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S. MENAIO: gli irripetibili anni ’50 e ’60

“Il mare di S. Menaio è il mare più limpido del mondo” : così, agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso, potevamo leggere nelle cronache mondane del “Foglietto” o del “Tempo”, affidate alle “penne alate” di Mario Ciampi, Lello Follieri, Attilio Tibollo e Raffaele Ventrella, che ci informavano anche che la spiaggia, dal “baraccone Mastrovalerio” a “Valazzo” era affollatissima di gambe di belle ragazze, coperte (per modo di dire) da costumi da bagno di ogni foggia e colore. Si cominciava già a favoleggiare di "nudismo integrale", sempre più procace e diffuso, nelle notti propizie, alla “Murgia della Madonna”, e circolavano i primi nomi della “haute” che lo praticavano (qui gli “omissis” appaiono più che giustificati): il richiamo, pur bonario e sorridente di Padre Cristoforo Iavicoli, nell’omelia domenicale, alla “Chiesetta della Difesa”, accentuava solo in qualche modo le preoccupazioni dei più timorati e bloccava sul nascere il “gossip” e il “voyerismo” invadenti. Ma le corrispondenze del foglio lucerino e dell’ edizione pugliese del giornale romano di Piazza Colonna  continuavano, suscitando curiosità e “ pruderie” crescenti nei “liberi pensatori”.
Michele Paolino, donnaiolo impenitente e paradigma del “sex simbol” paesano, aveva mille relazioni con popolane, turiste, ospiti: storie ruvide, destinate a  lasciare inevitabili strascichi psicologici e affettivi. Gli amori di Michele apparivano avventure romanzate, più interessanti di un romanzo,  più inverosimili di qualsiasi invenzione letteraria, e più divertenti, specialmente se a raccontarle era lui. Fu proprio un “affaire” di cuore, una vicenda sentimentale con tutti i suoi contorni scabrosi, a inguaiarlo. Una storia forte e, perciò, capace di esercitare un peso schiacciante sulla sua vita privata e pubblica ( era insegnante di Educazione Fisica), ingigantita e sfruttata dalla “presse de coeur” dell’ epoca, e oggi probabilmente destinata a essere soffocata nel silenzio e nel distacco.
Alla “casina” dei De Curtis , dopo cena, ci si metteva a cantare le canzoni più in voga: non c’era serata che non si concludesse a suon di musica. Unico solista, Mimì del Conte: fresco del suo diploma di geometra, capelli neri, lucidi di brillantina, iniziava a cantare, con la voce e con il cuore, accompagnandosi con la chitarra, “’na voce ,  ’na chitarra e ’o poche ’e luna…” , e poi finiva per condensare tutto il repertorio della tradizione partenopea (Murolo, Scalise, Cigliano, Carosone…): le dita accarezzavano sensuali le corde, mentre gli occhi agguantavano una preda ipnotizzata dalla sua bravura.
Nelle serate particolari-meno diligente nel presentarsi, ma sempre tanto atteso –seduto al muretto, Ferruccio Castronuovo, il raffinato regista”felliniano” e lo studioso di microstorie e di tradizioni popolari, si districava tra le canzoni esistenzialiste di Juliette Gréco e un tipo di musica , quella “beat” , che veniva dall’Inghilterra, e nella quale confluivano il “ blues” e il primo “rock” americano.
 Ospite fissa , “tra le belle la più bella”, Antonietta De Vido, la più elegante con i suoi vestitini di “voile” , di “charme” straordinario: un”mito” . Tutti erano innamorati di lei:adulatori, compagni  di gioco, amici. Un amore “impossibile” rischiò di sconvolgere il tran tran tran della vita quotidiana del permaloso e introverso , ma di solida cultura e di sofisticate letture, Carlo De Curtis che, infine, abbandonò il campo e fece perdere le proprie tracce, e non fu nemmeno necessario arrivare a un “gentlement agreement”.
“Cecchino” D’ Errico, invece, vivace, anticonformista , “tombeur de femmes” tra i più presentabili (aveva studiato all’”Orientale”a Napoli), preda ambita e punto di riferimento del “bel mondo”sanmenaiolo e rodiano, spendeva il suo tempo sulla “Lambretta” o in riva al mare, tra “flirts”e pettegolezzi, nei ritagli di tempo che gli consentiva il ruolo di impeccabile guida della “troupe” dei cinematografari de “La loi”.
Per i giovani (e non solo), S. Menaio era il luogo ideale per farsi gli “affari” propri: offriva mille anfratti segreti, casupole romite , sentieri inesplorati. La vita mondana era resa più “glamour” da un drappello di giovani ricchi, la cui unica occupazione era quella di divertirsi e sperperare patrimoni (qualcuno riuscì nell’intento di finire rovinato) tra balli, bagni al chiaro di luna, corteggiamenti spudorati e alzate di gomito: la “polvere bianca”, per fortuna, non ancora era apparsa.
