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Vieste / La pasta Benedetto Cavalieri, la casa del Buon Gesù e la balenottera di mia cognata

Prestavo attenzione alle parole pronunciate dalla mia povera mamma, usate per descrivere la pessima abitudine di mio padre di mangiare all’infinito dolci e leccornie varie. La mia mamma quando parla il dialetto di Peschici è velocissima. Ci siamo: “Pierì te fa com nà butuesh!”; è dispregiativo perché il termine “butuesh” indica nel linguaggio di mia madre qualcosa di grasso, di sformato. E’ come se io dicessi a mia cognata Michelina: “Stai facendo il sedere come una balenottera”, con la differenza che io mi diverto con il sedere di mia cognata mentre la mia mamma si arrabbia con la pancia di mio padre.
Nell’analisi dell’idioma di mia madre, intercetto per ben due volte in una giornata le parole: “Pasta Cavalieri”, seguite dal roteare nell’aria della mano destra a disegnare più cerchi [sinonimi di bontà e armonia], usate per descrivere un particolare abbinamento tra cibi o il feeling tra due o più persone. Indago in silenzio senza destare sospetti. M’interrogo: “Cosa c’entra mia madre con la pasta Benedetto Cavalieri?”, un’eccellenza del Made in Italy, quando papà Pierino non è disposto a spendere più di cinquanta centesimi per mezzo chilo di pasta e mia madre inorridisce vedendomi rientrare dalle Marche con la valigia piena di pasta di farro integrale biologica pagata 3.00 € al pacco?
L’eccezionale storia sociale che vi racconto descrive i tempi in cui viviamo e com’eravamo. A Peschici, sul finire degli anni cinquanta, a casa dei miei nonni materni, era abitudine mangiare nei giorni feriali la buonissima pasta Benedetto Cavalieri, dal sapore inconfondibile. Nei giorni festivi, mia nonna preparava la pasta fatta in casa. Erano altri tempi: il pasto principale, a base di pasta Benedetto Cavalieri e sugo, era servito nei tardi pomeriggi, soltanto al rientro dai boschi dell’autoritario nonno Lazzaro. Il fuoco del camino serviva a riscaldarsi, a cucinare, a creare la solenne atmosfera familiare del pranzo. La preparazione della cottura della pasta Benedetto Cavalieri (guai a chiamarla semplicemente pasta!) era un rito: il pentolone di rame stagnato all’interno, pieno d’acqua bollente adagiato sulle fiamme del camino aspettava un cenno da mio nonno, appena rientrato dai boschi. Con la pasta Benedetto Cavalieri, bisognava avere pazienza nella cottura: sintetizzava i tempi lenti, del mangiare sano, della famiglia allargata alla comprensione della miseria altrui. Il mio generoso nonno, al momento di dare l’ok alla mia comprensiva nonna, amava ripetere sempre la stessa frase: “ Marì, butta più pasta……”. A casa dei miei nonni c’era sempre un piatto di pasta Benedetto Cavalieri per gli amici Pasquale, Andrea con i figli gemelli e Matteo. Era la casa del Buon Gesù, grazie all’intraprendenza nel commercio della frutta di mia nonna Maria, aperta ai poverissimi ma dignitosissimi amici di mio nonno. Era la mia mamma la vedetta che avvisava mio nonno dell’imminente arrivo di Pasquale, Andrea e Matteo. I figli di Andrea, scalzi e nudi, arrivavano subito dopo, uno per volta, secondo un copione già visto molte volte. Uno dei due si sedeva sulle ginocchia del padre, l’altro divideva la sedia e il piatto di pasta Benedetto Cavalieri di mio zio Antonio che era riempito di nuova pasta Benedetto Cavalieri. E’ curioso apprendere che entrambi i figli di Andrea oggi siano cuochi professionisti.
Quando mio nonno era arrestato per taglio abusivo di legname, che poi rivendeva a Rodi Garganico e a Peschici, gli uomini Pasquale, Andrea e Matteo si limitavano a donare a mia nonna il legname per il camino; bisognava aspettare la scarcerazione di mio nonno per sedersi tutti a tavola a mangiare la pasta Benedetto Cavalieri. La famiglia di mia madre mi ricorda la generosissima famiglia D’Onofrio, la mia seconda famiglia, custode dei disastri che combinavo da piccolo ai Quattro Palazzi, che accudiva me e i miei fratelli, durante le assenze, per motivi di lavoro, dei miei genitori.
Prima ancora di nascere, mio nonno a tavola con la pasta Benedetto Cavalieri aveva superato le moderne e stupide rivalità tra il Gargano e il Salento, terre di Puglia. Era un ambasciatore del pastificio Benedetto Cavalieri, della Puglia, dello Slow Food.
La pasta Benedetto Cavalieri è una pasta di altissima qualità. Questa mattina da Lilino Bua ho comprato la pasta Benedetto Cavalieri, tra cui gli spaghettoni e le ruote pazze. Non riuscirò probabilmente a convincere il velocissimo e affamatissimo papà Pierino della necessità di attendere qualche minuto in più per una pasta unica al mondo. Del prezzo mi faccio carico io, con i soldi della mia mamma, figlia dell’ambasciatore del pastificio Benedetto Cavalieri. Bisogna aspettare domani, alla presenza dei nipotini, futuri ambasciatori del buon cibo, e della cognata balenottera, per degustare la pasta Benedetto Cavalieri.
