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INSORGENZA E BRIGANTAGGIO ANTIUNITARI IN CAPITANATA. Parte 2ª

Il governatore della Capitanata, preoccupato per la crescente opposizione all’unità, più che appagato dal successo delle urne, chiede al Ministro dell’Interno e di Polizia i pieni poteri.

 Ottenutili, il 26 ottobre con un proclama ai cittadini della Capitanata annuncia l’assunzione dei pieni poteri per ristabilire la “legalità”. Stabilisce la fucilazione immediata per i rei di uccisione, ordina la presentazione entro il 3 novembre dei soldati sbandati, pena il considerarli disertori con la conseguente sanzione prevista dallo Statuto penale militare. Al clero, infine, intima di attenersi esclusivamente all’espletamento delle funzioni religiose.La mattina del 25 ottobre il generale Liborio Romano, omonimo del discusso ministro di Polizia, d’accordo col governatore, con una imponente forza, si dirige da Foggia a Rignano per muovere poi contro i comuni “ribelli” di San Marco in Lamis, San Giovanni Rotondo e Cagnano. Il 27, una deputazione di religiosi e di “galantuomini” si reca a Rignano dal generale Romano per offrire la resa. Il Romano pretende il disarmo generale, lo svolgimento del plebiscito ed una somma per i danni subiti dalla truppa. Il popolo di San Marco in Lamis intende respingere le condizioni, ma l’intervento di uno dei capi della sollevazione, il pastore Agostino Nardella, induce tutti a più miti consigli ed il popolo depone le armi. Avvenuto il disarmo, la brigata Romano entra in San Marco in Lamis. Si procede al plebiscito che da il seguente risultato: 3.032 voti per il “SI”, nessun voto per il “NO”. Lo stesso giorno il generale Romano, d’intesa con il governatore Del Giudice, impone al paese una tassa di 6.000 ducati per le spese di guerra. Il 29 ottobre il generale Romano lascia San Marco in Lamis per occupare militarmente San Giovanni Rotondo. Anche qui il giorno seguente si svolge il plebiscito con 856 voti per il “SI” e 9, coraggiosi o strumentali voti per il “NO”. I soldati “sbandati” e i contadini più poveri subiscono una severa repressione. Un consiglio di guerra formato da ufficiali della brigata Romano e della Guardia Nazionale, riunitosi il 6 novembre nella chiesa di San Giacomo, condanna all’unanimità 13 soldati alla pena di morte mediante fucilazione. Altri soldati e molti contadini vengono condannati a lunghi anni di carcere. Il giorno dopo la sentenza viene eseguita per 10 dei tredici soldati del disciolto esercito delle Due Sicilie, a questi ultimi la pena viene commutata nei lavori forzati a vita. Il governatore impone al paese una tassa di 10.000 ducati. Il 30 ottobre il generale Romano con i suoi garibaldini si dirige verso Cagnano ove riesce ad avere la meglio sui pochi insorti. Anche qui si ripetono gli stessi programmi: viene svolto il plebiscito che da 426 voti, tutti per il “SI”; è imposta una tassa di guerra di 4.000 ducati, metà sul clero e l’altra metà sulla popolazione. Viene eseguito un indiscriminato numero di arresti in palese violazione delle leggi. Il consiglio di guerra allestito, condanna due contadini alla pena di morte mediante fucilazione ed altri 21 imputati alla pena di 30 anni di carcere. Motivi di opportunità politica internazionale impediscono le due condanne a morte, commutate nei lavori forzati a vita.Ma gli avvenimenti maggiormente faziosi e crudeli avvengono a Roseto Valforte dove le ultime elezioni politiche avevano portato ai vertici della municipalità la famiglia Capobianco che pensò bene di utilizzare gli ideali del liberalismo per disfarsi dei nemici personali. Anche qui vi erano dei soldati sbandati che il sindaco Capobianco, con minacce ed insulti, vuol richiamare al servizio militare, pena l’arresto. La provocazione era palese perché in materia di richiamo vi era una grande confusione giuridica e legislativa. La questione degli sbandati diviene un chiodo fisso dell’amministrazione comunale. Il 4 novembre, domenica, il figlio del sindaco, Gennaro Capobianco, capo plotone della Guardia Nazionale, si reca con gli armati suoi sottoposti alla casa dei fratelli Zita per arrestare i soldati sbandati che qui avevano trovato rifugio. La casa è chiusa ermeticamente. Una delle Guardie Nazionali spara un colpo verso l’interno dell’abitazione da un foro della porta. Le persone che erano in casa, a questo punto della situazione, escono all’improvviso e con scuri e coltelli si gettano sugli assedianti, ferendone alcuni, compreso il Capobianco. Gli sbandati recuperano le armi da fuoco lasciate dal nemico e assieme ad altri armati accorsi a dar loro man forte hanno la meglio. E’ l’ora dello scontro tanto atteso. Vanno alla ricerca degli altri componenti della famiglia Capobianco e feriscono mortalmente un fratello del sindaco. Il governatore, lo stesso giorno, chiede al generale Romano di inviare sul posto un distaccamento. Il Romano giunge a Roseto la mattina del 6 novembre e si presta subito ad essere strumentalizzato dal Capobianco. La truppa del Romano saccheggia le case dei legittimisti e poi si da alla caccia dei soldati sbandati. Negli scontri resta ucciso il soldato sbandato Giuseppe Zita. Il giorno dopo il Romano istituisce un consiglio di guerra senza comunicarlo al Governatore. E’ una palese illegalità perché viola le leggi del tempo, sia piemontesi, sia napoletane. In seguito alla sentenza emessa, nella stessa sera, il Romano fa fucilare cinque giovani rosetani: Giuseppe Cotturo, Liberato Farale, Leonardo Matrrone, Vito Sbrocchi e Nunziantonio Zita. Dopo aver estorti 5.000 ducati, per tassa di guerra, lascia nella stessa notte il paese. La violazione delle leggi fatta dal Romano induce il governatore Del Giudice a contestare i fatti al generale garibaldino il quale risponde da Avellino gettando più di un sospetto sulla complicità dello stesso governatore.

 

A cura di:
Michele Lopriore
Ass. Sentimento Meridiano