S. Menaio, come tutto il Sud d’Italia, soffriva di annose arretratezze, e le conquiste e i vantaggi della vita moderna, ammesso che fossero tali, erano praticamente sconosciuti.
Era ancora un azzardo camminare per la maggior parte delle strade carrarecce e dei viottoli di campagna, la mancanza di acqua potabile era endemica, l’illuminazione un lusso per poche strade centrali, non c’erano fogne né bagni pubblici, se non alla Stazione ferroviaria. Il telefono? Un oggetto da fantascienza. Ne disponevano solo Della Bella a “Capotondo” e Delli Muti a “Villa Nunzia”: all’hotel “Bellariva” fu attivato molto più tardi. In compenso, a pochi metri dalla “Torre della Finanza”, c’era il posto telefonico pubblico. Le intercettazioni, allora, non esistevano, ma bastava disporsi in posizione strategica, in attesa del proprio turno, nel locale affidato ad Anna Maria Mastromatteo che, impietosa, interrompeva il malcapitato telefonista, chiedendo invariabilmente “raddoppia?”, perché la “privacy” andasse a farsi benedire e si riuscisse a sapere tutto di tutti.
Bisognò arrivare al 1958, quando si lavorò alacremente al potenziamento della rete telefonica, fino a quel momento a un filo. E fu una fortuna, perché non se ne poteva più dei “blackouts” che, in piena stagione, tagliavano S. Menaio fuori dal mondo.
La spiaggia, dalle “Murge Nere”a “Valazzo”, qua e là, di buon mattino, era punteggiata da tende a tre canne, che fungevano da spogliatoio e che venivano smontate all’imbrunire (cabine “veramente” mobili “ante litteram”): l’unica invidiata “suite” fissa apparteneva a Della Bella.
I giovani, che avevano passione per il pentagramma, per imparare a suonare il pianoforte, senza dover pagare neanche una lira, approfittavano della liberalità di donna Rina Santovito, che aveva “accompagnato” artisti celebri persino alla “Scala”, e che ben coperta e con il copricapo anche d’estate, sembrava il romantico “souvenir” di altra epoca. Alcuni, per partecipare alle lezioni, arrivavano alla sua villa a S. Antonio, a piedi da Vico o da Rodi, un’ora ad andare e un’altra a tornare: prendere la “corriera” sarebbe costato una cifra esorbitante per i bilanci delle loro famiglie.
Nel “baraccone Mastrovalerio”, il commercio agrumario con Luigi Pirandello, parente dell’omonimo geniale commediografo “Premio Nobel”, con Baller, con Gargiulo e, poi, appunto, con Saverio Mastrovalerio, aveva conosciuto, sino agli anni ’20, il suo “momento magico”: venivano dalla Sicilia carovane di bellissime ragazze specializzate nell’arte di incartare i frutti nella carta velina, decorandoli di figurine litografiche. Così agghindati, gli agrumi della “Conca d’Oro”garganica partivano su trabaccoli stracarichi, alla volta di Pescara, Ancona, Trieste, Spalato…
Il piroscafo per le Tremiti (e, poi, la “Daunia”, con qualche enfasi chiamata “motonave”) per imbarcare i passeggeri che lo raggiungevano sulla barca di Agostino Dell’Aquila, appartenente a una storica famiglia di pescatori di S. Menaio, si fermava al largo, di fronte all’arcigna seicentesca “Torre della Finanza”, una delle venticinque torri realizzate, tra la Capitanata e il Molise, per la difesa dagli assalti dei Turchi e, in seguito, per il controllo del commercio marittimo e del contrabbando: si partiva alla volta delle Tremiti, pieni di entusiasmo, con la macchina fotografica e il binocolo a tracolla. Appena al largo, il piroscafo cominciava a rullare e a beccheggiare, e quasi tutti i visi dei viaggiatori diventavano di pallore cadaverico. D’improvviso, per fortuna, apparivano le “Diomedee”, il mare si placava, il sole scacciava le nubi, tutti i mali passavano come d’incanto.
Al “Mulino di Mare” erano le case estive dei Nardini e dei sanmarchesi Serrilli e, all’interno, a “Carbone” quelle dei Vitale e dei Maratea, mentre le abitazioni alle “Murge Nere” dei De Petris, degli Africano, dei Mancini e dei Cerulli costituivano una sorta di anticamera di “Villa D’Altilia”, dove l’avvocato Tommaso viveva con una nidiata di figli e nipoti.
La pace agreste di queste dimore era spesso turbata dal rombo del motore dell’elegante automobile dello spericolato Giacomo Palmieri.
Arrivando da Rodi, si incontravano la casa dei Maselli, dirimpetto al “baraccone Mastrovalerio” (lì fu, alla fine dell’Ottocento, concepito da Antonio Maselli il romanzo storico “Scene garganiche ovvero La figlia di Maso”, sul modello di quello manzoniano, già famoso), “Villa Santovito”, appunto, le case dei Lucatelli e dei Mastromatteo.
