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Vieste/ L’umanesimo socialista di Mimmo Aliota

 In una giornata molto fredda di metà gennaio  di quest’anno, è morto a Vieste, sua terra natale,  lo scrittore Giacomo Aliota, per tutti Mimmo Aliota. Aveva 87 anni e da più di due una malattia invalidante lo aveva allontanato dagli studi e dalle sue ricerche.

E’ stato un animatore e organizzatore culturale di tutto rispetto, Aliota, e autore di libri su Vieste, e sui suoi abitanti.  Lo si incontra tra i fondatori del giornale locale,  Il Faro di Vieste, nel 1949, insieme al più anziano poeta  Tanino Delli Santi; lo si ricorda, entusiasta, nel 1995, tra i pionieri che vollero riprendere il cammino, da Vieste a Monte Sant’Angelo, lungo i sentieri montani già battuti dagli antichi pellegrini Sammchlére.  E Lui, già avanti negli anni, fu tra i primi ad affrontare la fatica della Montagna del Sole, il 29 di settembre, un’esperienza che doveva ripetere ancora un paio di volte.
           Mimmo Aliota diresse Il Centro di Cultura Nicolò Cimaglia di Vieste e la Sezione di Storia Patria della città, promuovendo la stampa, o la ristampa, di importanti documenti stortici, tra cui vanno ricordate la pregevole edizione anastatica, del 1989, delle settecentesche Memorie Storiche di Vieste,  di Vincenzo Giuliani; e la pubblicazione, dopo undici anni, degli Atti  del Convegno internazionale di studi su Uria garganica, che egli volle e preparò con cura insieme ad Angelo Russi docente dell’Università di Lecce. In quel convegno, presieduto da Pasquale Soccio tra il 17 e il 18 ottobre del 1987 all’Hotel Pizzomunno di Vieste, gli studiosi e gli accademici presenti accreditarono la tesi che la mitica e antica città di Uria poteva, e doveva, identificarsi con la città di Vieste,     e ciò a seguito di una lettura più attenta delle fonti classiche, e delle scoperte archeologiche fatte nel territorio di Vieste, non ultima la grotta dedicata a Venere Sosandra sull’isolotto del faro.     
            Di fede socialista, il giovane Aliota, polemista politico dalla penna tagliente, si fece le ossa scrivendo sul foglio locale e collaborando con i giornali nazionali Il Paese e il Paese sera e soprattutto, per disciplina e obbligo di bottega, leggendo e studiando l’Avanti!, l’organo del partito di cui lui fu anche segretario cittadino e consigliere di minoranza fino al 1970. Ninì delli Santi, ricordandone la figura in un corsivo su OndaRadio, subito dopo il funerale, dopo aver fatto cenno a sue “grosse e grasse litigate”  per motivi politici e per questioni di storia locale, del personaggio, che sicuramente fu uomo difficile, dà il seguente  giudizio. <<Mimmo era così: prendere o lasciare. Pane al pane. …. Istrionico, egocentrico. Si contrapponeva al potere. Nulla a che fare e vedere con le figure d’oggigiorno così liquide ed elitarie>>.
           Da questo breve profilo, disegnato con mano ferma da impressionista, vien fuori un Aliota dedito agli studi storici e alla cultura politica, discipline che  ha curato con lo zelo e il furore dell’autodidatta. Dotato di un istintivo acume critico e speculativo, il Nostro elevò a scuola morale i giornali a cui lui faceva riferimento fino a scoprire in essi la trama filologica che innerva la sua opera più importante, che prende in esame, grosso modo,  un arco storico che va dal 1930 al 1960. Mi riferisco  al trittico storico-letterario che abbiamo conosciuto negli Anni Novanta (Il mio Paese del 1993; Vieste Primo Amore del 1995; I Racconti della sera del 1998).
          Nella recinzione che io feci alla prima edizione de Il mio Paese, un libro di spessore con molte foto d’epoca, ebbi la sensazione – e lo scrissi – che esso fosse scaturito da “appunti di un’opera rimasta nel cassetto”, pensata   con la mente del sociologo e dello storico. Tali e tanti erano i riferimenti e  le notizie  sugli usi e costumi, sui palazzi dei signori, sui portoni dei padroni, sulle viuzze e sui vicoli, sui sottani,  sulla gente del proletariato e del sottoproletariato, sulla gene di mare. Lo scrittore non rispose mai, neanche anni dopo, in occasione di una lunga intervista, dopo la pubblicazione de I Racconti della sera,  che hanno chiuso, in età più che matura, il ciclo dei ricordi. Quel mio pensiero ritorna