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REGNO DELLE DUE SICILIE: L’INGHILTERRA E IL RISORGIMENTO ITALIANO. 2ª Parte

Palmerston fece di più: utilizzò fondi riservati del Tesoro britannico per finanziare una spedizione per liberare Luigi Settembrini, autore nel 1847 della _Protesta del popolo delle Due Sicilie, Silvio Spaventa e Filippo Agresti, condannati a morte nel 1849, la cui pena era stata commutata nel carcere a vita da scontare nell’ergastolo dell’isolotto di Santo Stefano. L’operazione, progettata per la tarda
estate del 1855, non arrivò a compimento, «ma», scrive Di Rienzo, «anche
quel tentativo dimostrò, comunque, quale fosse il rispetto di Londra per
la sovranità dello Stato borbonico e come la ferma volontà dimostrata da
Ferdinando II di rivendicare l’autonomia del suo regno nelle grandi
scelte di politica estera fosse prossima a ricevere un’esemplare
punizione». Punizione «che i governi alleati avrebbero giustificato,
servendosi di motivazioni completamente strumentali, tutte concentrate
sulla critica della politica interna delle Due Sicilie,
nell’impossibilità di usarne altre motivate da reali giustificazioni
giuridiche attinenti la violazione del diritto internazionale». Di qui
un crescendo di manifestazioni di ostilità da parte dell’Inghilterra (ma
anche, sia pure in minor misura, della Francia) nei confronti del Regno
di Napoli. Palmerston pretende dalla corte di Caserta il licenziamento
del direttore di polizia Orazio Mazza, accusato di aver offeso durante
una rappresentazione teatrale («un episodio trascurabile», lo definisce
Di Rienzo), il segretario della legazione inglese George Fagan. Il Times
suggerisce addirittura di inviare a Napoli, a mo’ di «spedizione
punitiva», navi britanniche che avrebbero dovuto ottenere «gli stessi
risultati delle missioni intimidatorie guidate dal commodoro Matthew
Calbraith Perry, nella baia di Edo, tra il 1853 e il 1854, per ridurre a
ragione la resistenza dello shogun IeyoshiTokugawa». Così come gli Stati
Uniti in Estremo Oriente, termina l’articolo del _Times_, anche la Gran
Bretagna non poteva tollerare l’esistenza di «un Giappone mediterraneo
posto a poche miglia da Malta e non eccessivamente distante da
Marsiglia». Immediatamente il ministero degli Esteri inglese fa eco a
quell’editoriale, diramando una nota in cui si afferma che «il governo
di sua maestà non poteva non tener conto dei sentimenti dell’opinione
pubblica e dei circoli politici britannici perfettamente rispecchiati
dalla stampa londinese». Solo la regina Vittoria riesce ad evitare che
si passi dalle parole ai fatti. E risponde al governo con queste parole:
«La regina, dopo aver esaminato la documentazione da voi allegata, ha
espresso la più decisa contrarietà a una dimostrazione navale (che per
essere efficace dovrebbe contemplare la possibilità di un’apertura delle
ostilità) indirizzata ad ottenere dei cambiamenti nel regime politico
delle Due Sicilie». In ogni caso prudentemente Ferdinando II decide di
congedare Mazza. Trascorre un po’ di tempo e si verifica un nuovo
incidente. L’ambasciatore a Londra di Ferdinando II, Antonio La Grua,
principe di Carini, informa «di aver rintuzzato con tagliente ironia le
provocazioni di Palmerston il quale durante un ricevimento ufficiale gli
aveva chiesto notizie di Carlo Poerio». Alle rimostranze del primo
ministro britannico, il quale lo invitava a considerare che la
detenzione di Poerio «non era materia di scherzo ma costituiva un affare
serio e grave di cui il vostro governo conoscerà tra breve
l’importanza», il diplomatico napoletano si vantava di aver ribattuto di
non arrivare a capire «perché la sedicente magistratura d’Europa
s’intestardisca a occuparsi delle nostre faccende e si dia pena di
studiare una farmaceutica ricetta di cataplasmi senza avvertire il
bisogno di tastare il polso, di guardare la lingua e ricercare i sintomi
dell’ottima salute nostra». Qualche anno dopo il ministro degli Esteri
inglese, James Howard Harris (lord Malmesbury) si fermò a riflettere
nelle sue memorie sul «caso Poerio» e sulle sue conseguenze. Palmerston
e Gladstone, a suo avviso, avevano «commesso l’errore di mettere in
discussione i diritti sovrani di uno Stato dispotico senza considerare
che anche un regime assoluto possedeva le identiche prerogative di una
repubblica o della stessa Inghilterra di difendersi contro gli avversari
che lo volevano rovesciare con la violenza». Certo il regime borbonico
era afflitto dalla «lentezza della giustizia». «Ma le torture alle quali
Poerio si dice sia stato sottoposto», prosegue Malmesbury, «furono, a
mio parere, inventate di sana pianta… Nessun individuo, trattato in
maniera tanto disumana, avrebbe potuto ristabilirsi così rapidamente in
soli tre mesi e apparirmi in così florida salute come Poerio che, quando
mi fu presentato, nel 1859, alla Camera dei Lords dal conte di
Shaftesbury, venne da me scambiato per un giovane pari reduce da una
salubre villeggiatura». «Giusto o sbagliato che fosse», concludeva
Malmesbury, «Ferdinando II, soprannominato "re bomba", aveva una tale
cattiva reputazione che tutto era lecito contro di lui, però, se si
esclude questo sentimento largamente diffuso nell’opinione pubblica