E, di fronte alla “Torre della Finanza”, abitava l’unico vigile di S. Menaio, Ascanio Di Lalla, del quale è rimasta famosa la concitata telefonata d’allarme fatta al Comune di Vico dal posto pubblico, dinanzi alla basita Anna Maria, a seguito di una violenta mareggiata che colpì quel tratto di riviera (“Ascanio vede acqua rossa a mare”).  La cosa suscitò molta ilarità: a ben pensarci, si trattò di modello “avant lettre” di “Protezione Civile” casereccia, epperò tempestiva, efficiente e, soprattutto, “a costo zero”.
I medici Cardone, Gagliani e Di Lalla, nelle loro ville a “Valle delle Noci”, a “Valazzo”, e al “Carbonaio” restavano estranei alla mondanità del luogo: vedevano solo pochi selezionati ospiti e alcuni amici collaudati. E ancora a “Valazzo” le “casine” dei Giglio, dei De Vido, dell’avvocato Dattoli, benefattore del Comune di Vico, e al “Carbonaio”, “Villa Cavalli” del giornalista del “Messaggero”, Carlo, e , a un tiro di schioppo la casa di famiglia di Matteo De Monte, il brillante “inviato speciale” del quotidiano di Via del Tritone. Sempre al “Carbonaio” erano attrezzate al meglio per gli amanti del sole e della tintarella “Villa Del Viscio”e “Villa Maria” dei fratelli Delli Muti, che offriva il primo esempio di redditizio “ bed and breakfast”.
Alla “Difesa”, “Villa Petrucci”: Silvio, che aveva sposato la nipote di Petrolini, vi si rifugiava per ritemprarsi delle fatiche di “capo” della redazione del “Messaggero”, sovente disturbato dalle petulanze dei “ras” del fascismo di Capitanata, con le loro suppliche e le loro delazioni, che il giornalista garganico fingeva di raccogliere. Il fratello Alfredo, invece, si riposava al mare di Rodi, a “Villa Ruggiero”, la casa di famiglia della moglie. Alfredo era un’istituzione della cultura garganica, il “genius loci” più autentico. Quando era a Rodi, non rinunziava (manco a dirlo) all’abitudine tipicamente garganica della “controra”, in cui convivono l’ estraneità a un’ideologia forsennatamente produttivistica e anche, però, l’assenza parassitaria di etica del lavoro.
A “Capone”, tra ulivi e carrubi, era la villetta di Carmine Panunzio, mentre il fratello Ambrogio, preferiva con donna Maria, la quiete della “Vedovagna” a Calenella. Donna Maria aveva inaugurato la moda dei “pranzialsole”, come li chiamava ( i “picnic” di oggi), alla “Torre” di Monte Pucci, non ancora trasformata in “casa-laboratorio” dal pittore Manlio Guberti, o di fronte, a “Macchia di Mare”, prima che l’Enal si accingesse ad aprire un villaggio turistico.
A “Villa D’Addetta”, l’estate, erano ospiti (paganti) Raffaele e Maria Grazia Ventrella: d’inverno, ciascuno dei coniugi viveva la propria vita, ma la famiglia restava un ancoraggio fisso, irrinunciabile per entrambi.
A “Valazzo”, Rosettina Di Stolfo , aristocratica e un po’ svagata, con le mani bucate, adusa a vivere alla grande, era immersa in un’atmosfera decadente, si illudeva di avere sempre vent’anni, e continuava la rituale abitudine del tè pomeridiano.  Si inventò un mestiere per andare avanti, ma farsi pagare la metteva in un terribile imbarazzo. Lì si vedevano molte facce nuove (arrivava da Vieste, in compagnia del peschiciano Gaetano Vigilante, Nino Calandrini, mondano, rampante, “chicchissimo” nei suoi pantaloni bianchi, squattrinato, che parlava di argomenti tabù, eppure aveva porte spalancate in tutta S. Menaio, e godeva di appoggi e di amicizie) e si aprivano nuovi “salotti”, ma quello di “Villa un sogno” rimaneva meta obbligata dei villeggianti più in vista e riferimento sicuro di sofisticati ricevimenti e di feste leggendarie. Gianni, il fratello di Rosettina, che di S. Menaio conosceva  (e conosce) ogni angolo, ogni pietra, ogni cambiamento d’umore atmosferico, ogni uomo, sposò Tina, conosciuta al “Bellariva”, che faceva parte della “troupe” che girava “La legge”, e che aveva una rassomiglianza sorprendente con Gina Lollobrigida: iniziò da lì per Gianni il lungo e proficuo rapporto con la Rai e, poi, con Mediaset, per l’organizzazione di innumerevoli e fortunate trasmissioni.