Dobbiamo mangiare meno ma meglio. E riscoprire le autenticità della nostra amata Puglia. La prossima pasta a cadere sotto i denti affilatissimi della famiglia Pierino, è la Benagiano di Santeramo in Colle.
Rimane l’amarezza di vedere il mio paese senza nessuna eccellenza alimentare, ad alto valore aggiunto con nome e cognome di un pioniere o di una comunità, esportata nel mondo. Se fossimo riusciti a fare impresa e ad esportare le nostre eccellenze alimentari, forse oggi avremmo un ambiente tutelato e redditi duraturi. L’agricoltura avrebbe tutelato e preservato l’ambiente. Le stupende foto di Carlo Ranalli postate sul suo profilo facebook e le bellissime foto di Marino Delli Santi, che ho avuto l’onore di vedere a casa sua, mettono in evidenza la risorsa agricoltura fatta di orti e vigneti, oggi scomparsa. Il paradosso è che oggi i viestani comprano frutta, verdura e ortaggi coltivati in posti spesso molto lontani da Vieste. Gli uliveti sono al tramonto. Volgendo lo sguardo al mare, le foto facebook di Franco Colella, Saverio Fusco e Nicola Santoro testimoniano la chance sprecata.
L’attento Salvatore Taronno, fiduciario della Condotta Slow Food di Foggia e Monti Dauni, vorrebbe sapere quanto spendeva mio nonno in generi alimentari rispetto al suo reddito, in percentuale. E aggiunge: “Ora le famiglie spendono il 15% del loro reddito negli hard discount per comprare cibo spazzatura e poi hanno due cellulari a testa….”.
Oggi si dedica minore attenzione alla spesa alimentare a favore di altri consumi; nel documento che state leggendo questo è sintetizzato dal comportamento di mio padre che, se fosse per lui, non spenderebbe mai più di cinquanta centesimi per mezzo chilo di pasta; però gira sempre in macchina, anche quando non è necessario. Potenza dei media! Con i risparmi, in occasione di queste festività, ho regalato il baccalà ai miei genitori, senza dire loro il relativo prezzo perché non ritengono opportuno spendere per il baccalà oltre le 9 € il chilo (il prezzo e la qualità sono fissati dalle aziende di produzione dominanti e dai media). Così è per il vino, la cioccolata, la pasta, anche se le cose lentamente stanno cambiando grazie all’aiuto dei miei fratelli, attenti all’alimentazione.
I miei nonni, nelle fatiche, nel carcere, nelle disgrazie, nell’emigrazione verso la Germania, erano relativamente (molto relativamente) fortunati perché i loro parenti erano agricoltori e pastori mentre mia nonna, oggi ottantenne, all’età di quattordici anni (fino a ieri) vendeva la frutta al mercato rionale. Probabilmente non spendevano molto per il cibo perché producevano quasi tutto in famiglia (doveva essere la regola) e a tavola riuscivano a mangiare, anche se dovevano accontentarsi di quel poco di pancetta che sostituiva la carne, o della frutta invendibile al mercato rionale (ad es., gli acini dell’uva), ma non mancavano mai le verdure, i legumi, le uova e la pasta. La mia mamma ieri sera mi raccontava del baratto tra l’orzo e il grano, tra il formaggio e la carne, ecc. Era un’economia chiusa, dove le persone erano indicate per soprannomi. La mia mamma ha vissuto tutta la sua infanzia nelle campagne di San Nicola, Manacore, appartenute ai suoi parenti, dove si raccoglieva il grano e si coltivavano gli ortaggi e le verdure. Gli orti svolgevano anche la funzione di asilo nido. La mia mamma, quand’ero piccino, m’ingurgitava di passati di verdure!
Di tutto lo sterminato patrimonio alimentare custodito e tramandato dai nostri avi, tra Peschici e Vieste, non c’è una bottiglia di vino, di olio, un pacco di pasta venduto in tutto il mondo; l’agricoltura non si è fatta impresa, per molti motivi e tante colpe. Una singolarità: nella Barossa Valley, Australia, è possibile acquistare determinati vini soltanto sul posto. Vi dovete recare in Australia per degustare determinati vini: in realtà vendono il paesaggio, il territorio, l’amore per la propria terra, l’accoglienza. Probabilmente è un modo per evitare l’ingresso nell’affollatissimo mercato internazionale dei vini; funziona grazie ai turisti e alle vie del vino.
Una bellissima foto di Carlo Ranalli riprende la costruzione dell’hotel Merinum e la distruzione dell’antistante vigneto sulla spiaggia, probabilmente per lasciare spazio al parcheggio in uso all’hotel Merinum; è una foto che simboleggia in maniera eccezionale il passaggio dall’agricoltura al turismo. Se una bottiglia di vino della Scialara fosse costato l’equivalente di 20 € di oggi, molto probabilmente l’hotel Merinum sarebbe nato lo stesso e il vigneto in questione distrutto, ma credo che tantissime baraccopoli per turisti, nati nei vigneti e negli orti, soprattutto lungo la costa, non avrebbero avuto una ragione economica per essere costruite. Il basso prezzo all’ingrosso dell’olio d’oliva del Gargano è una forte determinante all’abbandono degli uliveti; per gli oli toscani, invece, c’è un ricchissimo mercato. E’ una questione di mercati, nazionali e internazionali: non è un gioco per sprovveduti.  
Da Casa Pierino, buon piatto di pasta Benedetto Cavalieri a tutti.
 
Lazzaro Santoro