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Celestino Galiani e Pietro Giannone: due garganici, due storie, due destini

Nato a San Giovanni Rotondo nel 1681, Celestino Galiani risulta da studi documentati uno dei principali diffusori del newtonianesimo in Italia, diventando nel tempo un assoluto protagonista nella difficile e complessa mediazione tra le spinte culturali settecentesche dei «nuovi filosofi» e le tendenze conservatrici della Chiesa cattolica. Galiani svolgerà la sua attività culturale con prudenza, facendo circolare i suoi manoscritti – saggiamente mai pubblicati – tra i pochi intimi collaboratori e seguaci, tanto più che sin d’allora era risaputo che la Chiesa non accettava si superasse la linea «muratoriana». Proprio di quel Ludovico Antonio Muratori –  scrittore e storico nato a Vignola nel 1672 –  che studiando dai Gesuiti si era laureato in filosofia e in giurisprudenza diventando sacerdote e che nel 1700 era stato incaricato archivista e bibliotecario a Modena da Rinaldo I d’Este, presso il quale avrebbe svolto il delicato ruolo di consigliere fiduciario. Quello stesso Muratori che aveva gettato le basi metodologiche e scientifiche affinché la ricerca storica ponesse fondamento esclusivo nell’attenta e circostanziata analisi delle fonti, emulato e seguito da Giambattista Vico nella  propria vasta concezione ideale della storia.  Lo stesso convinto assertore del rinnovamento della Chiesa e dello Stato che, pur risoluto contro pregiudizi e superstizioni, circoscriverà l’estensione della ragione davanti a dogmi e sacre scritture, dettando il limite al cattolicesimo illuminato accettato dalla Santa Sede.
Celestino Galiani – sebbene avrebbe occupato importanti ruoli sia sotto gli Asburgici sia sotto i Borbone – si dimostrerà nei fatti certamente più attento di Pietro Giannone nel tentativo riuscito di non provocare le reazioni dell’Inquisizione. E questo diverso atteggiamento tattico condurrà i due conterranei del primo Settecento verso destini del tutto dissimili.

Ben altra sorte del Galiani e del Muratori toccherà infatti al Giannone – l’altro grande garganico dei primi decenni del Settecento – il quale si colloca nel solco, profondamente scavato, di un «giurisdizionalismo» che pretende di ridimensionare vigorosamente le prerogative della Chiesa negli Stati per mezzo del controllo della pubblicazione degli atti ecclesiastici (placet o exequatur), delle relazioni tra papa  e autorità religiose di altri stati, della facoltà di intervento nelle competenze contestate del foro ecclesiastico sul territorio nazionale e che spinge verso una legislazione volta a limitare gli ordini religiosi ritenuti inutili e ad escludere l’estenzione del patrimonio immobiliare ecclesiastico con imposizioni di natura fiscale e vincoli all’acquisizione di nuove proprietà.
Pietro Giannone – giurista e storico nato ad Ischitella, diventato dottore in diritto nel 1698 – aveva esercitato l’avvocatura presso lo studio Argento a Napoli, inserendosi pienamente nell’ambito della tradizione giurisdizionalista e anticuriale napoletana. Nel 1723 pubblicherà il testo che darà la svolta alla sua esistenza e segnerà profondamente la cultura illuministica del Settecento non solo a Napoli, bensì in tutta l’Europa: Dell’Istoria civile del Regno di Napoli.
Un testo nel quale Giannone rivendica i diritti dello Stato contro le ingiuste pretese della Chiesa. L’Istoria civile, infatti, ripercorre la storia delle usurpazioni ecclesiastiche, nega l’origine divina del papato, critica persino le politiche ecclesiastiche di Carlo Magno con relative donazioni e l’acquisito potere temporale della Chiesa, polemizza con le invadenze della Chiesa nelle istituzioni civili del Regno: Exequatur, foro, immunità ecclesiastica, diritto d’asilo, privilegi feudali, ecc.
La dura requisitoria contro il potere temporale del papato e l’anticlericalismo acceso costano sin dal 1723 l’esilio a Giannone che, perseguitato a vita, morirà incarcerato a Torino nel 1748 sotto la dinastia dei Savoia.
Davanti agli immani sforzi dei lumi «per l’affermazione dei diritti civili (tolleranza, libertà religiosa, emancipazione di etnie e generi fino ad allora oppressi)» possiamo commuoverci, come Eugenio Di Rienzo nei suoi preziosi Sguardi sul Settecento. E, come lui, ci pare tuttora che «quelle battaglie non sarebbero state neppure possibili se non fossero state precedute dall’affermazione del più importante di tutti i diritti, quello della proprietà dell’individuo sulla sua persona, sui frutti del suo lavoro, sui suoi beni».

Tratto dalla raccolta di scritti inediti  mai pubblicati  su Garganici e Dauni del  Settecento
di Michele Eugenio Di Carlo