Rina Cappuccilli effervescente, ironica, partecipava a feste e a serate private, senza guardare troppo per il sottile: passava la parte più cospicua del suo tempo, con la sigaretta perennemente tra le labbra, in interminabili partite a carte, tra giocatori di canasta e signore con capelli “alla bebè”. Nelle lunghe serate invernali, a “Villa un sogno”, la corrente elettrica spesso si interrompeva a causa del temporale, e un cane di fuori abitualmente guaiva, cercando di entrare. Rina era la sorella di Pasquale (medico e dirigente superiore del Ministero della Sanità), di Tonino (Generale dei Carabinieri e, nelle pause del lavoro, protagonista di memorabili battute di caccia  a “Gadescia” e alle “Cortiglie”), di Bruno (avvocato e, per diversi lustri , magistrato onorario): veri signori, amici di tutti, professionisti prestigiosi e sanmenaioli di incrollabile fede. La mamma di Rina, donna Angela Mastromatteo, dall’abbigliamento semplice, un po’ “campagnard”, trascorreva a S. Menaio, al Lungomare Maria Josè (oggi Lungomare Andrea Pazienza), buona parte dell’anno, mentre a pochi passi, risiedeva stabilmente la sorella, donna Bianca, che aveva sposato il colonnello Ettore Rocca. Elegantissima, curatissima, incedeva come una dea omerica o una “star” del cinema: una “ leggenda”.
Casa Dal Sasso, alla “Difesa”, era tappa d’obbligo non solo per le famiglie “bene” di S. Menaio (Panunzio, Delli Muti, Cappuccilli, Rocca, Santovito, Lucatelli, Di Stolfo, De Vido…..) ma anche per la “cafè-society” di Capitanata e per quello stuolo di intellettuali e giornalisti, che l’avevano scelta come luogo d’elezione (Petrucci, D’Addetta, Ungaro, Ciampi, Follieri, Tibollo, Ventrella…): mobili sobri, tappezzerie di “cretonne” fiorato, mattonelle con pesciolini blu e verdi, il camino per sopravvivere ai rigori invernali, e le monellerie di Guido, Tonino e Otto, i “gioielli” di famiglia. “Berto”, il dentista, piccolo, magro, fragile, gentilissimo, lavorava in una stanzetta, mentre la moglie Marinella, estroversa, dal senso di ospitalità innato, molto selettiva nei rapporti, si scatenava soltanto con gli amici sicuri: furono anni fecondi, di una gioia fatta di piccole cose per lei e per tutti quelli che la conoscevano (il rosolio, il sorbetto, a Pasqua, le uova decorate personalmente…).
Maria Della Bella, la donna più “in” del “gotha” provinciale, di conturbante bellezza e dal “pedigree” inattaccabile, baciata in fronte dalla fortuna (o, almeno, così pareva), viveva tra Napoli e “Capotondo”, un edificio quasi irraggiungibile, dalla forma semplice e severa: una lezione di stile per l’ingenua ostentazione di pseudo-architetture di molte costruzioni “kitsch”, spuntate come funghi a partire dall’ultimo Ottocento, che nulla avevano a che fare con la purezza del paesaggio garganico.
“Capotondo” ebbe il privilegio dell’"augusta" visita di Umberto di Savoia, al quale a pranzo furono serviti: Brodo “Diomede”- Dentice all’Ammiraglia – Millefoglie all’Italiana -“Pollanche” allo spiedo – Insalata primaverile – Timballo ghiacciato “Gargano”- Frutta. L’elegante e, tutto sommato, sobrio “menu” -tutti gli ingredienti rigorosamente a “chilometro zero”, si direbbe oggi- fu, in segno di totale apprezzamento sottoscritto dal Principe: era il 29 aprile del 1923.
A due passi dalla Stazione, sul Lungomare, addossato all’emporio delle peschiciane “zitellissime” sorelle Quaglia, a lungo una vera e propria “istituzione” per S.Menaio, Miki (Michele De Felice), fascistissimo, con la sua cucina celebrata dall’avvocato Leonardo (“Nardino”) De Meo, colto e fine “gourmet”, ghiottone errante alla scoperta di osterie sconosciute e di cibi perduti (un mix degli odierni Paolini, Vizzari e Scarpelli), stimolava tutti e cinque i sensi contemporaneamente, con accostamenti insoliti di sapori, suoni, odori, colori e sensazioni tattili: promuoveva l’ottimismo a tavola, continuando a sostituire l’antifascista pastasciutta, che rende pigri, con il patriottico e più “politicamente corretto” riso: i tempi non erano ancora maturi per il cambiamento. Un’eccezione veniva fatta con il “timballo tricolore”, uno sformato di maccheroni con la forma e i colori della bandiera italiana: il bianco della pasta e della “besciamella”, il rosso del ragù, il verde delle foglie di basilico, aggiunte per decorazione dopo la cottura. La moglie, Vincenzella Raspone, lo aiutava ai fornelli. Il ristorante, rilevato da Michele De Rosa, nella sua semplicità, era considerato tra i migliori della Provincia, ed era famoso per la zuppa di pesce e il fritto di “triglie, calamari e gamberi”, che, “don Michele”, con voce flautata e modi da incantatore, proponeva ai clienti: il Maresciallo della Marina Michele D’Anelli e il maestro spezzino Vito Vigliaroli, ospiti fissi di robusto appetito, non si lasciavano mai scappare il suggerimento. Al di là delle infinite chiacchiere liquidate seccamente, marito e moglie trovavano, ognuno nell’altro, il proprio completamento, come se nella loro affinità avessero realizzato l’incontro vagheggiato da Platone tra le due metà della stessa pera.
