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Vieste/ Camaleontismo antico e moderno dall’ Unità d’Italia ad oggi

Riceviamo e pubblichiamo. In Capitanata, come in tutto il Meridione, l’indecisione tra l’esito della politica conservatrice di occupazione della monarchia sabauda e la possibile restaurazione delle strutture  politiche borboniche, riaccese l’antico e tradizionale camaleontismo.

 

 La lotta per la conquista e la difesa di impieghi pubblici e di incarichi di potere da parte delle famiglie agiate più in vista, formate da retaggi antichi ad impegnarsi energicamente nella difesa degli interessi personali, si fece particolarmente aspra, anche perché occorreva a tutti i costi conservare privilegi abusati che, ab immemorabili, si esercitavano a scapito del ceto subalterno dei contadini, dei braccianti, dei piccoli artigiani.
Un camaleontismo che – ben definito nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – farà dire al nobile e giovane Tancredi: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», dimostrando di aver compiutamente inteso che la rovina di aristocratici e borghesi non sarebbe passata attraverso la monarchia sabauda, ma tramite l’instaurazione di una repubblica democratica, potenzialmente capace di produrre profondi cambiamenti nelle arcaiche strutture economico-sociali, ancora di stampo feudale.
Infatti, i moderati monarchici e i filo Savoia si insinuarono nel groviglio inestricabile di interessi e di aspirazioni, assumendo un atteggiamento di attesa e di rispetto nei confronti delle vecchie aristocrazie nobiliari, di ostilità nei riguardi della nuova borghesia di stampo democratico, di distacco discriminatorio verso i gruppi sociali subordinati, i quali si videro spinti verso una guerra civile lunga e sanguinosa.
È ancora il romanzo storico di Tomasi di Lampedusa a descrivere in maniera precisa l’atmosfera di quei tempi, quando il principe don Fabrizio di Salina, nel rifiutare cortesemente l’invito del governo ad entrare nel Senato, espone al cavaliere Chevalley di Monterzuolo le locuzioni che diventeranno celebri:

 «Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, ed a questo legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per dipiú, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ ornatissimo catafalco. Voi adesso avete appunto bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al come più che al perché, e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità pubbliche».

Una narrazione romanzata che troverà conferma nella realtà di un ministro dell’Interno, il Minghetti, che il 1° novembre 1860 trasmetterà al primo luogotenente dell’ annessa Napoli i generici propositi di Cavour sulle strutture amministrative: «Conservare il più possibile dell’amministrazione precedente, riordinando ciò che sia confuso e disordinato».
Pertanto, dopo aver troncata l’espansione politico-militare di autonomisti, democratici e repubblicani, il governo torinese si apprestava con una vera strategia politica, preordinata e organizzata dall’alto, a limitare in tutto il Meridione il potere e l’influenza che i liberali democratici avevano acquisito con l’avanzata vittoriosa di Garibaldi nei centri nevralgici politici e amministrativi, favorendo dappertutto il ritorno delle vecchie gerarchie borboniche. In questo senso vanno senz’altro valutati atti come la soppressione dei poteri illimitati ai governatori – decisa ad ottobre dal prodittatore Pallavicino – e lo scioglimento dell’esercito meridionale di volontari  nei mesi tra novembre e dicembre 1860.
I liberali democratici, i repubblicani e gli autonomisti furono ritenuti i veri avversari e la conservazione delle strutture locali politiche e amministrative borboniche apparve come la migliore e la più concreta soluzione per limitarne il potenziale politico, tanto più se alle vecchie aristocrazie si sarebbe garantita la conservazione delle ormai obsolete strutture feudali in danno delle masse contadine, ancora una volta  considerate fuori dalla Storia.
In queste condizioni politiche favorevoli, anche nei centri della Capitanata e del Gargano, i galantuomini trasformisti si infiltrarono prevalentemente negli uffici civili e militari degli apparati statali, provinciali, comunali e nei decurionati, rioccupando le posizioni chiave di potere del passato:

«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra».

Non sembri una forzatura paragonare quell’antico camaleontismo a quello moderno odierno, che sa sempre, e comunque, riproporsi in nuove tornate elettorali indefinite, incerte, confuse… alla ricerca di consensi sempre più sottratti, sempre meno meritati.

Michele Eugenio Di Carlo

 

 

 

 

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