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Manfredonia/ Quando il dialetto diventa “vis” quotidiana

 

Alle stampe il nuovo racconto di Beppe Ognissanti

Beppe Ognissanti, ha dato alle stampe  “Il Vicinato” , con i tipi di Arti Grafiche Digicopas, Manfredonia, Luglio 2016, pp. 224, fuori commercio; è una raccolta di 16 racconti, corredati da disegni dello stesso autore.

L’opera, notevole per la conoscenza dei costumi sipontini, racchiude un ciclo più che quarantenne del magistero di docente esercitato da Ognissanti.

Con questi racconti, fatti anche rappresentare in alcune rassegne teatrali della nostra città, si è perpetuata la “parlata” viva della sipontinità, per cui gli stessi discenti, alcuni, oggi, più che sessantenni, hanno assimilato  e conservato la “lingua” dei propri padri e dei propri nonni.
Ed i racconti, scritti in italiano, non disdegnano di riportare dialoghi, fraseggi, modi dire, esiti, fonemi dialettali, anzi ve n’ è la esaltazione, con la citazione anche di poesie che ormai contano più di 50 anni dalla loro prima apparizione.
Un evento culturale, indubbiamente, al quale l’Ognissanti ha posto mano da tempo, e che si rivolge, è vero, ad un numero ristretto di lettori, ma di sicuro affidamento, i quali sapranno apprezzare le doti di narratore, ma vieppiù, di insegnante di Beppe.
Non è il caso di incensare questa opera, l’autore ne è schivo, ma va pur detto che essa, finalmente, annichilisce molti “sé dicenti” cultori delle nostre tradizioni e del nostro dialetto, con schietta vena di chi vuole che quella “parlata”  resti integra da ingerenze espurie provenienti da altre comunità.
In definitiva, nei racconti sono attivi adulti e piccini, come a voler coinvolgere i vari alunni nella sacralità del quotidiano, come esperienza di vita, alla quale essi stessi sono e saranno chiamati a parteciparvi. Un modo molto sperimentale di impartire la conoscenza, non freddo e distaccato, ma compenetrante, che fa dell’ alunno non l’oggetto, ma il soggetto stesso dell’insegnamento.
Ed in questi 16 racconti ritroviamo tutte le situazioni serie ed esilaranti della nostra gente, del “vicinato”, la strada, palcoscenico della nostra esistenza di meridionali.
Ed ecco la tematica: U calannarje (e chi li fa più, litigi tra donne, per futili motivi); Cazzille (soprannome di noto venditore di pesce); U ruuagne (il cantaro, usato in altre epoche); U murte p’a vammècja/mmocche/ (quanti morti imbalsamati, purtroppo, ci governano); A mabascéte (vecchia ritualità per il fidanzamento); U jattarille (il gattino, quando la discussione sulla dote, portata per le lunghe, correva il rischio di far perdere l’essenziale del matrimonio); Quanne duje ce vonne (quando due si vogliono bene…, una volta, che mo ci si prende e ci si lascia facilmente); L’inconsalabile (la morte è pure una liberazione…per il borsello); U vrascire (il braciere, quante storie, d’inverno, attorno a quella brace); U zije d’Amèreche (pure da noi ci sono stati ricchi zii di America); A fertune de Gjacumine (la fortuna di Giacomino, lo sa lui che cosa ha in corpo…); Carnevéle (la fantasia del sipontino può spaziare liberamente); L’invito indigesto (non sempe le comari si vogliono bene veramente); Me trove abbasce a nu fusse (si tratta delle fosse granarie, del relativo piano, la cui storicità andrebbe messa opportunamente in risalto); A furnacèlle (l’odore suadente di alici, sbarroni, triglie e seppie arrostite sul piccolo braciere si insinuava dappertutto, per strade e vicoli (in tutto il vicinato) fecendo pregustare il sapore nelle bocche affamate di poveri fanciulli.

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