A Villa Ungaro, a “Valle delle Noci”, talvolta sopravveniva da Roma don Filippo, il celebre penalista, protagonista dei processi più intricati e avvincenti. Ungaro era stato giornalista al “Giornale d’Italia”, al “Messaggero” e al “Tempo”, ed eletto parlamentare, il tenace e convinto “apostolo” della Ferrovia garganica, prima di lui a lungo uno dei tanti progetti nati dalla speculazione elettorale e sfumati il giorno dopo le elezioni.
D’estate, le occasioni di divertimento non mancavano: la sera, ci si sparpagliava nelle ville, da “Miki”, al “Bellariva”, hotel dovuto alla felice intuizione di Nicola e Francesco (“don Cecchino”) Delli Muti, autentici pionieri del turismo garganico.
Alla “Terrazza” della Stazione ferroviara, illuminata a giorno, gestita insieme con “Villa Di Lalla”, prima che approdassero al “Camping Internazionale”, da Teresa e dall’incontenibile marito Leonardo Di Monte, si faceva festa fino al mattino, e si mangiava una pizza che vantava un segreto nell’impasto di acqua e farina. Leonardo, a “Villa Di Lalla”, aveva sperimentato, invece, un piatto nuovo, fresco e leggero costituito da trance di “fiordilatte” e da fette di pomodoro,  condito con olio, sale, foglie di basilico e origano: una “caprese” garganica.
Per Giuseppe D’Addetta, avvocato, direttore del mensile “Il Gargano”, organo di rinascita del Promontorio che, non dismettendo il “bon ton” del “salotto buono”, aveva, comunque, intrapreso meritorie battaglie civili contro istituzioni sonnolente e inadempienti, la difesa delle vere tradizioni garganiche e sanmenaiole fu una vera religione.
D’Addetta, Michele Vocino, Alfredo Petrucci, appena fu pubblicata dall’editore Parenti l’edizione italiana de “La loi” del francese Roger Vailland, polemizzarono duramente con lo scrittore transalpino, accusandolo di infamanti pregiudizi e di banali luoghi comuni nei confronti delle popolazioni garganiche. Avevano ragione? Avevano torto? A distanza di tanti anni , direi che, sia pure con una certa malagrazia, Vailland aveva fornito ai garganici uno specchio, osservandosi nel quale, potevano imparare a conoscere una parte di loro stessi che forse avrebbero preferito ignorare.
D’Addetta lasciò il segno nella storia di S.Menaio, oltre che per il suo “San Menaio e dintorni”, un agile volumetto, di impianto rigoroso e di accattivante lettura, e per gli innumerevoli editoriali sul suo giornale e sul “Tempo”, per un convegno in difesa del paesaggio garganico, della tutela e valorizzazione delle bellezze naturali e della protezione dell’architettura rurale contro la speculazione, gli sventramenti indiscriminati e l’edilizia da “pollaio condominiale”.
 Le polemiche giornalistiche, fino ad allora, erano limitate alle disquisizioni tra i sostenitori della tradizionale, semplice e raffinata architettura locale, e i fautori di un miscuglio tra gotico e arabeggiante, che qualcuno si affannava a spiegare che “creava e non uccideva il paesaggio”.
Analogo, accorato, elegiaco “grido di dolore” contro i predoni del cemento armato e i distruttori di incomparabili paesaggi venne lanciato da Franco De Vito (è contenuto in “San Menaio com’era” di Michele Biscotti, che ha spulciato nei cassetti di antiche famiglie e messo a disposizione di tutti un immenso archivio fotografico, tesoro inestimabile della memoria dei nostri padri: “un racconto per immagini, tramato d’amore e di sguardi spirituali”, ha scritto Filippo Fiorentino). Peccato, però, che Franco avesse dimenticato i buoni propositi quando si trattò di costruire la propria abitazione a “Valazzo”. Sorte diversa probabilmente sarebbe toccata alla sua villa a “Sospetto”, se vicende rocambolesche non ne avessero turbato l’”iter”, e non fosse stato costretto a passare la mano. La villa fu “pensata” dall’architetto Enrico Natoli, con lo sguardo e con il cuore in un vasto orizzonte di sole e di mare senza fine. Ma i due litigarono su tutto: sui volumi, sulle prospettive, sul disegno, e soprattutto sui soldi. La Soprintendenza, alla fine, diede il “via libera” al progetto rabberciato, e si dimostrò che la legge per la tutela del paesaggio non può essere uguale per tutti. Natoli ben presto abbandonò, con tanti saluti, anche lì, all’armonia del luogo.
