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Le rivolte dei Comuni del Vulture e la sanguinosa reazione savoiarda

Nell’aprile del 1861 nella zona attorno al monte Vulture in Lucania c’era grande fermento e le popolazioni dei comuni di quell’area, appoggiate da formazioni partigiane, si preparavano a sollevarsi contro l’invasore piemontese e i collaborazionisti del luogo. Occupate le circostanti boscaglie e stretti intorno ai bianchi vessilli delle Due Sicilie, si viveva in febbrile attesa di entrare in azione. Il giorno 7 aprile, una folla di contadini armati di vecchi fucili, zappe, rastrelli ed arnesi di lavoro, al grido di Viva Francesco Il, entrava in Lagopesole accolta festosamente dalla popolazione e, senza incontrare alcuna opposizione, scacciava il sindaco e gli amministratori liberali, distruggendo le insegne savoiarde e innalzando ovunque la bandiera della patria duosiciliana.
All’alba del successivo 8 aprile i partigiani assalirono e distrussero il corpo di guardia delle guardie nazionali di Ripacandida ed anche in quel centro, con la collaborazione della popolazione festante, restaurarono l’amministrazione duosiciliana. Nello stesso giorno si portavano a Rapolla ove si ripeteva la stessa scena.
Per far comprendere quanto fosse forte e passionale l’amore per il Re, si racconta che certo Vincenzo Nardi, entrando a Rapolla, pronunciava, tra l’entusiasmo popolare: «I piemontesi calunniano il mio Re Francesco II di essere un ladro, orbene, gli usurpatori sappiano bene che siamo disposti a diventare tutti ladri per restaurare il Re sul suo trono». Ovunque i patrioti entrassero in azione si suonavano campane, s’inalberavano bandiere biancogigliate e si restauravano governi provvisori; e per due giorni interi Lagopesole, Ripacandida e Rapolla furono in festa con spari pirotecnici e luminarie. Nelle chiese si celebravano Te Deum di ringraziamento e l’allegria contagiava tutti.
Nel frattempo, l’insurrezione legittimista scoppiava anche a Ginestra ed il giorno 10 aprile a Venosa. Venosa, patria di Orazio e sede vescovile, era stata preparata dai savoiardì a resistere ad una eventuale rivolta con circa 60 guardie nazionali ammassate nel campanile della cattedrale, ma quel giorno circa 600 popolani, per lo più armati di zappe e di scuri, le costrinsero ad arrendersi e Venosa fu presto in mano alla popolazione in rivolta. Per tre giorni seguirono canti, balli e suoni di tutta una folla inebriata. Nei giorni successivi entrava a Venosa l’attesa armata degli insorti, tutti con coccarde rosse sul cappello, capeggiata da Carmine Crocco, detto Donatello, accolto in trionfo insieme ai suoi luogotenenti: Michele Larotonda e Nicola Summa, detto Ninco Nanco.
Nel frattempo, si sollevava Avigliano con a capo il suo arciprete ottuagenario Don Francesco Clapo. Poi fu un susseguirsi di rivolte in comuni che qui di seguito elenchiamo: Accettura, Atella, Barile, Calciano, Colobraro, Ferrandina, Grassano, Grottole, Lagonegro, Laurenzana, Lavello, Moliterno, Montemurro, Montescaglioso, Muro Lucano, Oliveto Lucano, Rapone, Rionero, Ruoti, San Chirico, San Mauro, Sarconi, Stigliano, Tricarico e Melfi.
Ovunque venivano innalzate le bandiere duosiciliane e ripristinati i governi locali del Reame. Abbiamo citato in ultimo Melfi per evidenziare il fatto che questo centro era il più grande e popoloso di tutti e che accadde proprio lì l’evento più importante dell’insurrezione in Basilicata.
Melfi era rimasta fedele e devota alla famiglia reale perché dieci anni prima, esattamente il 14 agosto del 1851, colpita da un forte terremoto e completamente distrutta (vi morirono circa 1500 persone), il Re Ferdinando Il si era recato in Basilicata per sovrintendere alle operazioni di soccorso. Egli era giunto a Melfi nella nottata successiva, a cavallo, sotto una fortissima pioggia. Quella notte dormì in una baracca insieme ad alcuni sinistrati. Nominò subito un comitato di ricostruzione sotto la direzione del Vescovo Monsignor Bouillet e nel giro di un anno la città venne rifatta con nuove strade e nuovi edifici.