ora e la memoria filologica mi porta a Tanino  Delli Santi, il poeta dialettale che pubblicò molte sue poesie su Il Faro di Vieste, e a Danilo Montaldi, un valente collaboratore dell’Avanti!, più giovane di Aliota, uno straordinario studioso irregolare, che nel 1961 pubblicò per i tipi di Einaudi un libro, con saggio introduttivo,  di storie di diseredati, contadini e pescatori fluviali della Bassa padana. Queste storie, scritte o dettate dagli stessi protagonisti in un italiano dialettizzato, senza sintassi gerarchica, l’autore chiamò Autobiografie della leggera, intendendo per ”leggera”un mondo di miserabili, ai margini della legalità. Dal primo, io credo,   Aliota imparò che anche gli ultimi della società (viestana), che si specchiavano nei versi dialettali, non erano occasionali riferimenti per filastrocche paesane, ma anime di satire alle prese con nuove esperienze estetiche, in un panorama culturale di estrema periferia,  vecchio e classicheggiante, piegato per lo più su polverosi tomi di cose di chiesa.  Dal secondo,  morto prematuramente nel 1975, apprese, io ritengo, la lezione delle scienze sociali in cui preminente era il dibattito, allora molto vivace anche sull’Avanti!,  sul rapporto tra politica e letteratura, tema, questo, molto sentito e studiato nell’ambito dell’umanesimo socialista.   Non conosco la biblioteca privata di Aliota e non posso affermare che egli abbia letto le Autobiografie, ma se non le ha lette è molto probabile che ne abbia avuto contezza.  
           Pier Giorgio Bellocchio,  il fondatore dei Quaderni Piacentini, nella prefazione a una edizione Bompiani di quel libro, del 1998,  scrive che tra i primissimi ad accorgersi delle Autobiografie non fu “un sociologo, non uno storico, non un politico, ma un letterato, Pier Paolo Pasolini”.   E riporta alcune righe della critica di quel grande intellettuale, sul racconto <<di quattro cinque lunghi memoriali, in cui dei sottoproletari padani narrano le loro vite, il loro marginale, ma pur sempre essenziale e irripetibile, passaggio sulla terra”>>; e ancora:  <<C’è gente non solo dell’aristocrazia intellettuale borghese, ma anche comunista, che si ostina a considerare persone come queste che hanno dettate le loro autobiografie, come non esistenti, come non parlanti, come non presenti: poco più che bestie, insomma, prive di spirito. … Il sorriso di noia e di compassione …, nel parlare degli irricuperabili  sottoproletari è la spia di un errore profondo, di una vera e propria aberrazione: l’idea che la storia scorra su un solo strato. Ma la storia è spessa, scorre su più strati! E lo spirito non è che la coincidenza semantica dell’individuo con la storia>>.  
            Mimmo Aliota, nel manifesto programmatico da cui prende il via  Il mio paese, ci spiega  che ha affrontato la fatica per evitare che “i fatti” e  “le persone” dei suoi ricordi  <<finissero, di qui a qualche anno, in fondo all’immane sacco della spazzatura della storia>>.  E continuando:  <<Ho cercato le passioni, i pensieri, i sogni, i dolori e le gioie della gente ricca di anni da vivere, di fantasie, di speranze, di allegria, di amore, di ironia, di slanci umani, proprio come era una volta la gente minuta. Di questa gente la storia paludata non si è mai occupata perché l’ha ritenuta sempre oggetto, giammai protagonista di storia>>. In questo libro, come negli altri due, Aliota, sociologo e storico senza scuola, proprio come Bellocchio dice di Montaldi, di autobiografie ne scrive una soltanto, la sua, dispersa tra le pagine, a tratti molto umana e carica di poesia. Per il resto, lo scrittore, provvisto di una profonda sensibilità, riesce a fare sperimentalismo letterario con agili e brevi biografie  che, per dirla con Pasolini, registrano  di quegli uomini, mai presenti, il loro passaggio sulla terra. La scrittura di Aliota è chiara e nervosa, e senza ridondanze, e le voci dialettali che vi si incontrano sono il suggello del carattere storico dell’opera d’arte.