Peppino, il fratello di Franco, funzionario della Cassa per il Mezzogiorno, un vero “ dandy”, che inseguiva, nell’atteggiamento e nell’abbigliamento, i dettami della moda più esclusiva, scelse, invece, un “buen retiro” ovattato, “Les chandelles”, una villa sapientemente ristrutturata, a ridosso della pineta “Marzini”, sulla “statale” per Vico.
Pierino Zaffarano , Ugo Lucatelli, Lorenzo Della Vella, il veterinario Mimì Giglio, Vincenzo Firma, Pietro Monaco, Antonio De Stefano, Michele Palmieri avevano, ormai, messo giudizio e, nelle escursioni sanmenaiole, seguivano “percorsi” singolari, che difficilmente si incrociavano, mentre “Cecchino” Della Vella, eccezionalmente, era inserito a pieno titolo nella “crème” dell’aristocrazia sanmenaiola.
Nel 1953, Tommaso Fiore, in “Il cafone all’Inferno”, aveva tracciato un quadro impietoso e fortemente “ideologizzato” di una borghesia garganica manierata e un po’ fasulla, attestata su posizioni di retriva conservazione. Lasciato il Gargano (nel suo “viaggio” era accompagnato dal giovane Giuseppe Cassieri), il famoso meridionalista altamurano aveva espresso un giudizio devastante sull’ “intellighenzia” locale: “ Ne ho fin sopra i capelli, è una fucina di pettegolezzi, una fiera delle vanità, una messinscena, una mascherata permanente, un’espressione archeologica”. Verità? Esagerazioni? Come sempre , il “milieu” può soccorrere.
Al “Mulino di Mare”, da Annina Pascale, Cassieri, l’allievo prediletto di Pasquale Soccio e il lettore di casa Papini a Firenze, superate le burrascose vicende legate al suo romanzo d’esordio       “Aria cupa”, prendeva i bagni e “inventava” le trame dei suoi libri e dei suoi elzeviri, che presto lo portarono a postazioni di prima fila nella Storia della Letteratura Italiana. Lo scrittore rodiano, cedendo al fascino dei ritmi del luogo, si adattava a lunghe  e quotidiane camminate: il trenino del “Far West” e la sbuffante e cigolante “corriera” delle “F.T.M.”, che aveva sostituito l’elegante calesse, non incontravano il suo gradimento.
Francesco Delli Muti, a sorpresa, fu capace di accreditare di sé l’immagine di uomo colto e di prolifico scrittore (“Le Isole Tremiti”, “L’archeologia garganica”…): fama di gran signore e       (più presunta che vera) di sublime jettatore. A seguito di rapporti ravvicinati, addirittura di amicizia, intessuti con decine di persone che contavano, aveva avuto dal Regime benefici forse sproporzionati rispetto ai suoi meriti. Con l’avvento della Repubblica, si spinse a imbarazzanti dichiarazioni di fede democristiana, che sarebbero serviti a ben poco, se non avesse avuto l’abilità e la fortuna di intercettare la benevolenza dell’onorevole Gustavo De Meo, che lo riciclò. Geometra, “possidente”, organizzatore di eventi, uomo di pubbliche relazioni, finanziere, imprenditore, conosceva profondamente S. Menaio, le sue vestigia, la sua anima antica. La stampa lo cercava, scriveva di lui, faceva pubblicità alle sue strutture turistiche e ai suoi libri (quello sulle “Isole Tremiti” è tuttora un classico della letteratura odeporica sulle “Diomedee”, e “L’archeologia garganica” resta una silloge preziosa sulle campagne di scavo di Rellini, Battaglia, Ferri, Corrain…). “Don Cecchino” aveva uno strano carisma, molti lo temevano, e gli operai del “Camping” della “Pro S.Menaio”, che lavoravano per lui, non lo amavano, anche perché li pagava poco. Gli appoggi politici, però, gli consentivano di rimanere a galla e di eliminare dalla sua strada i concorrenti più agguerriti. Eppoi, lui si occupava di S. Menaio, cui non aveva pensato mai nessuno, e intuiva quali grandi possibilità di sviluppo e prosperità nascondesse, mentre i sanmenaioli si abbandonavo a una geremiade di lamentele e di insinuazioni nei suoi confronti, da lasciare sconvolti…
Oggi, a “Villa Nunzia”, il rifugio più appartato e remoto di S.Menaio, con “Capotondo” di Della Bella e “Capone” di Panunzio, brandelli di intonaco colorato attestano la furia degli elementi e l’incuria dell’uomo. “Tout passe…”.
Tra i vip che non avevano casa a S.Menaio,  la scelta cadeva quasi obbligatoriamente sul “Bellariva” dei fratelli Delli Muti (il nome “Bellariva” a Michele Vocino non piacque: gli sembrava troppo comune): non c’era “viveur” della “café -society” foggiana, che non vi avesse alloggiato. I banchetti si susseguivano ai “galà” in abito lungo, “corbeilles”di fiori di tutti i colori addobbavano salette e tavoli da pranzo, e la decorazione delle pietanze era considerata importante quanto il loro sapore (a volte addirittura di più), e Jole, la bella e luminescente direttrice per conto dell’ACI (la proprietà era passata di mano) era, nella penombra del bar, destinataria spesso di “avances” lecite e meno lecite.
