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Vieste/ La battaglia di Antonio Nardella dopo la morte del figlio: “così lo uccidono due volte”

“Vorrei incontrare il Sostituto Procuratore di Foggia, Paola Palumbo, per spiegare cosa è avvenuto in quei minuti che sono seguiti all’accoltellamento di Mario”.

 

 La famiglia di Antonio Nardella conosceva bene quella di Silvio Stramacchia, l’assassino del quarantenne Mario, e mai si sarebbero aspettati un gesto simile. Cogliendo l’occasione, abbiamo chiesto ad Antonio, papà di Mario, come erano i rapporti tra le due famiglie e cosa pensa oggi dell’assassino del figlio. “Ci conosciamo da tempo, le due famiglie si conoscevano e si rispettano”. Su Silvio, invece: “Mi dicono che in carcere piange tutti i giorni, che non voleva fare quello che ha fatto, che non aveva previsto tutto. Che devo dire?…”

Si chiama Antonio Nardella, è titolare di un’attività commerciale a Vieste, ed è un uomo letteralmente distrutto. Poco più di due mesi fa, a fine novembre, gli è stato ucciso il figlio, il quarantenne Mario, che stava lavorando nel negozio di famiglia in via Rossini nella località garganica, dove vendono bibite. Stava subendo la seconda rapina nel giro di un mesetto e poco più, e Mario, che da tutti era conosciuto come un ragazzo semplice, tranquillo, appassionato della squadra di calcio di Vieste, non ci stava ad essere derubato del già misero guadagno di una giornata di lavoro, e così si è opposto con la forza al suo aggressore, che per divincolarsi l’ha trafitto con un coltello. Silvio Stramacchia, un ventiseienne viestano, per incassare nemmeno un centinaio di euro, ha ucciso l’amico di famiglia Mario, che dopo due ore dall’aggressione è morto quasi tra le braccia del padre, tra i primi a soccorrerlo. Oggi, a poco più di due mesi di distanza dall’episodio, Antonio, papà della vittima, racconta a l’Attacco come ha vissuto quei tragici momenti, cosa ha fatto per tentare di salvare la vita del figlio, e come la giustizia e la burocrazia lo “stanno uccidendo due volte”. “Ho chiesto un incontro al Sostituto Procuratore di Foggia, la dottoressa Paola Palumbo, per spiegare cosa è avvenuto in quei minuti che sono seguiti all’accoltellamento di mio figlio” spiega Antonio, che prosegue “Mi ha chiamato mio figlio, dovevano essere le 18.30. Mi chiedeva aiuto, era disperato. Subito mi precipito sul posto, lo trovo a terra sanguinante, e provo a rialzarlo, aiutato anche da un conoscente che si trovava sul luogo. Soccorsi che, però, sono arrivati dopo ben trentacinque minuti. In quel lasso di tempo, forse, se il padre avesse potuto portare il figlio in Pronto Soccorso, oggi staremmo a parlare solo di un tentato omicidio. “Mio figlio Mario è rimasto in vita fino alle 20.45, cioè, per altre due ore e dieci minuti dal momento dell’accoltellamento. Ora mi chiedo, e vorrei chiederlo anche alla Palumbo: perché non si indaga per stabilire se mio figlio si sarebbe salvato se l’avessi portato al Pronto Soccorso, come invece mi è stato impedito di fare? Solo questo, ma mi servirebbe parlare direttamente con il Sostituto Procuratore”. Insomma, una storia tragica che forse, è d’uopo utilizzare il condizionale, avrebbe potuto finire meglio se papà Antonio avrebbe portato in macchina il povero Mario, sanguinante e dolorante, fino al Pronto Soccorso alle porte della cittadina viestana. C’è un protocollo da seguire in caso si trovi un uomo sanguinante a terra? Questo chiede Antonio, nient’altro. Anzi, dell’altro c’è, ma riguarda la burocrazia, che sta tartassando il povero Nardella, messo alle strette non solo dalla crisi economica, non solo dalla morte del figlio, ma anche dall’Inail foggiana. “Gestisco quest’azienda di famiglia insieme agli altri miei figli, e diciamo che tiriamo avanti a Vieste. Noi vendiamo bibite sia ai cittadini normali che alle strutture ricettive. Sia chiaro, le vendiamo allo stesso prezzo sia agli uni che agli altri. Ora, nonostante io già abbia vinto una battaglia legale, l’Inail mi chiede di trasformare la mia azienda da “al minuto” ad “ingrosso”. Io non posso, oltre che non voglio e non devo, fare questo passaggio”. Diventando un ingrosso a tutti gli effetti, Antonio Nardella, titolare dell’attività commerciale di famiglia che gestisce insieme ai figli e in cui lavorava anche Mario, si troverebbe costretto a pagare molte più tasse di quante ne paga oggi, e la cosa, ovviamente, andrebbe solo “ad ingrassare le casse statali, ma io non posso rimetterci”. Antonio spiega che “ho tutte le carte in regola affinché non debba fare questa trasformazione, ma dall’Inail continuano ad inviare lettere. Io non ce la faccio più. Se davvero vogliono che cambi l’azienda e diventi un ingrosso, arrivando così a pagare molte più tasse, mi vedrò costretto a chiudere l’attività. Dopo che già mi è stato ucciso un figlio, mi uccideranno anche gli altri? Se chiudo l’azienda, è come se mi uccidessero un’altra volta”. Nello specifico, la questione legata al passaggio da azienda al minuto ad ingrosso sarebbe troppo lunga da spiegare in un solo articolo di giornale, ma Antonio ci mostra tutti i documenti – tra cui lettere scritte di suo pugno e dal suo avvocato – che dimostrano che l’attività commerciale della famiglia Nardella può e deve rimanere un’azienda di vendita bibite al minuto. “Per quanto riguarda la distribuzione e la vendita, a me non cambierebbe nulla. Dovrei solo pagare più tasse. Ma io non devo, e non lo dico io, lo dice la legge”. Antonio, dunque, chiede clemenza e che venga rispettato quello che per lui è un diritto, e non una pretesa fine a se stessa. Rischia davvero di morire due volte.

G.F. Ciccomascolo
L’attacco