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Ass. Sentimento Meridiano/REGNO DELLE DUE SICILIE: Industria e imprenditoria

Il settore industriale, anche se meno rilevante dell’agricoltura, costituiva un campo in via di sviluppo e venne sostenuto dal governo borbonico attraverso politiche protezionistiche e incoraggiando
l’afflusso di capitali stranieri nel regno.

 

 Dopo i primi barlumi di sviluppo industriale, avutisi durante il decennio francese, la dinastia
borbonica, con la seconda restaurazione, avviò una politica volta all’indipendenza economica del reame. Si inaugurò dunque una politica industriale, che, nonostante i suoi limiti (non riuscì a soddisfare
completamente i bisogni del reame), portò all’origine dei primi opifici moderni della penisola ed apportò notevoli mutamenti nel tessuto sociale del Mezzogiorno.Napoli [1] era, in campo industriale, la città più
significativa del regno e già negli anni trenta si era deciso di
incanalare la sua espansione industriale verso la periferia orientale e
lungo la costa vesuviana. Tra le attività più importanti dell’area
urbana napoletana si ricordano la lavorazione delle pelli
(principalmente per la produzione di guanti e scarpe), la produzione di
stoviglie, i mobilifici, le fabbriche di materiali da costruzione, di
cristalli (rinomato era quello di Posillipo [2]), di strumenti musicali,
le distillerie. Una notevole consistenza aveva l’industria cartaria e
quella tessile, sia a livello artigianale sia a livello propriamente
industriale. I progressi in campo tessile furono testimoniati anche
dalla Statistical Society [3] di Londra [4] agli inizi degli anni
quaranta dell’Ottocento: il console della regina britannica, Gallwey,
nell’ottobre del 1841 [5] redasse un rapporto sull’efficienza delle
fabbriche tessili del litorale tirrenico napoletano. La siderurgia e la
metalmeccanica rappresentavano il ramo industriale più consistente, con
stabilimenti dislocati tra la zona del Mercato e Pietrarsa. Rilevanti
infatti furono la fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa [6], la Real
Fonderia di Castelnuovo, la Real Fabbrica d’armi di Napoli, i cantieri
navali di Napoli e le officine dei Granili, facenti parte della grande
industria statale napoletana. Il Reale Opificio Meccanico e Politecnico
di Pietrarsa [7] con i suoi 34.000 m² era il più grande impianto
industriale di tutta la penisola, era munito di macchinari capaci di
qualsiasi tipo di lavorazione metallurgica e metalmeccanica e produceva
macchine utensili, caldaie, motori, rotaie, cannoni, vagoni ferroviari,
materiale per navi, locomotive e macchine a vapore di vario impiego. Il
complesso ospitava anche una scuola per macchinisti ferroviari [8] e
navali, grazie alla quale il regno poté sostituire nel giro di pochi
anni le maestranze inglesi utilizzate in precedenza. A Pietrarsa furono
costruite le prime macchine marine d’Italia per le navi a ruota "Tasso"
e "Fieramosca". Al complesso di Pietrarsa si affiancava l’opificio dei
Granili, un impianto progettato da Ferdinando Fuga [9], destinato alla
fabbricazione di caldaie marine e locomotive, oltre che a fonderia. Tra
le più importanti e moderne industrie metalmeccaniche private si
ricordano le officine Guppy [10] e gli stabilimenti Zino & Henry [11]
nel napoletano. Poco lontano da Napoli si trovava il Cantiere navale di
Castellammare di Stabia [12], il quale impiegava circa 1.800 operai.

Al di fuori dei grandi centri economici come Napoli [13], Palermo [14]
e Bari [15], alcune realtà industriali sorsero gradualmente in altre
province del reame.

In Calabria Ulteriore [16] era presente la
Fonderia Ferdinandea [17] ed il Polo siderurgico di Mongiana [18], in
cui veniva lavorato e trasformato il ferro estratto dalle numerose
miniere della zona (evitando l’importazione dall’estero). Mongiana
ospitava anche una fabbrica d’armi [19]che produceva materiali grezzi e
finiti in uso nelle Forze Armate del regno. Le principali manifatture di
armi tuttavia erano situate a Napoli e a Torre Annunziata [20] (sede
della Reale Fabbrica e Montatura d’Armi [21]), dove gli acciai calabresi
venivano lavorati e trasformati in armi da fuoco ed armi bianche.

In
Sicilia [22], nelle zone di Catania [23] e Agrigento [24], era presente
l’industria mineraria basata sulla lavorazione dello zolfo siciliano
[25], a quel tempo fondamentale per la produzione di polvere da sparo
[26] (che nel regno avveniva nel moderno polverificio di Scafati [27]) e
acido solforico [28], produzione che soddisfaceva 4/5 della richiesta
mondiale.

Nel salernitano e nella valle del Sarno [29] esisteva una
sorta di polo tessile, gestito in prevalenza da imprenditori facenti
parte della cospicua comunità svizzera campana (Von Willer,
Meyer&Zottingen, Zublin& Co., Schlaepfer, Wenner& Co., Escher & Co.).
Queste industrie tessili, dotate di stabilimenti meccanizzati, avevano
in quell’epoca potenzialità superiori a quelle presenti nel distretto di
Biella [30] (che successivamente diventerà il principale polo tessile
italiano). In quest’area, assieme al settore tessile, sorse anche un
cospicuo indotto, in alcuni casi sopravvissuto fino ai nostri giorni. Il
nucleo più antico della comunità elvetica in Campania si fa risalire
alla nascita degli stabilimenti Egg a Piedimonte d’Alife [31]. La
migrazione di tessitori svizzeri in Campania fu causata dalla
ristrettezza di materie prime di cui soffriva il settore tessile
elvetico durante il "blocco continentale" napoleonico, che impediva le
esportazioni di filati dall’Inghilterra (fondamentali per la nascente
industria tessile svizzera). Tra i primi svizzeri ad intraprendere la
produzione tessile nel reame napoletano si ricordano in particolare i
Meuricoffre [32] (futuri banchieri) e Giovanni Giacomo Egg. Quest’ultimo
nel 1812 ebbe in concessione dal governo un vecchio monastero a
Piedimonte d’Alife [33] che in breve trasformò in un moderno opificio
dotato di una forza lavoro di 1.300 operai. Molti connazionali di Egg,
incoraggiati dal suo successo, decisero così di stabilirsi nel Regno
delle Due Sicilie, in cui la produzione di cotone (nell’area vesuviana)
e di lana (negli Abruzzi) era abbondante e qualitativamente buona.
Impianti tessili gestiti da imprenditori autoctoni si trovavano anche in
altre province del regno, come gli stabilimenti tessili dei Sava, Zino,
Manna e Polsinelli in Terra di Lavoro: in particolare nella valle del
Liri [34] erano presenti oltre 15 lanifici i quali soddisfacevano gran
parte dei bisogni del mercato meridionale. Nelle valli del Liri [35] e
del Fibreno [36] era inoltre concentrata la rilevante industria
cartaria, che tuttavia operava anche in altri centri vallivi del reame.
Manifatture significative erano situate a San Leucio [37] (Caserta
[38]), dove avveniva ed avviene tuttora la produzione di seta pregiata.

A cura di:

Michele Lopriore

Ass. Sentimento Meridiano