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Vieste – DON ANTONIO SPALATRO E SUO FRATELLO PICCOLO

Ho già scritto qualcosa su don Antonio ma in molti mi chiedono di farlo ancora, ritenendo che nella mia condizione anagrafica privilegiata di fratello di cotanto sacerdote io possa dire molto di più di quanto finora è stato detto. Ebbene signori, mi dispiace deludervi, ma io, sia pure suo fratello, ho visto molto poco della sua memorabile attività di pastore della Chiesa e di servo di Dio. Infatti ho assistito praticamente a nessuna delle Sante Messe da lui celebrate. Non ho quindi mai ascoltato una sua omelia o predica dal pulpito. Come non ho mai ascoltato una sua lezione di catechismo. Non l’ho mai visto o accompagnato per le strade di sop la Torr a portare il conforto dei Sacramenti o della parola di Dio.     L’unica mia presenza o partecipazione è stata quella di voce bianca nella Scuola Cantorum da lui creata e diretta. Ma si trattava solo di prove o di esibizioni in messe, riti religiosi o processioni che quasi sempre avvenivano all’esterno della sua parrocchia.
Direte voi, possibile tutto questo? E’ la verità che risiede in una ragione molto semplice: don Antonio (Totonno in famiglia) non mi volle nella sua parrocchia e non mi iscrisse nella sua Azione Cattolica.
Su questa drastica scelta di mio fratello prete c’erano tre versioni. La sua era che non voleva farsi condizionare dalla presenza di un fratello piccolo. Leggermente diversa quella di nostra madre. Diceva nel suo colorito vernacolo: «Povr figghij [il prete, naturalmente], ten’ tanta cristien da scurcià, mò pur tu [io naturalmente] ci vuij». Il verbo dialettale scurcià dovrebbe significare togliere la scorza, come si fa con il fico d’india prima di essere gustato ma la mamma lo usava nel senso metaforico di sopportare. Sulla cosa infine c’era una terza versione, quella d parenti ed amici per i quali essendo io una peste, don Antonio preferiva tenermi alla larga. Ma questa era solo una maldicenza, ero solo un ragazzino vivace come tanti.
In qualunque modo siano andate le cose sta di fatto che don Antonio mi tenne fuori dalla sua parrocchia, quasi in una sorta di esilio religioso-spirituale. Naturalmente non sono stato lasciato allo scoperto su questo fronte. Infatti fui affidato, lo fece Totonno stesso, al collega don Luigi Fasanella. Questo sacerdote è stato il mio direttore spirituale: don Luigi mi ha accompagnato e guidato nella fase di transizione che va dall’ultima infanzia alla adolescenza e quindi alla prima giovinezza. E qui lo voglio ricordare con tanto affetto e memore riconoscenza.
Ma torniamo a Totonno o don Antonio che dir si voglia. Se l’ho visto poco o niente sul territorio della sua parrocchia naturalmente l’ho visto in casa, tra le mura domestiche. Ma anche qui non tanto. Al risveglio del mattino lui già non c’era più. Difficilmente rientrava prima del pranzo. Al pomeriggio a volte usciva presto, a volte si fermava qualche ora in più per ricevere alcuni amici di un certo livello culturale ed allora casa mia diventava un salotto letterario durante il quale si discuteva dì tutti temi religiosi sociali o politici di allora. Ma io mi annoiavo e uscivo per andare a giocare in strada. Lo rivedevo a sera, ma non sempre, perché io mangiavo insieme a papà che, avendo lavorato tutto il giorno in campagna, cenava presto ed io con lui. Totonno invece rientrava quasi sempre più tardi.
L’insieme, la somma di tutti questi elementi di vita vissuta con don Antonio non mi ha mai dato la consapevolezza, ma neanche la pur minima percezione, di vivere accanto ad un fratello dalla statura spirituale fuori dal comune.
Pensavo semplicemente di avere un fratello ecclesiastico e non mi facevo altre domande. Oltre tutto il sacerdote che avevo come punto di riferimento era don Luigi Fasanella, con il quale mi dovevo confrontare, ma non lui.
Quando cambiai idea, quando incominciai a capire? Subito dopo la sua morte. Da quel preciso momento in poi ebbe inizio un avvenimento, direi meglio un fenomeno inimmaginabile. Casa mia, casa di don Antonio, divenne meta di un pellegrinaggio di massa inarrestabile. Veniva a trovarci, a visitarci tanta gente, la più diversa, spesso a noi sconosciuta, un’umanità dolente commossa, riconoscente che ci portava oltre alla loro solidarietà, la testimonianza delle tante cose mirabili che don Antonio aveva fatto per loro.
Casa mia era diventata un santuario, quasi un sacrario, perché in quelle modeste mura aveva vissuto don Antonio Spalatro. Io ero sconcertato e confuso. Ma fu la salvezza per i vecchi genitori. Inerti, annichiliti, pietrificati dal gran dolore, tutto quel calore umano che veniva riversato su di loro lentamente li rianimò e donò loro un nuovo soffio di vita. Avevano perso un figlio sì, ma avevano guadagnato un santo da onorare e celebrare.
E a questo punto delle cose vale la pena analizzare non tanto la quantità, ma la qualità della moltitudine che veniva a visitarci significando per qualità il loro rango sociale ed economico. Pochi i notabili anche del mondo della chiesa, la grande maggioranza di costoro era gente umile modesta certamente non abbiente. E allora capimmo che i luoghi che don Antonio privilegiava non erano i piani alti, ma i seminterrati, i bassifondo, i tuguri, ed allora ve n’erano tanti. Capimmo che non c’era una di queste povere case che non avesse visitato per portare non solo la parola della speranza in Dio ma soprattutto il segno concreto e materiale della carità cristiana. Perché don Antonio è stato mirabile in tutto ciò che riguardava il suo ruolo istituzionale di sacerdote,ma nell’esercizio della carità verso gli ultimi i reietti, i diseredati, gli sconfitti dalla vita, è stato eccelso. I
l povero e la povertà erano la sua bandiera, la sua crociata quasi la sua ossessione. In ogni povero lui vedeva Cristo in croce e cercava disperatamente dì staccarlo da quella croce.
Abbiamo ascoltato da quella povera gente racconti inimmaginabili se trasferiti ai tempi di oggi. Tempi di oggi in cui si dice stia nascendo una nuova povertà. E’ solamente ridicolo. Allora c’era la vera povertà. In tanti vestivano con miserabili stracci, in tante case per giorni non si accendeva il fuoco per preparare e consumare una minestra calda. E su questo fronte don Antonio era sempre in prima linea, dava tutto se stesso, si è praticamente spogliato di tutto, quasi fosse un contemporaneo e moderno san Francesco. Chiedo perdono per l’accostamento al patrono d’Italia, sicuramente azzardato, se non irriverente.
Ma l’ho fatto per sottolineare un elemento importante, visto dall’interno della mia e quindi sua famiglia. San Francesco era figlio di un ricco mercante, don Antonio era invece figlio di un umile contadino.
Perché dimenticavo di aggiungere, don Antonio Spalatro non ha spogliato solo se stesso.
Vincenzo Spalatro