           <<Apprime, manghe i chéne! Era na vita triste, ….. Si lavorava dall’uscita del sole fino al tramonto … i proprietari si raccomandavano  a Mattejucce u sagresténe>> della cattedrale per far suonare un po’ prima l’ora del mattutino, la sveglia che chiamava a raccolta i braccianti agricoli. Iniziano così I Racconti della sera, con la testimonianza di  Michele Peppenèdde, un  anziano ospite della Casa di Riposo di Vieste. Coteste parole, che lo scrittore mette bene in evidenza, per lui – ma anche per noi – benché depotenziate dal tempo e dal contrattualismo politico,    rimandano dritto alle miseria morale e al fetore della miseria su cui galleggiano moltissimi eventi della storia. Altrove, Giacomo Aliota, cito a memoria,  scrive che in alcuni periodi dell’anno, quando i braccianti agricoli pativano letteralmente la fame, i signori  ordinavano ai loro caporali di provvedere e mettere a disposizione tinozze di fave cotte davanti ai loro portoni.
           Tra le pagine di Aliota vi si trova di tutto, forse anche troppo.  Ma soprattutto vi si trovano uomini, portatori e interpreti  della propria esistenza, in un quadro variegato che va dalla solitudine di  Pasqualine Zarrot del primo volume (<<Non fumava, toglieva dal sacco la vecchia chitarra e incominciava a suonare. Ma non suonava per gli altri, suonava per sé stesso; accompagnava il suo mugolare quieto, che non rassomigliava a nessun  motivo conosciuto. I vicini ascoltavano e non dicevano nulla. Quando finiva, rimetteva la chitarra nel sacco e andava a dormire>>);  alla coscienza psicologica di Tuccèlle la roscee, del secondo volume (<<… La sua casa era in Via Cimitero, ad-Alete, … Sue dirimpettaie erano un paio di signore sulla quarantina che, senza tanti riguardi, presero a scrutare la novella sposa per leggerle sul viso le nuove della prima notte. … Capirono tutto. Ci furono subito le battute un po’ scherzose e un po’ maligne; … Tuccèlle se la prese a male … Da buona roscia malupìne, se la legò al dito. La notte seguente le cose andarono decisamente bene, anche perché Tuccèlle  mise da parte il famoso contegno e si impegnò al meglio. Quella mattina era una bella giornata. I passeri nostrani facevano festa … Tuccèlle non si perse d’animo, si affacciò al verone e con voce rotonda disse: Belle fé, vuje tenite u papone ‘mizze i cosse, affacciateve! Ve fazze sapé che mariteme éje cavallìre: stanotte sette volete ce menata a cavdde! Alla faccia di quidde che tènene la paliscene infacce alla cuchighj! …>>).
           Questa brevissima rassegna, rappresentativa dell’opera aliotiana, sarebbe monca senza Ze Carmenucce, il “gaudente”, che doveva stare molto a cuore al suo autore se lo ha inserito nel secondo e nel terzo volume. (<<Ze Carmenucce stava bene, possedeva terre ed animali. … Quando ritornava dalla campagna, la sera, le donne di casa si affrettavano a scodellargli la minestra, i soliti legumi su fette di pane tagliate molto sottili e stivate sul fondo di un  piatto di “ferro fuso”, largo quanto una piazza d’armi. // Egli si toglieva gli scarponi chiodati, la giacca di velluto, il cappello sudato e si sedeva alla tavola … //Assumeva con le gambe, le braccia e le spalle ricurve, e la testa reclinata, una posizione di totale aggressione al piatto. Per rendere più grande la presa della forchetta di stagno, ne allargava le punte con il manico del cucchiaio. Una voracità da lupo!//Dopo il primo assalto famelico, si rilassava un poco; afferrava per il collo la bottiglia di vino nero  e ne succhiava lunghe sorsate, che scendevano per il gargarozzo gorgogliando. Seguiva, immediatamente dopo, l’esplosione di un rutto possente come un tuono. Poi sollevava un poco il deretano da un lato e liberava un peto che deflagrava come una granata austriaca. // La moglie, poverina, dopo ogni colpo, reagiva con la stessa espressione: Stu purche fetende! ….>>)
          Pier Giorgio Bellocchio, nel ricordarci che  tra i tanti amici di Montaldi c’erano, oltre che sé stesso,  Franco Fortini e il grande sociologo e pensatore Edgar Morin,   oggi ultranovantenne e in buona salute, si dice certo che il proletario di Cremona “sia anche un artista e appartenga a pieno titolo alla storia della letteratura, anche se i nostri manuali si ostinano a ignorarlo”.   Per quanto riguarda Giacomo Aliota, che per tanti versi somiglia a Danilo Montaldi, sperimentalismo letterario compreso, mi vien fatto di pensare che i suoi scritti sarebbero molto piaciuti a Pier Paolo Pasolini.

– Giovanni Masi
Gargano nuovo
Aprile 2013

 

 

 

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