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Regno delle due Sicilie: l’Inghilterra e il Risorgimento Italiano. 1ª parte

Fin da quando salì al trono nel novembre del 1830, Ferdinando II concepì la presenza del Regno delle Due Sicilie sullo scacchiere europeo come quella di un’entità politica in crescita.  Benedetto Croce, nella Storia del Regno di Napoli (Adelphi) notava che, nelle intenzioni di
Ferdinando II, il regno doveva essere un organismo politico «nelle cui
faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia
agli altri e da non permetterne per sé». Così, proseguiva Croce, il
figlio di Francesco I «guardingo e abile si avvicinò alla Francia, si
liberò della tutela dell’Austria, che aveva sorretto e insieme sfruttato
la monarchia napoletana, e mantenne sempre contegno non servile verso
l’Inghilterra che era stata la protettrice e dominatrice della sua
dinastia nel ventennio della Rivoluzione e dell’Impero». Ma
l’Inghilterra riteneva che l’aver difeso i Borbone ai tempi di Acton e
di Napoleone le desse i titoli per poter ottenere una totale
subalternità da parte di Ferdinando II. E dava segni di fastidio per
quel «contegno non servile» di cui parlava Croce. Fu così che Ferdinando
II nel 1834 firmò (inconsapevolmente) la condanna a morte del suo regno.
Quell’anno, 1834, nel pieno della «prima guerra carlista» (1833-1840),
Ferdinando rifiutò di schierarsi a favore di Isabella II contro Carlo
Maria Isidro di Borbone-Spagna nel conflitto per la successione a
Ferdinando VII sul trono iberico. Dalla parte di Isabella, figlia di
Ferdinando VII, e contro don Carlos, fratello del re scomparso, erano
scese in campo Francia e Inghilterra, che considerarono quello del
regime borbonico alla stregua di un vero e proprio atto di
insubordinazione. Londra ci vide, anzi, qualcosa di più: il desiderio
del Regno delle Due Sicilie di elevarsi, affrancandosi da antiche
subalternità, al rango di medio-grande potenza. E da quel momento iniziò
a tramare per destabilizzarlo. La storia di questa trama è raccontata da
un importante libro di Eugenio Di Rienzo, _Il Regno delle Due Sicilie e
le Potenze europee_ (1830-1861). Da lungo tempo il Regno Unito non aveva
nascosto un grande interesse per la Sicilia. Giovanni Aceto nel volume
_De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre _(1827) scriveva:
«Quest’isola non rappresenta per l’Inghilterra soltanto un importante
avamposto strategico, da preservare, ad ogni costo, da una possibile
occupazione della Francia che la minaccia dalle sue coste, ma
costituisce anche il centro di tutte le operazioni politiche e militari
che l’Inghilterra intende intraprendere nell’Italia e nel Mediterraneo».
Un segnale al Regno di Napoli fu mandato nell’estate del 1831, quando
fanti inglesi sbarcati dalla corvetta «Rapid» proveniente da Malta,
condotta dal tenente di vascello Charles Henry Swinburne, occuparono
l’isola Ferdinandea, un lembo di terra di circa quattro chilometri
quadrati emerso dal mare tra Sciacca e Pantelleria, che si sarebbe
nuovamente inabissato nel dicembre di quello stesso anno (la storia è
stata ben raccontata da Salvatore Mazzarella in Dell’isola Ferdinandea e
di altre cose , pubblicato da Sellerio, e in _L’isola che se ne andò_ di
Filippo D’Arpa, edito da Mursia). Un gesto del tutto sproporzionato data
l’assoluta irrilevanza dell’isolotto. Ma che voleva essere un segno
inequivocabile nei confronti di un’isola ben più importante, la Sicilia.
Sicilia da cui l’Inghilterra importava vino, olio d’oliva, agrumi,
mandorle, nocciole, sommacco, barilla e soprattutto zolfo usato per la
preparazione della soda artificiale, dell’acido solforico e della
polvere da sparo. Zolfo che fu all’origine di un contenzioso dal quale
uscirono ulteriormente deteriorati i rapporti anglo-napoletani: ne venne
fuori quella che Ernesto Pontieri – nei saggi raccolti in _Il riformismo
borbonico nella Sicilia del Sette e dell’Ottocento_ (Esi) – ha definito
una «politica di rancori, di insidie, di mal celata avversione verso uno
Stato (il regno borbonico) che non senza ragione conservava rispetto
all’Inghilterra immutata la sua diffidenza». Ai tempi della rivoluzione
del 1848, quando, il 13 aprile, il General Parlamento di Palermo, dopo
aver dichiarato la decadenza della dinastia borbonica, aveva deliberato
«di chiamare un principe italiano sul trono, una volta promulgata la
