte della politica e sul quale si sono «ricreduti , hanno infatti dichiarato in parte inammissibile e in parte irricevibile, il ricorso presentato dalla clinica Anthea, del gruppo Villa Maria, che rivendicava un tetto di spesa di 33 milioni di euro rispetto ai 19 «concessi» dalla Asl Bari.

Per comprendere meglio la vicenda, bisogna fare un passo indietro. L’Anthea, fino al 2005, è stata una struttura che ha erogato prestazioni in regime di assistenza indiretta: in pratica, su ogni ricovero eseguito, metà era a carico della Regione, la restante parte a carico del paziente. In quello stesso anno, però, a seguito di un iter durato qualche anno, la struttura è stata accreditata con il servizio sanitario nazionale, entrando a far parte di quelle aziende sanitarie private che percepiscono – in base a un tetto predefinito – il rimborso dalla Regione per i ricoveri dei pazienti pugliesi (quelli fuori regione fanno parte di una contabilità «separata»). Per stabilire il tetto di spesa spettante a ciascuna nuova casa di cura accreditata, la Regione con una legge varata nel 2006 dettò – art. 17 – alcuni criteri, tra cui il volume di prestazioni eseguite nell’anno 2005, durante il periodo di assistenza indiretta.

E veniamo alla contestazione. Per la difesa dell’Anthea, si trattava di una operazione matematica di trasformazione del fatturato del 2005 (tenuto conto di tutti gli indicatori di performance dei ricoveri e della capacità erogativa della struttura) in tetto di spesa accreditato. Per il Tar, invece, non è così ma si tratta di «un riferimento atto a conformare il preminente e insopprimibile potere autritativo di programmazione della spesa sanitaria, nell’ambito delle risorse pubbliche disponibili». Dunque, nessuno «obbligo di acquisto a pie’ di lista di tutte le prestazioni erogabili – scrive il Tar – perchè ciò si porrebbe in contrasto con «principi in materia di programmazione e razionalizzazione della spesa sanitaria». Nè la difesa dell’Anthea, precisano i giudici «è riuscita a spiegare adeguatamente i motivi per cui la Regione dovrebbe determinare una siffatta disparità di trattamento tra strutture sanitarie già operanti in regime di assistenza ospedaliera indiretta e tutte le altre strutture private accreditate». Insomma, la normativa regionale detta alcuni indici, ma non fissa obblighi di risorse, è la tesi del Tar.

Ma che ne sarà delle prestazioni comunque erogate dall’Anthea? Il Tar, da un lato dichiara il suo potenziale difetto di giurisdizione, dall’altro sfiora il merito della presunta azione di risarcimento parlando di diritto all’indennizzo «non invocabile» essendo «vietata a monte la stessa utilitas delle prestazioni». Nè i giudici hanno ritenuto di dar peso al tavolo tecnico avviato dall’Asl di Bari, lo stesso al quale il Tar aveva dato importanza un anno fa ritenendolo un atto confessorio stragiudiziale tale da sollecitare un accordo transattivo (sul punto il Tar ha dato atto del suo ripensamento). Una bella gatta da pelare non solo per l’Anthea (che ha ridimensionato la sua organizzazione dopo la perdita del badget «sperato) ma per tutte quelle strutture che si trovano nella stessa condizione e che rivendicano (oppure hanno ottenuto) un badget di spesa su criteri ora ritenuti errati dal Tar.
Nicola Pepe