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Vico/ Maratea ricorda Antonio Pandiscia: giornalista, avvocato, biografo di Padre Pio

Un grande amico del Gargano.

 

Il primo ricordo di Tonino Pandiscia che mi sovviene in quest’ora di tristezza per la sua scomparsa, si staglia nitido nella memoria ed è legato al Convegno nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, che si tenne il 5 e6 Maggio del 1978 (sembra ieri) a Vico del Gargano, con la collaborazione di quel Comune, retto allora, da Domenico Afferrante, al Cinema “Razionale”, una delle storiche sale cinematografiche garganiche che il “progresso” ha destinato a un’ingloriosa chiusura.
Erano i giorni del sequestro di Aldo Moro e del terrorismo omicida, le giornate più tragiche della nostra Repubblica, e il manifesto di quell’evento, creato dal gusto raffinato dell’architetta Chiara Barbanente, prematuramente scomparsa, campeggia ancora in bella vista nella sede dell’Ordine, al Lungotevere Cenci, 8, a Roma.
In una splendida mattinata primaverile da passeggiata alla Foresta Umbra, Carlo De Martino, che dirigeva a Milano la più apprezzata Scuola di Giornalismo, di fronte a una platea numerosissima e qualificata (Gaetano Afeltra, Giovanni Giovannini, Gaetano Tumiati, Sergio Lepri, Saverio Barbati, Carlo Barbieri, Enrico Mascilli-Migliorini, Luciano Ceschia, Alfredo Vinciguerra, Gino Agnese, Pier Giorgio Branzi, Vittorino Meloni, il luminare del Diritto Amministrativo, Franco Gaetano Scoca, il Procuratore di Roma, Giovanni De Matteo, quello di Bari, Francesco De Santis ……..), sciorina i prodigi delle nuove tecnologie, creando in noi, completamente all’oscuro di quelle innovazioni, un senso di stupore ( e anche di sbigottimento).
E Ugo Ronfani, una delle “grandi firme” dell’epoca e tra i maggiori esperti di scienze della comunicazione, disegna, da par suo, l’”identikit” del giornalista: non più l’ulisside affidato romanticamente alla sua buona stella, ma l’operatore che si muove, se vogliamo restare nel mito, come l’eroe omerico nella nebulosa elettronica di Mc Luhan attento a decodificare, per delega dei fruitori dell’informazione, il passaggio dalla percezione alla comprensione della realtà. Il giornalista, dunque, mediatore tra “la realtà opaca e l’opinione pubblica”.
Seduto tra il Procuratore di Roma, De Matteo, e il Segretario Generale della Presidenza del Consiglio, Italo Borzi, Pandiscia, il tenace organizzatore e l’indiscusso “ diplomatico” del Convegno, annuisce compiaciuto: lo avevo conosciuto a Rodi Garganico, agli inizi degli anni ’60, in una stagione felice e irripetibile, auspice la sorella Masina, di singolare fascino, mia collega e amica in quella Scuola Media.
A margine dell’intervento di Ronfani, in una pausa dei lavori, Tonino- bel volto, eloquio nervoso, accento scattante e frettoloso, inflessione dialettale abbastanza sottolineata e pure gradevole- espone a me che, allora, avevo qualche “vaghezza” per quel “mestieraccio”, il suo modello del “vero” giornalista:” Il giornalista”- diceva, ampliando il discorso di Ronfani – “ deve continuare a dare la caccia alla notizia sull’oceano immenso degli avvenimenti, con lo stesso accanimento con cui il capitano Achab insegue Moby Dick, l’imprendibile balena bianca del romanzo di Melville. A rischio di essere trascinato negli abissi della balena notizia come il capitano Achab. O deve farsi il cronista del”continuum” quotidiano, storiografo “dell’istante”, quando il villaggio elettronico di Mc Luhan è saturo di ciò che apparentemente è non-notizia".
Un giornalismo, dunque, che si ispiri alla comprensione dell’uomo del nostro tempo, questo nostro tempo esaltante e irritante, ricco di tensioni e di paure, di contraddizioni e di speranze.
Io lo provocavo con le solite domande :”Il giornalista si ricorda sempre che il destinatario del suo lavoro, il “fruitore del suo messaggio” è il lettore? E ha presente sempre che il suo compito non è di modificare la realtà, ma di conoscerla e farla conoscere, e che non può pronunziare sentenze, facendo a meno dei processi? E non sono piuttosto frequenti i casi di giornalisti ingaggiati nel Palazzo del Potere, che si fanno sentinelle dell’ordine costituito? ……”
La nostra conversazione si allargava fino al generale e diffuso scadimento del livello professionale del giornalismo: stereotipi, frasi fatte, luoghi comuni, pressapochismo, errori di sintassi, di grammatica, di ortografia, linguaggio retorico, spesso mutuato dagli sciatti comunicati” delle Procure e dei Commissariati. Una piaga endemica e permanente del nostro giornalismo. Sullo scadimento della professione Tonino dissentiva. Ma a me pareva più una difesa d’ufficio di fronte a terzi.
