Menu Chiudi

Gargano/ Prigionieri della mafia che non c’è

Tra Vieste e Peschici, nel Gargano, la criminalità spadroneggia sul business delle vacanze.

 

La parola mafia qui non si può dire. Ma risuona dappertutto. Fra le cicale, la risacca e i giochi dei bambini. «Giornalista, sei ancora da queste parti?». «Resto fino a domani». «Facevi meglio ad andartene ieri. Guarda che ho comprato il tuo giornale. Guarda che è meglio se non scrivi. Sei avvisato…». Sono le parole della sorella degli ultimi due morti ammazzati, in questo pezzo di terra bellissimo e fuori dal mondo.

I fratelli Martino e Giovanni Piscopo erano i proprietari di un campeggio e di un ristorante con sdraio, ombrelloni e vista turchese. Il lido «Sfinalicchio» è dietro una curva. C’è una piccola piscina nella pineta. Accesso diretto al mare. Sembra un posto simile a tutti gli altri, schierati lungo la strada per Peschici. Invece questo è il punto di non ritorno.

I fratelli Piscopo sembravano scomparsi. La mattina del 18 novembre erano andati a raccogliere olive. Li hanno trovati dieci giorni dopo. Carbonizzati dentro una vecchia Alfa 156. Prima di morire erano stati torturati, come si è potuto evincere dalle fratture riscontrate sui cadaveri. Uccisi e restituiti agli occhi della gente in località «Poste Telegrafo», a poche centinaia di metri dal loro albergo. In modo che tutti potessero capire.

Adesso però Maria Piscopo, seduta a un tavolino del suo ristorante, non vuole parlare di questa storia. E non soltanto per proteggere i nipoti: «Non gli abbiamo raccontato la verità – spiega – pensano che sia stato un incidente stradale». Il fatto è che non le piace la piega che sta prendendo l’indagine. «Ci hanno accostati a famiglie che non conosciamo. Noi siamo lavoratori e basta. Ma se proprio devo dire la mia opinione, io credo sia stato uno scambio di persona. Qui è pieno di furgoni identici a quello che usavano i miei fratelli». Due morti ammazzati per sbaglio.

Ma sì, continuiamo a fare il bagno nell’acqua tiepida davanti al Gargano come se niente fosse. Come se 141 omicidi negli ultimi dieci anni (77 irrisolti) non riguardassero la vita di un pezzo d’Italia e quindi l’Italia intera. Morti sparati in faccia. Inseguimenti a colpi di Kalashnikov. Come se 90 attentati incendiari dal 2009 non fossero la prova evidente di un fatto: quella che un tempo era chiamata la mafia dei pastori, come per renderla arcaica e distante, si è evoluta. Ora si dedica ad altro. Campa di turismo esattamente come i commercianti onesti della zona. Esige la sua fetta. Estorsioni, usura. E ha bisogno degli ingressi al mare perché è da lì che passa il canale con l’Albania e il Montenegro, per trafficare droga e armi. Non c’è da scherzare. Quattro estati fa una testa di cavallo è stata esposta in piazza a Peschici. Ovunque predomina la paura. Persino Giuseppe Mascia, presidente dell’associazione antiracket di Vieste, uno che si è visto recapitare un furgone incendiato contro la cancellata del suo residence, dice: «Ci siamo già esposti molto. Non vogliamo fare i Don Chisciotte. Non ci piace lottare contro i mulini a vento. E poi alcuni arrestati sono già ai domiciliari: non è una bella cosa per l’opinione pubblica».

Telecamere alla reception. Sbarre all’ingresso. Allarmi inseriti alle tre di pomeriggio. La stagione sta andando bene. Sono più di 500 mila i turisti dei mesi estivi. Più di duecento le strutture ricettive solo a Vieste. «Stiamo resistendo» dice il figlio di Pino Vescera, titolare del Lido Oasi. Un incendio ha devastato la discoteca di famiglia sulla spiaggia. Ma i lavori di ricostruzione sono quasi finiti.

«Il problema è che noi un segnale lo abbiamo dato – dice ancora Giuseppe Mascia – a Vieste 33 operatori del settore turistico si stanno opponendo. Però certe parole non ci si addicono, potrebbero spaventare la gente…». Eppure qualcuno ha il coraggio di pronunciarle. «La mafia è fra di noi» ha detto don Giorgio Trotta, parroco di Santa Maria di Merino, dopo l’omicidio dei fratelli Piscopo. E il procuratore capo di Bari Antonio Laudati, competente per il distretto antimafia, spiega: «Quella del Gargano è una delle mafie più violente e sottovalutate d’Italia». Non da loro. Non dagli investigatori. Non dal sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, che nei mesi scorsi ha lanciato l’allarme: «Nel Gargano c’è un clima pesante di omertà». Stanno cercando di capire quali direzioni prenderà la guerra fra le famiglie dominanti. I Libergolis (ultimo atto della faida: Franco Libergolis è scomparso mentre andava in ospedale a trovare un parente). I Romito. I Notarangelo, a cui sono stati sequestrati beni per un valore di 10 milioni di euro, in capo a un’operazione dei carabinieri chiamata «Medioevo». Un nome scelto con preciso riferimento a un certo tipo di mentalità garganica.

Il sindaco di Vieste è un medico. Si chiama Ersilia Nobile. È appena stata rieletta in una lista appoggiata da Udc e Pdl. «Per noi quegli attentati erano episodi di microcriminalità – dice – ma se qualcuno vuole usare altre parole, allora ci adeguiamo a chi sicuramente ne sa più di noi». Microcriminalità? E i fratelli Piscopo? «Quello è un fatto successo a dieci chilometri da qui».

A maggio gli investigatori della squadra mobile di Foggia, agli ordini del vicequestore Alfredo Fabbrocini,sono riusciti ad arrestare Giuseppe Pacilli detto «Peppe u’ muntanaro», uno dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia. Si nascondeva in una masseria abbandonata. È considerato molto vicino al clan Libergolis. E di questo arresto complicatissimo, dopo una caccia durata un anno, Fabbrocini dice: «Raccapriccianti le involontarie connivenze su cui Pacilli ha potuto contare. Il silenzio che ha ottenuto senza chiederlo. Non abbiamo ricevuto mezza telefonata anonima, neppure una segnalazione,niente…».

La fortuna di questa mafia del Gargano – la mafia che nessuno vuole vedere – è che ha attecchito in un posto meraviglioso. Non c’è il degrado delle Vele di Scampia. Non c’è la miseria delle campagne avvelenate di Castelvolturno. Non ci sono appalti da infiltrare. Ma vacanze per famiglie, balli in mare, una natura ancora rispettata. Qui la scena può confondere. I camerieri con le cravatte tagliate – in certi locali va di moda così – servono ai tavoli il pescato del giorno. Si può stare in campeggio a buon prezzo. C’è un bel vento. E sembra davvero una bella estate, a parte questo silenzio spaventoso.

NICCOLO’ ZACCAN
La Stampa