L’insurrezione scoppiò il 12 aprile del 1861. Un popolo intero si riunì nel mattino sulla piazza del mercato al grido «VIVA FRANCESCO II MORTE AI LIBERALI!». Furono aperte le prigioni, bruciate le carte della Guardia Nazionale, del Municipio, del Tribunale. Un caporale del disciolto esercito duosiciliano, certo Ambrogio Patino, assunse il comando degli insorti. Un certo Michele Proietto prelevò dal Municipio i quadri con i ritratti del Garibaldi e del re savoiardo, e, con una folla al seguito che copriva di ingiurie e sozzure i due personaggi, si portò nella pubblica piazza e lì con una scure li fece a pezzi e poi li bruciò fra l’entusiasmo dei presenti. La popolazione, poi, capeggiata da preti si portò presso le abitazioni di don Carlo Colabella e di don Luigi Aquilecchia, appartenenti a nobili e facoltose famiglie note per la loro fedeltà al Re, e li portò entrambi in trionfo fino alla Cattedrale. Là l’Aquilecchia per acclamazione il nominato governatore della città. Nello stesso tempio fu celebrato il Te Deum di ringraziamento. La città fu decorata, s’issarono dappertutto ritratti di Francesco Il e di Maria Sofia. Per ultimo si accumularono provviste in attesa dell’arrivo di Crocco. Nello stesso tempo gli fu preparata in gran fretta un’uniforme di velluto scuro.
La sera del 15 aprile 1861 Carmine Crocco e i suoi uomini facevano il loro ingresso in Melfi. Due carrozze con i figli dell’Aquilecchia, Giovannino e Vincenzino, piene di guardie d’onore erano andate incontro all’armata. Inoltre l’intero capitolo diocesano di preti in abiti da festa, recando 4 bandiere bianche a frange d’argento e a galloni d’oro, andava a rendere gli onori a Crocco. Seguiva la folla che agitava torce accese. Fu un ingresso trionfale con la gente che freneticamente acclamava.
li condottiero fece una genuflessione su un inginocchiatoio posto all’ingresso del palazzo municipale e ringraziò la Vergine Santissima per aver guidato le sue armi vittoriose, poi con un’improvvisata ed immaginosa oratoria disse: «NON SI COMMUOVE ANCORA IL CIELO, NON FREME LA TERRA, NON STRARIPA IL AIARE AL COSPETTO DELLE INFAMIE COMMESSE OGNI GIORNO DALL’INIQUO USURPATORE PIEMONTESE». Crocco, poi, percorse la città fra acclamazioni crescenti di un popolo in delirio. La sua permanenza in Melfì durò fino alla sera del 18 aprile: quel giorno con i suoi uomini e con 30.000 ducati raccolti ed offerti dalla municipalità melfitana, si trasferì a Monteverde in Principato Ultra, ove era atteso.
Per altre due settimane rappresentanti del Regno delle Due Sicilie amministrarono quei comuni lucani, ma stavano per arrivare i piemontesi. Il luogotenente generale delle province meridionali principe Eugenio Savoia Carignano ordinava da Napoli a tutte le truppe savoiarde stanziate a Salerno, Benevento, Avellino e Foggia di convergere in provincia di Potenza. Parimenti il re savoiardo da Torino decideva di inviare nella Regione alcuni battaglioni della Brigata Pisa, forniti di cannoni rigati.
Il primo scontro con gli insorti avvenne verso la fine di aprile nei pressi di Barile. Lì, 150 insorti furono trucidati, ma non finiva qui. L’eccidio di lucani continuò da parte dei piemontesi giunti per ristabilire “l’ordine". Si setacciarono le campagne. La tattica era quella di circondare il territorio e di sparare a vista su ogni essere vivente che apparisse loro davanti. Queste azioni al massacro scoraggiarono fortemente le popolazioni, le quali iniziarono a rassegnarsi alla tirannide e a pensare solo a sopravvivere. Massacri che lo scrittore Carlo Alianello, anni dopo, definì peggiori di quelli commessi dalle SS naziste durante la seconda guerra mondiale.

A cura di:
Michele Lopriore
Ass. Sentimento Meridiano