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Offese sui social: per la Cassazione (era ora) è reato di diffamazione a mezzo stampa

“Ciò che si scrive non vale meno di ciò che dice”, questo vale anche per i social netwoork.

 

 Oggi, l’utilizzo compulsivo di Facebook ha quasi fatto assumere al social network la funzione di diario giornaliero in cui registrare, minuziosamente, stati d’animo e ogni attività compiuta, fosse anche la più comune. Ultimamente però, i commenti negativi nei confronti di datori di lavoro, ex fidanzati e presunti amici postati sulla bacheca, nella convinzione che quel piccolo e confortevole angolo della rete permetta una assoluta libertà di espressione, potrebbero costare caro.

La Giurisprudenza penale ha, infatti, iniziato ad occuparsi dei messaggi denigratori e delle loro conseguenze in capo ai soggetti colpiti, dato il numero di querele e di azioni risarcitorie in costante aumento nei Tribunali di tutta Italia. Quindi, postare un commento offensivo sulla bacheca di facebook della persona offesa può integrare il reato di diffamazione a mezzo stampa di cui all’articolo 595 comma terzo del Codice Penale.

Sul punto, già in passato la giurisprudenza di legittimità aveva stabilito che inserire un commento su una bacheca di un social network significa dare al suddetto messaggio una diffusione che potenzialmente ha la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sicché, laddove questo sia offensivo, deve ritenersi integrata la fattispecie aggravata del reato di diffamazione. L’orientamento in esame, si confronta con l’utilizzo illecito e smodato dei cosiddetti social network, e sottolinea la diffusività delle affermazioni che compaiono su tali siti.

Proprio in ragione del fatto che i commenti che compaiono su tali social network hanno una diffusione capillare e potenzialmente illimitata, la Cassazione ritiene che le offese espresse in tal modo debbano ritenersi aggravate, come se commesse a mezzo stampa. La stessa Corte ribadisce che ai fini della integrazione del reato di diffamazione è sufficiente che, il soggetto la cui reputazione è lesa, “sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa”. D’altro canto il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due. (In tal senso Cassazione penale, sez. I, sentenza 08/06/2015 n° 24431, sentenza 16/04/2014 n° 16712 e sentenza del 20/12/2010 n. 7410).

Sul punto, di particolare importanza, merita di essere citata la recentissima sentenza della Suprema Corte di Cassazione Penale n. 8328 emessa il 1° marzo 2016 che ha confermato la linea dura nei confronti di chi usa i social network quale valvola di sfogo per scaricare rabbia, frustrazioni o sete di vendetta nei confronti di personaggi pubblici, semplici colleghi o capi.

Questa sentenza, che si basa sull’articolo 595 comma terzo del Codice Penale, ha ulteriormente precisato che “l’utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.

Per tali ragioni, la condotta illecita della fattispecie in esame, è stata legittimamente sanzionata con la pena di 1.500 euro di multa oltre al pagamento delle spese processuali.

Alla luce delle considerazioni innanzi esposte, conformemente al citato orientamento giurisprudenziale, si evidenzia che oggi bisogna fare attenzione ad utilizzare la bacheca di Facebook per eventuali sfoghi d’ira perché il soggetto offeso in questione potrebbe decidere di chiedere l’ausilio delle legge per far valere i propri diritti. E non si tratta solo di insulti espliciti come le convenzionali “parolacce” ma anche parole come “parassita” o “cialtrone” perché, secondo la Cassazione, sono vere e proprie offese al decoro personale e vanno oltre al limite del diritto di critica.

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