Costituzione», confidando nelle assicurazioni del plenipotenziario
inglese Henry Gilbert Elliot Murray Kynynmound Minto, il ministro degli
Esteri britannico Henry John Temple, visconte di Palmerston, si impegnò
a garantire l’indipendenza del nuovo regno se la scelta del popolo
siciliano avesse favorito la candidatura di un membro di Casa Savoia in
alternativa a quella del secondogenito di Ferdinando II o del
giovanissimo figlio del Granduca di Toscana, avanzata dalla Francia. Fu
Carlo Alberto che, dopo la sconfitta di Custoza (27 luglio), decise di
risparmiarsi il conflitto con il Regno di Napoli, ciò che consentì a
Ferdinando II di rompere gli indugi e ordinare alla sua armata guidata
dal principe di Satriano, Carlo Filangieri, di varcare lo stretto,
bombardare Messina e marciare trionfalmente alla riconquista di Palermo.
All’epoca l’Inghilterra era ormai in una posizione di ostilità
dichiarata e il 15 settembre 1849 inviò al nuovo capo del governo
napoletano, Giustino Fortunato, una nota nella quale si sosteneva che
«la rivoluzione siciliana era stata provocata dal malcontento generale,
antico, radicato, causato dagli abusi del governo borbonico e dalla
violazione dell’antica Costituzione siciliana, ripristinata e aggiornata
dal patto politico del 1812, promulgato sotto gli auspici della Gran
Bretagna, che, anche se provvisoriamente sospeso, non era stato mai
considerato abolito dal consorzio europeo». La nota aggiungeva,
minacciosamente, che «qualora Ferdinando II avesse violato i termini
della capitolazione e perseverato nella sua politica di oppressione, il
Regno Unito non avrebbe assistito passivamente a una nuova crisi tra il
governo di Napoli e il popolo siciliano». In Inghilterra divenne un caso
molto dibattuto quello di Carlo Poerio, ministro dell’Istruzione nel
governo costituzionale napoletano del 1848, che nel ’49 fu arrestato,
processato e condannato a 24 anni di carcere duro (ne avrebbe scontati
10, per poi riparare in Piemonte dove gli sarebbe stato riconosciuto un
rango politico di primo piano). Fu in questo clima che nel Regno Unito
furono rese pubbliche le due lettere di William Ewart Gladstone a lord
Aberdeen, che volevano essere un rapporto sulle carceri borboniche e sul
trattamento dei prigionieri nel quale il regime di Ferdinando II veniva
definito alla stregua di una «negazione di Dio». Un testo caratterizzato
da una certa enfasi e non poche esagerazioni. È in questo momento
storico che Ferdinando II decise di dare una seconda prova di carattere
– la prima era stata quella di cui all’inizio della «guerra carlista» –
che gli sarebbe costata cara. Nel gennaio del 1855 si chiamò fuori dalla
guerra di Crimea, nella quale, invece, Cavour si era schierato, a fianco
di Francia e Inghilterra, contro la Russia. Nell’estate di quell’anno,
scrive Di Rienzo, «convinto che l’offensiva dei coalizzati si sarebbe
infranta sulle fortezze di Sebastopoli, il governo borbonico promulgava
il divieto di concedere il passaporto ai sudditi siciliani per evitare
che questi si potessero arruolare nella Legione anglo-italiana, composta
da fuoriusciti politici della Penisola, ed emanava nuove disposizioni
sanitarie, giustificate dall’epidemia di colera sviluppatasi in Crimea,
che imponevano una quarantena di quindici giorni a tutto il naviglio
proveniente dall’Impero ottomano». Palmerston, divenuto primo ministro,
nella seduta della Camera dei Comuni del 7 agosto accusava il regime
borbonico di essersi schierato con la Russia, anzi di esserne diventato
un vassallo. A suo avviso «nonostante la distanza geografica che
separava i due Stati, l’influenza russa su Napoli era progressivamente
cresciuta fino a divenire predominante». Secondo Palmerston, «il regno
borbonico aveva dimostrato sfrontatamente la sua ostilità alla Francia e
all’Inghilterra vietando l’esportazione di merci che il suo stato di
neutrale gli avrebbe consentito tranquillamente di continuare a
trafficare». Questa «palese violazione del diritto internazionale»
appariva tanto più grave in quanto «perpetrata da un governo che si era
macchiato di atti di crudeltà e di oppressione verso il suo popolo,
assolutamente incompatibili con i progressi della civiltà europea». E
qui il riferimento alle già citate lettere di Gladstone era quasi
esplicito.

A cura di:

Michele Lopriore

Ass. Sentimento Meridiano