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Vieste – Inutile lamento

Asse del Mondo, regolo che attraversa i tre regni; verticalità poderosa che unisce il cielo e la terra. Fonte di vita, di riparo e nutrimento per tutti gli esseri. Il più radicato al suolo, il più alto.

Della Vita e della Conoscenza erano gli attributi paradisiaci del suo nome: l’Albero.

Rovesciando la sua immagine si recuperava quella della nostra origine, dell’uomo celeste: la radice come principio di vita, i rami come il dispiegarsi delle sue manifestazioni. Simbolo ritrovato se ricomposto ed espresso nel vissuto.

Quanti miti sono stati intrecciati tra le sue radici e i suoi rami, adesso letteratura wikipizzata.

Tra gli Alberi Cosmici figurava anche il Pino. Molteplici i suoi miti: spicca quello dell’antica Roma, dal significato funebre, dovuto al rito di autocastrazione di Attis in sacrificio a Cibele. Il rituale simboleggiava l’invito rivolto all’uomo precipitato a coltivare, nel comportamento terreno, virtù e pietà, per ricongiungersi con la dea principio di vita. Il tutto si svolgeva dal 15 al 28 Marzo.

Anche noi abbiamo i nostri riti, efficaci da tempo. A chi sacrifichiamo il taglio? Non certo ad una dea (non siamo mica superstiziosi). Forse alla primavera.

U zappin è anche un nostro caro albero. Resinoso e profumato; aghiforme, sempre verde e bello a vedersi. Pianta ermafrodita, diffonde il suo polline giallo a mo’ di nugoli fertilizzanti, sporcando strade, auto e terrazzi.

Radici fascicolate in sviluppo superficiale, più in larghezza che in profondità, distruggono marciapiedi, asfalti e parcheggi. Una vera sciagura.

Estirpiamolo… abbattiamoli. Prontissime le motoseghe e le ruspe, non più per la potatura, ma per lo sradicamento.

È la nostra primavera: nessun canto di uccelli, ma rumore ecumenico di martelli elettrici, i primi al saluto. Bisogna essere pronti per la vera stagione viestana.

La primavera è la stagione dove l’albero esprime la sua forza vitale e la sua ricchezza. A Vieste, in via Giovanni XXIII, strada scialba ma importante, è stata inaugurata una fitomacelleria. Un’ecatombe perpetuata ai danni di trentennali filari di pini.

Quale la ragione del massacro? Sicuramente quella della necessità di migliorare le condizioni di servizio collettivo. Ma scavando, pensiamo ad una ragione più semplice e profonda: il taglio dei pini è il frutto della stupidità dell’uomo, ininterrotta, sia per la scelta dell’arredo urbano che per l’inadeguata – per non dire assente – manutenzione.

Il Pino d’Aleppo non è adatto a simili infrastrutture, piantarlo è da sconsiderati; il suo spazio vitale richiede aree ben diverse, soprattutto per il suo energico apparato radicale. E comunque era proprio necessario estirparli tutti? Nessun esemplare, nessun fusto poteva essere risparmiato? È affliggente vederli troncati in massa, così rigogliosamente in salute. Quanto spreco di vita! Nemesi è invocata dall’opera di distruzione, fondamento sadico delle civiltà umane.

I più indignati andranno a cercare le carte assassine che hanno sancito il massacro. Ma, ahinoi, pensiamo che la sentenza capitale depositata dal pensatoio comunale sia inoppugnabile.

L’unico modo per vagliare la creatività di tecnici e politici di turno, è quello di ammonirli sulla legge del contrappasso, sculacciarli.

L’esito più drammatico dell’evirazione dei vigorosi alberi è quello di aver lasciato scoperto una quinta della brutta architettura viestana. Speriamo ad un immediato rimedio alla prospettiva scandalosa. Si attendono i prossimi, ma necessari, denudamenti.

È vero anche che già settant’anni prima lo stesso quartiere era un giardino profumato di agrumi e vigneti, ma nessun lamento ecologista ha fermato la corsa verso il progresso. Cosa può un albero, muto e immobile, contro gli oracoli del Destino: “cemento, sdraio e ombrelloni” è il responso irrevocabile. Quale voce si erge dalla moltitudine necrofila sul deturpamento di chilometri di costa, anch’essa una volta intatta e sacra (chissà a quale divinità, non certo al nostro piccolo Dio, figlio di Mammona).

A quanto pare, il disturbo dell’espianto scaturisce dalla banale esperienza estetica – la zona franca del soggettivo – passiva e transitoria. Il dolore per la cessazione della vita vegetale diventa marginale.

L’albero è una decorazione del paesaggio, fotogenico, un elemento dell’arredo urbano. Tutto è consegnato agli addottorati dei laureatoi, sì, anche il paesaggio.

La stessa sorte è toccata alla nobile arte dell’agricoltura, appestata dalla chimica laureata. Per fortuna è argomento per il tepore del caminetto o del monitor, escludendo dai salotti le schiene piegate dei contadini. Le ovvie retoriche.

Quella dell’uomo è opera di morte, storia votata al crimine, dove nessun anelito e nessun fremito di vita impedisce la sciagurata meta mortale. Oltre al legno per la croce di “nostro” Signore, dell’albero sarà ricordato anche il coperchio che ci sigillerà nella nostra definitiva e piccolissima casa.

Francesco Lorusso (Ass. Camera Cromatica)