britannica, una spedizione armata diretta contro il suo regno costituiva
una misura assolutamente illegittima». Èun fatto che in quegli anni il
Regno di Napoli fu sottoposto ad una sorta di apartheid internazionale.
Che parve attenuarsi solo verso la fine del 1856, quando esplosero moti
a Palermo, a Cefalù, e, l’8 dicembre, si ebbe un tentativo (fallito) di
regicidio contro Ferdinando II compiuto da Agesilao Milano. Il re cercò
di approfittarne e di «risolvere» il problema dei detenuti politici
avviando trattative per stipulare una convenzione con l’Argentina, al
fine di stabilire sul Rio de la Plata «una colonia di sudditi
napoletani, già condannati o in attesa di giudizio per delitti politici,
che in quelle terre sarebbero stati confinati in commutazione della pena
da espiare nella madrepatria». Ma Palmerston si affrettò a dichiarare ai
Comuni che «l’invio dei detenuti in Argentina non poteva costituire un
passo soddisfacente per riallacciare le normali relazioni diplomatiche
con Napoli, perché le carceri napoletane, una volta svuotate, sarebbero
state immediatamente riempite con nuove vittime della tirannia dei
Borbone». Quindi (28 giugno 1857) fu la volta della sfortunata
spedizione a Sapri di Carlo Pisacane: un tentativo insurrezionale che –
per l’ostilità dell’esercito ma anche del popolo – fallì e fu represso
con durezza. Dell’equipaggio del piroscafo a vapore «Cagliari» di
Pisacane facevano parte due macchinisti inglesi, tratti in arresto dalla
gendarmeria napoletana. L’Inghilterra si mosse immediatamente per
reclamare non solo la loro liberazione, ma addirittura un adeguato
indennizzo economico che li risarcisse dell’«ingiusta detenzione». Nel
gennaio del 1859 Ferdinando II concede l’esilio perpetuo a circa novanta
prigionieri (tra i quali Poerio). Inasprisce, però, le pene per i futuri
arrestati. Così l’Inghilterra continua a tener viva la tensione con il
regime borbonico e Londra sarà in prima fila a sostenere, nel 1860,
l’impresa dei Mille. «Il Regno Unito», scrisse Malmesbury nelle sue
memorie, «si sentiva autorizzato a servirsi della spada e dell’intuito
del grande bucaniere Giuseppe Garibaldi contro i suoi nemici, come nel
passato aveva utilizzato Drake e Raleigh, che gli spagnoli giustamente
chiamarono pirati». Per di più nel mese di giugno tornarono al governo
Palmerston e Gladstone, i più implacabili nemici della dinastia
napoletana. Da quel momento l’aiuto inglese a Garibaldi fu decisivo.
Questa, del supporto britannico alla «liberazione del Mezzogiorno», è
un’ipotesi che, scrive Di Rienzo, «la storiografia ufficiale ha sempre
accantonato, spesso con immotivata sufficienza, e che ha trovato credito
soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a
volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filo borbonica».
Eppure c’è una gran mole di documenti che «mostrano almeno la
plausibilità di questa interpretazione». E questo libro ce ne offre
un’accurata disamina. C’è la documentazione dell’aiuto inglese al
viaggio e all’impresa di Garibaldi in Sicilia. Ma ci sono anche le prove
della consapevolezza inglese dell’alleanza tra la malavita napoletana e
gli insorti, evidenze che già si intravedevano nella _Storia della
camorra_ di Francesco Barbagallo edita da Laterza. Il 31 luglio 1860, il
diplomatico inglese Henry George Elliot informa il Foreign Office «che
numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per
contrastare, armi alla mano, la mobilitazione dei popolani rimasti
fedeli alla dinastia borbonica, per presidiare il porto in modo da
facilitare uno sbarco delle truppe piemontesi e per controllare le vie
di accesso a Napoli al fine di rendere possibile l’ingresso dei
volontari di Garibaldi». Allo stesso modo Londra sapeva quasi tutto
dell’attività di quel Liborio Romano che assoldò quei malavitosi
«liberali» di cui ha recentemente scritto Nico Perrone in _L’inventore
del trasformismo. Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista
di Napoli_ edito, anche questo, da Rubbettino. In seguito alcuni uomini
politici inglesi usarono parole di condanna per quel che era accaduto in
quegli anni. Soprattutto dopo la «liberazione del Mezzogiorno». In
Parlamento, il deputato conservatore Pope Hennessy aveva definito il
tutto un «dirtyaffair» (sporco affare) e aveva denunciato «la furiosa
repressione dell’armata sarda che si era macchiata di crimini contro
l’umanità ben più efferati di quelli che l’opinione pubblica europea
aveva imputato a Ferdinando II e al suo sventurato erede». Nella stessa
sede George Cavendish-Bentinck aveva messo in evidenza quale errore
fosse stato per il Regno Unito provocare quel grande incendio
nell’Italia del Sud, in violazione di tutte le leggi internazionali. E
uno dei più stretti collaboratori di Disraeli, Henry Lennox, aveva detto
esplicitamente che sostituire il «dispotismo di un Borbone» con lo
«pseudo liberalismo di un Vittorio Emanuele» era stato un grande
sbaglio. Anche perché così «il Regno Unito aveva prostituito la sua
politica estera appoggiando un’impresa illegittima e scellerata che
aveva portato all’instaurazione di un vero e proprio regno del terrore».

A cura di:

Michele Lopriore

Ass. Sentimento Meridiano