Al “Bellariva”, due o tre camere restavano sempre libere per le “alte personalità” che potevano arrivare improvvisamente. C’era l’ex gerarca, convertitosi al Partito di Togliatti, che supponendo di non essere ascoltato, canticchiava a bassa voce “Giovinezza, giovinezza/Bellariva di bellezza…”, nostalgico del “buon” tempo andato. Ma, appena incocciava in qualche ospite dell’albergo, alfiere dei tempi nuovi, con voce stentorea, intonava il ritornello “Primo maggio di riscossa/vieni tu, bandiera rossa”. Fra gli ospiti più importanti dell’albergo, naturalmente, non c’era uno che pagasse subito: i più lasciavano “segnato” in conto, e pagavano a fine stagione (qualcuno “se ne dimenticava”, e l’anno successivo, disinvoltamente, cambiava albergo e località). Ma capitava anche, a volte, che qualche cliente, scontento del conto, non si limitasse a protestare, e si rivolgesse direttamente al Prefetto, informandolo “per il buon nome di S. Menaio” dei prezzi esosi che si praticavano nell’albergo.
Nel 1960, l’EPT, diretto da Rosiello, che a S. Menaio era di casa, cominciò a snocciolare dati sconfortanti: le felici stagioni, ormai, erano un  ricordo e,  mano a mano, il “bel mondo”, che aveva scelto S. Menaio come capitale della mondanità, emigrava verso altri lidi. Per superare il periodo difficile, anche “Bellariva” dovette adattarsi, accettando ospiti che usufruivano di “pacchetti turistici” particolarmente vantaggiosi.
Già dal 1950, la quiete e i ritmi di quell’esclusivo “parterre de rois” vennero scossi da sciami di dopolavoristi, di impiegati, da comitive da cui rimbombavano con rumore le cadenze dialettali di S. Severo, S. Nicandro, Cagnano: si era scoperto da poco il piacere del viaggio, e la gita domenicale al mare rappresentava una conquista sociale. Le tariffe stracciate dei treni speciali, con convogli solo di terza classe, consentivano a masse sempre più consistenti di scorrazzare su e giù (la ferrovia garganica, costruita dall’impresa Cidonio in appena due anni, era stata inaugurata in pompa magna, tra popolazioni festanti, dal Ministro Costanzo Ciano, il 27 ottobre 1931, e la madrina della manifestazione, Maddalena Ungaro, aveva infranto contro la locomotiva la rituale bottiglia di spumante).
Il “boom” di questo turismo popolare trovò tutti impreparati: l’arrivo dei treni, la domenica, venne descritto come un’invasione barbarica. Solo il capostazione, don Filippo, indaffaratissimo per l’arrivo dei treni supplementari, e i coniugi Di Monte, gestori del bar, davano l’idea festosa della vacanza, fatta di sole, di riverberi sgargianti, di vocii, di saluti rumorosi e della singolare mescolanza del profumo della pineta e dei fumi della locomotiva.
Scoppiarono le prime polemiche. Come ci si doveva comportare davanti ai crescenti assalti di questo turismo? Respingere l’assedio delle truppe “mordi e fuggi” o organizzarsi per accogliere i “parvenus” della vacanza? Il dibattito fu orchestrato dai soliti Ciampi, Follieri, Tibollo, Ventrella, D’Addetta, esponenti di punta del gruppo di intellettuali che avevano scelto S.Menaio come punto d’incontro e di riposo e che, già da un po’ di tempo, con le loro famiglie, avevano cominciato a dire che il loro “luogo del cuore” non era più quello di un tempo, che la bella gente si vedeva sempre meno, che la confusione era insopportabile. Le loro cronache rappresentavano lo stato d’animo di questo “gruppo di potere” che, però, si rese conto che la soluzione consisteva nell’aggiornare i programmi, non demonizzando il turismo di massa, ma organizzandolo, dirigendolo e, per così dire, “ingentilendolo”.
Ulteriore contributo a quel tipo di turismo venne dalle colonie estive per l’infanzia a “Postiglione” e ai “Ferrovieri” che diedero vita alle “cure elio-talassologiche”, consistenti semplicemente in bagni di mare e di sole. Difficile contare la marea di figli di dopolavoristi che le popolavano: c’era posto per tutti, in un clima simpatico di miseria e nobiltà.
