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Muore Leopardi, ma non la sua gobba: celebriamola

Il 14 Giugno di 180 anni fa, moriva Giacomo Leopardi.

Anche se nei suoi scritti non cita né Vieste né il Gargano, sembra giusto ricordarlo, almeno un po’, da uomini che parlano di uomini, snobbando il veto degli atenei e degli esperti stipendiati.

“Ad perpetuam rei memoriam”.

GIACOMO LEOPARDI, al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi. Dicono nato Conte a Recanati nel 1798, morto nelle Scuole, sepolto in librerie e biblioteche.

È stato un grande ed instancabile zoologo italiano. Esperto di Donzellette campagnole, di Silvie filanti, di Passeri campanari; di Pastori erranti e di Capponi palinodiati.

Insieme al comportamento degli antichi animali, si è interessato anche dei loro territori eutrofici, oggi scomparsi: colline amene, deserti notturni e belanti, vulcani ginestrati, piazze di neocredenti. E lune precipitate nei giardini.

Giungeva al Sabato stremato.

Ci sorprende la passione per le macchine. Di sua invenzione ne propose delle meravigliose alle Accademie, dei Sillografi o dei Pitagorici non ha importanza. Alcune sono prodigiose: la “parainvidia”, la “paracalunnie o paraperfidia” o “parafrodi”, qualche altra “che ci scampi dall’egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degl’insensati, de’ ribaldi e de’ vili, dall’universale noncuranza e dalla miseria de’ saggi, de’ costumati e de’ magnanimi, e dagli altri sì fatti incomodi…”.

Con tutto ciò, Leopardi non è stato mai insignito di un premio, povero.

Era brutto perciò lagnoso: l’equazione plebea, la frode per toglierci dall’imbarazzo della sua grandezza. Eccoci davanti al segreto della sua portentosa intelligenza: la gobba miracolosa, la cifosi di straordinaria sensibilità. In quella magica montagnola, un buon rabdomante riuscirebbe a captare le acque sotterranee della vita, sorgenti precluse ai deboli e ai codardi; infangate dall’ipocrisia e dalla vigliaccheria.

Seguendo le salubri vibrazioni, speriamo di ripararci dalle infamie in agguato.

Fu poeta tra i più alti – è facile consacrare un uomo per i suoi versi. Ma grande pensatore, onesto ed eroico di fronte alla verità; veggente chiarissimo e illuminante: sono qualifiche che non vengono mandate giù facilmente, per quanto indigesta la sua filosofia. Il suo sole abbagliante getta troppa ombra su secoli di cultura, volgendo le sue incontestabili analisi sia sul passato che sull’avvenire, senza compromessi. La sete inappagata di vita, la brama per il vero, ci chiedono di essere riscattate. Trovandola – forse non tutta – Leopardi ha detto e vissuto la verità. L’ha potuto fare perché era un uomo d’azione (e di azione si può parlare solo di fronte alla verità), a sfregio dell’opinione consolidata nel vederlo impotente e incapace di vivere.

A suo danno, incide il rigore nel descrivere l’uomo e la natura per quello che sono; la sua accusa al progresso; quell’ironia nel “veder gioia regnar, cittadi e ville, vecchiezza e gioventù del par contente…”, oggi è poco gradita. Qualche voce attuale potrebbe asserire che il recanatese, alla luce dei fatti, farebbe ammenda del suo cattivo influsso e della sua errata lettura del mondo, ritrattando umilmente i suoi pregiudizi: «avete ragione voi… volgarissimi».

Il suo pensiero, designato pessimistico, paradossalmente è e resterà consolatorio, una benda bagnata sulle ferite dell’ignoranza e sulla cecità congenita dell’uomo. Ci ha penetrato, sviscerato, svergognato con mano angelica; ha amato incondizionatamente, corrisposto in malo modo e distrattamente. Ha cantato la pienezza della vita.

Con pratica alchemica, si può trasformare il suo canto in voce dell’origine, orficamente. Lo sguardo conclusivo sulla vita come dolore e sofferenza, strano a dirsi, può diventare il presupposto per l’inizio di un consapevole percorso liberatorio, che salva l’individuo dai limiti della sua esistenza meschina. In questo caso si azzarda un Leopardi ottimista, compagno di un viaggio iniziatico, verso un “oriente” a lui sconosciuto (riteneva, per sua sfortuna, la cultura dominante corrotta e superficiale, inadatta ad elevare l’uomo).

I giovani, almeno quei pochi che hanno stomaco per la verità e per una eventuale libertà come effetto, faranno bene a frequentare Leopardi (gli altri possono sempre scegliere il ventre e la viltà); a seguire il suo esempio di uomo libero, che srotolava la lingua solo per cantare, sprezzante del potere che sapeva affare miserabile per miserabili.

Lanterna amica per scrutare gli inganni dell’esistenza, ha rinunciato alle gioie della vita per donare agli altri gli strumenti per conoscerla, “gettandoli nel bagno gelato di una ragione sana, perché si scuotessero dal torpore dei narcotici moderni”.

Il dialoghetto del Timandro è la miglior introduzione al suo cuore, prefazione al suo spirito, degno commento ad un ignoto sutra della saggezza.

Avvicinatevi a quest’angelo trafitto, vi abbraccerà con il suo “sorriso ineffabile”. Imparerete il coraggio.

Francesco Lorusso (ass. Camera Cromatica)