La “ chiacchierata” si rilevò una delle più accorate lezioni di etica giornalistica: lezione di modo, di metodo, di mestiere, anzi di abilità nel mestiere, e proseguì, nella serata, a Vieste, dove la “carovana” si era trasferita.
I giornalisti rimasero storditi dai colori, dai profumi, dall’aria anticonformista di Vieste e soprattutto dal cibo offerto dall’Istituto Alberghiero, diretto da Giovanni Starace.
Come un patriarca d’altri tempi, flemmatico, Pandiscia annunciava che le olive e le cipolline venivano da Carpino, il pesce da Manfredonia, i capperi da Peschici, i finocchi da Lesina, le arance da Vico, i limoni da Rodi, il pane da Monte Sant’Angelo, le mozzarelle e le tipiche ricottele bianche e tremolanti, che avevano allietato i nostri risvegli infantili, e che ormai non fa più nessuno, da Sannicandro.
Vieste era già diventata una delle grandi attrazioni turistiche del Bel Paese, e si era lasciata alle spalle le sagre, le cacce al tesoro, le cerimonie solenni e un po’ casarecce. La cittadina garganica stava vivendo il suo momento magico, e il suo decollo e il suo successo – propiziati dall”ingegnere” Enrico Mattei, “patron” dell’ENI – erano dovuti alla presenza sempre più numerosa  e ricca degli adoratori del mare e della tintarella.
Le strade erano percorse da gente di tutte le latitudini che portavano con sé mode, abitudini e piaceri lontani. E le donne, naturalmente, erano in prima linea: donne indubbiamente speciali, quelle garganiche (“extraordinary women”, dicevano i turisti inglesi). Quello che sarebbe apparso scandaloso in qualsiasi altra parte del Gargano, a Vieste era lecito. E il “Pizzomunno” di Michele e Anna Di Marca era il luogo quasi obbligato di “rendez- vous” e l’imbuto di tutto il “gossip” che circolava: una vera pacchia per i giornalisti che si abbandonavano ad una fioritura di aneddoti veri, o, più spesso, inventati. Solo l’arciprete si mostrava turbato dalla scollatura troppo “generosa” di una signora, ma Pandiscia lo tranquillizzava:” Reverendo, i fatti di cui la Chiesa deve preoccuparsi sono ben più gravi di qualche scollatura esagerata……” Un uomo straordinario, Pandiscia, un cattolico laico”, profondamente buono che credeva di essere anarchico e, invece, tutto conosceva fuorché l’odio dell’anarchia rivoltosa.
Rielaboro oggi quei pensieri il più esattamente possibile, senza poter sapere se  Tonino sarebbe rimasto soddisfatto della mia opera.
La storia professionale di Pandiscia si articola come la Gallia di Giulio Cesare”omnis divisa in partes tres”: il giornalista, l’avvocato (con Corso Bovio  risolse le più intricate vertenze tra giornalisti ed editori), l’aedo di Padre Pio e della “Montagna Sacra” al cui servizio pose conoscenze, relazioni, esperienze: i suoi innumerevoli “servizi” sul Santo di Pietrelcina, trasmessi in tutto il mondo, mai rischiarono l’incontinenza televisiva.
Il Gargano per lui era allucinazioni di boschi e di pinete, spiagge di sabbia finissima, scogli, dirupi, laghi, masserie dai portali fumosi, olivi, “giardini”, fiori e frutti dappertutto: “Un’Italia in compendio”, come scrisse Antonio Baldini.
Per il nostro amico la luce, il sole, l’aria del Gargano costituivano un toccasana capace di curare ogni tipo di malattie: mancava poco che l’aria di Vico, di San Menaio, di Rodi, di San Giovanni Rotondo, di Monte Sant’Angelo resuscitasse anche i morti.
Il Gargano, tra tutti i surrogati dell’Eden, tra tutte le viventi rappresentazioni dell’età dell’oro per lui era certo la più suadente, la più calzante e anche la più comoda. Pandiscia, con passione e fantasia e, talvolta, con una punta di enfasi, vagheggiava una “Montagna del Sole” che diventasse lo specchio di una nuova Italia : un paese delle meraviglie per indigeni e stranieri, possibilmente ricchi ed eleganti, un luogo in cui alle bellezze naturali si aggiungessero pulizia, ordine, fiori: un  posto, infine, senza abusi edilizi, senza quelle "casupole sorte come funghi, costruite con la ricotta”, come diceva.
E, invece, il Gargano dovette vedere anche questo: l’assalto crescente di un turismo popolare e sparagnino che poco aveva a che spartire con le "élites" aristocratiche, economiche e culturali che Tonino sognava. Aveva ragione? Aveva torto? Non saprei dire.