Fu una grande stagione quella che visse S.Menaio- che sembrava avviata sul sentiero di una definitiva promozione alla modernità- nel 1958, e che ebbe il suo momento d’oro, ma anche l’inizio del suo declino, la sua fatale conclusione con il film “La legge”, girato interamente tra Carpino, Rodi e Monte Pucci. Regista della pellicola, tratta dall’omonimo romanzo di Roger Vailland, che aveva riscosso il prestigioso “Premio Goncourt”, era Jules Dassin, già famoso per “Rififi”, e del “cast” di prim’ordine facevano parte Gina Lollobrigida, Marcello Mastroianni (una miscela di fascino e timidezza, di spavalderia e goffaggine), Yves Montand, Melina Mercouri, Pierre Brasseur, Paolo Stoppa, Vittorio Caprioli, Gianrico Tedeschi, Bruno Carotenuto, Luisa Rivelli, e i giovanissimi Raf Mattioli e Lydia Alfonsi.
In occasione dell’arrivo della “troupe”, al “Bellariva”, S.Menaio era stata ripulita, infiorata, e aveva assunto l’aspetto di una grande “corbeille” di fiori: fiori lungo le strade, nelle ville, davanti alle case più modeste. Ai sanmenaioli e ai vichesi era riservato il privilegio di vedere da vicino personalità celebri, stelle del cinema, attori famosi, dei quali avevano sentito parlare o visto le immagini su qualche rivista illustrata o nei documentari della “Settimana Incom”. (“Villa Nunzia”, invero, già trent’anni prima, era stata la “location” de “L’intrusa”, sottotitolata “La casa sotto gli aranceti”, una commedia in quattro atti che aveva riscosso buon successo, ed era stata proiettata addirittura in America).
S. Menaio, comunque, non perdeva ancora quell’aria di borgo marino un pò  “naïf” che costituiva tanta parte del suo misterioso fascino. Che cosa mai, infatti, poteva turbare quell’oasi di pace e di bellezza? Eppure, qua e là, si avvertiva sotto pelle una qualche nostalgia per l’ambiente esclusivo, le feste, la mondanità discreta e coinvolgente, che sembravano appannati.
Ciampi, Follieri, Tibollo, Ventrella, (l’”intellighenzia” d’elezione) che, con le famiglie “storiche “ di S. Menaio, avevano creato scampoli di una “dolce vita” casalinga e, proprio per questo, più genuina e meno siliconata, pensarono di abbandonarla. Per un verso e per l’altro, non vi si riconoscevano più: il loro passato, il loro potere, le loro relazioni non garantivano più corsie preferenziali. Erano stati presi da una vaga rassegnazione e si riducevano a occuparsi di vanità (riti amichevoli, litigate, invidie artistiche, premi e carriere), ignorando il più possibile il contesto politico e sociale.
Tutto diventava anonimo, ingrigito, anche se tutti riconoscevano che S.Menaio era rimasta, almeno, indenne dalla violenza e dalla brutalità comuni a molti luoghi costieri.
Con lo spirare degli anni ’50, nessuno più si divertiva, organizzava feste, animava serate danzanti: si assisteva agli ultimi sprazzi, si spegnevano le luci della ribalta, tutto era deserto, S.Menaio si spopolava. E dove era il “baraccone Mastrovalerio”, due barche dormivano sulla fiducia delle ancore e, stanche di insidiare i pesci, le reti si asciugavano al sole, mentre, intorno, si avvertivano l’odore del pesce e il fiato solito delle località di mare.
Siamo, ahimè, in pochi a poter ricostruire, anche nel racconto, i guizzi finali della “belle époque” di S. Menaio, che costituiscono un lontano ricordo ben fissato nella memoria, o forse il “rêve”. Se insistessimo nel confronto, l’odierna molto diversa realtà, finirebbe per cancellare o sbiadire quelle immagini di ricordanza aurata.
Alma Bernt, Jeronimo Lopez e Marcello Pirro cercarono (era il 1969) di rinverdirne i “fasti”, ma non furono capiti. Quando penso a Marcello Pirro, è un fluire di ricordi: la giovinezza impetuosa, le passeggiate interminabili, le illusioni, i deliri… Marcello, di Apricena, pittore, scultore, poeta, a Venezia aveva fondato una prestigiosa rivista “La Città”, dove erano apparse le “grandi firme” della sinistra colta e innovativa (Massimo Cacciari, Emilio Vedova, Renzo Vespignani, Titina e “Citto” Maselli, Virgilio Guidi, Hans Richter, Biagio Marin…). Nella casa di Calenella, a “Cappelletta”, con i suoi alti e bassi d’umore, le sue collere, le sue tenerezze, le sue pantagrueliche libagioni, il luminoso senso del colore e la manifesta incapacità di mercificare l’arte, Marcello era rimasto un personaggio puro, irriducibile, emblema di un’epoca scapigliata, romantica, “bohémienne” che, d’un tratto, si concluse.
Avemmo la sensazione che anche una parte di noi- quella più giovane e candida- se ne andasse con lui. Si prospettava l’età della “ragionevolezza”. Ma nel profondo del cuore, sapevamo che sarebbe stata più quieta solo perché più compromissoria.

Giuseppe Maratea

L’Attacco