Non si stancava, però, di proporre incontri, convegni, conferenze, e non lasciava nulla di intentato per individuare strategie e trovare soluzioni per limitare i danni, con il coinvolgimento dei suoi tantissimi amici nel mondo dello spettacolo, della cultura, dell’imprenditoria e della finanza, con i quali intesseva una fittissima ragnatela di relazioni. Studiava, insomma, il tipo migliore di serratura da mettere alla porta di una stalla, nella quale non era sicuro che i buoi ci fossero ancora o non fossero, invece, scappati.
Nella casa avita di Lacedonia, dove dormì Francesco De Sanctis, in occasione del suo famoso "Viaggio elettorale" e in quella al mare, a Lido del Sole, a Rodi Garganico, Pandiscia dimenticava le troppe cose che non andavano (e non vanno) e ritrovava la serenità, la pace, i pensieri perduti…E, restano indimenticabili le cene garganiche in allegria, quando si faceva l’alba in giro…Tonino era curioso del nuovo, ma senza nevrastenie, sicuro nel gusto, ironico. "Il Gargano attrae, seduce, inebria…", sussurrava, "La gente è sana, ma politici improvvisati e semianalfabeti e burocrati inetti e pasticcioni l’affossano colpevolmente, sicché tutto appare mediocre, indegno del passato…La Montagna del Sogno diventa la Montagna del Sonno…".
Negli ultimi anni, ci s’incontrava sovente a Roma nel suo studio di Via dei Prefetti, in una posizione centrale, tra le sedi istituzionali e le redazioni dei giornali, e le notizie, buone e cattive, circolavano immediatamente, venivano commentate, suscitando emozioni e reazioni, e una fioritura di motti maliziosi. Si pranzava alle "Colline Emiliane", il ristorante di Via degli Avignonesi, dove Tonino – affabile, generoso, utopico, antiburocratico, capace di proiezioni e di fughe – mi raggiungeva, salendo per il Tritone, con passo misurato, la testa ben piantata sul collo e l’aria assorta di chi medita o ricorda…
Ma, più spesso, ero suo ospite alla "Taverna Flavia", il locale di Mimmo Cavicchia, noto in tutto il mondo, frequentato in prima linea da intellettuali, politici e politicanti. Con il contorno di un "démi-monde" gaudente e scriteriato, che passa il tempo tra un "party", un "cocktail", un "vernissage", una prima dell’"Opera" o del "Sistina", incontri politici compromettenti, trattative di affari e fin troppo disinvolti intrecci sentimentali. E ancora giornalisti, parlamentari, faccendieri a vario titolo, nobili veri e falsi, registi, produttori, "stelle" del cinema e del teatro e donne, un tempo celeberrime, che hanno fama di dispensare senza problemi le loro ormai attempate grazie, incuranti del passare delle stagioni e anche delle rughe che segnano impietosamente i visi tirati a calce: un mondo manierato e un pò fasullo, sempre pronto a cacciarsi in situazioni "border line", che Tonino guardava con occhio divertito e mai complice. Non era facile separare "il grano dal loglio", ma a Pandiscia bastava un’occhiata per capire se chi gli stava davanti era un signore o un "parvenu".
Con "Tangentopoli" sparirono dalla "Taverna Flavia" (alcuni furono messi alla porta) i vecchi galli imbolsiti dalla "politique politicienne", mentre si affacciavano, rizzando la cresta, i nuovi galli emergenti, pronti a conquistare il mondo. "D’accordo con il monito evangelico di non porre il vino nuovo negli otri vecchi" – osservava Pandiscia – "Solo vorrei essere certo che di vino nuovo si tratta, e non di qualche prodotto sofisticato, presentato in una lucente batteria di bottiglie di marca. Incontrandoli, questi nuovi "maitres à penser", si mettono a parlare della situazione politica, come se i destini dell’Italia dipendessero da loro…Meno contano, e più si danno importanza…".
Per un pò, Tonino ha nutrito l’uzzolo di fare il parlamentare, in rappresentanza del Gargano: era la sua idea fissa, la sua ossessione. Avrebbe fatto bene. Ma la consorteria dei Partiti e qualche "ras" locale glielo impedirono, e il Gargano ci perse (e molto).
E, poi, gli ultimi anni: anni di silenzio, di solitudine, di opacità appesantita dal male fisico…E anche amarezze, ingratitudini…"E’ l’ingratitudine dell’asino" – commentava intristito – "che risponde con i calci alle carezze…".
E ora che non c’è più, mi piace immaginarlo in Paradiso, in un’ interminabile partita a "tresette" con S. Pio, e, accanto a loro, estasiati, Peppino, Masina e Tommasino. Sospeso tra terra e cielo, Tonino forse ha scelto la via migliore, non dimenticando, però, di strizzare l’occhio alla "dolce terra", a Giovanna, Carlo, Leonardo, Rossella…

Giuseppe Maratea