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Il leccio nei viali di Vieste: rispetto per la storia e cultura del paesaggio

La decisione di inserire nell’arredo urbano di alcuni viali di Vieste il maestoso leccio (Quercus ilex) indica un responsabile rispetto per la storia del Gargano ed esprime una profonda cultura del paesaggio.
Emilio Sereni, agronomo, scrittore, politico, storico dell’agricoltura e del paesaggio, nel dare alle stampe la Storia del paesaggio italiano nel 1961, sollecitato dall’interesse di un vasto pubblico di lettori, tra i quali studiosi e ricercatori di varie discipline, auspicava che attorno agli studi sulla storia del paesaggio agrario italiano si concentrasse l’attenzione e l’interesse di un nutrito nucleo di studiosi e ricercatori locali che potesse rendere compiuto e circostanziato, territorio per territorio, quando egli aveva reso solo in forma sintetica e sommaria.
Appunto per venire incontro alle attese di Sereni – consapevoli della complessità di una materia che richiede competenze specialistiche in diversi campi di studio – numerosi studiosi, spinti da fervida passione, hanno cercato di materializzare il paesaggio naturale ed agrario di vaste aree geografiche italiane, facendolo emergere le diverse stratificazioni storiche ed ambientali succedutesi dalla fine dell’ultima glaciazione fino ai limiti temporali odierni.
Ma un lavoro di studio e di ricerca del genere potrà considerarsi gratificante solo quando amministratori e istituzioni, attenti agli interessi pubblici e impegnati in una seria politica di tutela dei beni culturali, faranno uscire i nostri territori, pur ricchissimi di storia millenaria, da quell’incultura diffusa per cui – come scrive Franco Cambi nel Manuale di archeologia dei paesaggi – spesso « i visitatori entrano in contatto con le storie che si sono succedute in un determinato contesto, ma il contatto è, sovente, circoscritto alle mura del museo o ai limiti del sito o del parco archeologico, e non è semplice percepire i paesaggi cronologicamente corrispondenti ai monumenti e agli oggetti visti. All’esterno si ripropongono invariabilmente, forme di cesura incolmabili, rappresentate da iniziative urbanistiche ed economiche incaute e spesso inutilmente violente, mirate sempre al consumo non rinnovabile di ampie superfici di territorio,talvolta al profitto, quasi sempre alla pura rendita».
Come non considerare di pura rendita, ma del tutto negativa in funzione degli interessi comuni, la totale o quasi distruzione dei paesaggi antichi costieri del Gargano, ricchi di vegetazione pregiata e di villaggi neolitici, i cui pochi resti ancora oggi resistono del tutto confusi e ignorati nel bel mezzo di una cementificazione selvaggia della costa, i cui fautori hanno volutamente ignorato la grande occasione di considerare Vieste e il Gargano un polo di sviluppo turistico non solo balneare, ma soprattutto culturale. Una valenza culturale ampia e documentata che, riscoperta e valorizzata, avrebbe prodotto una forte attrattiva verso una clientela colta e specializzata di livello internazionale, elevando la nostra offerta verso un’ospitalità differenziata e variegata, capace di attrattiva costante durante l’intero arco dell’anno.
In questi antichi paesaggi costieri post glaciali predominava il leccio, quando il pino d’Aleppo, che diventerà prezioso per la pece, l’olio di fumo, la trementina, la palimpissa e la rosapina, non era ancora stato rilevato.
Vincenzo Giuliani, nelle Memorie storiche della città di Vieste, parla spesso del leccio del Gargano, ma essendo questo splendido albero già descritto da tanti noti botanici suoi contemporanei, preferisce dilungarsi su un altra bellissima nostra essenza arborea da rivalutare: il corbezzolo, i cui frutti «fan girare la testa, per essere di difficile digestione, come fa il vino bevuto in quantità, si dicono da’ nostri paesani ubriachelle e gangole».
Sulla fama del leccio, quercia sempreverde, rustica e longeva, robusta e maestosa, antica e avvolta da mille leggende, Giuliani aveva ragione. Già Plinio aveva riferito di un leccio antico, venerato dagli Etruschi sul colle del Vaticano. E nei suoi Detti, il beato Egidio, compagno di S. Francesco, scriveva che Cristo preferiva il leccio da cui proveniva il legno della Croce.
Sul Gargano c’è una venerazione quasi mistica, ancestrale, dei lecci da parte dei vichesi, tanto che dopo 400 anni il «patriarca» di fra Nicola domina ancora il piazzale del convento dei Cappuccini, accudito da mille cure e adorato come uno dei più preziosi tesori naturalistici della Puglia. Non a caso lo scienziato della Vico settecentesca, il frate Michelangelo Manicone, a proposito dell’etimologia di Ischitella, parlava di una genere di quercia, l’ ischio, – solo più tardi classificato con certezza – che ben rappresenta le virtù e le preziose risorse bio-climatiche dell’intera famiglia delle querce: « Or l’ischio mette profondamente le sue radici, è più alto del faggio e ‘l suo tronco è più grosso di quello della quercia. La sua ghianda è un cibo, cui son ghiotti i maialj, e che più grassi li rende, e di miglior sapore. Il suo legno sodo e fitto è servibile ad ogni edifizio, e lavoro, in cui richiedasi solidità. Finalmente l’ischio è così fermo, che sta forte contro ad ogni furia de’ venti […] Molti Eruditi avvisano, che le ghiande fossero alimento degli Aborigeni, che perciò questi popoli furono detti Mangia-ghiande, e che prescelsero per tal cibo le ghiande d’ischia, perché più dolci di tutte le altre sorte di ghianda».
Carpino e Ischitella hanno saputo proteggere i loro splendidi faggi e lecci con una riserva naturale biogenetica statale di 300 ettari, attraversata dal torrente Romondato, distesa in direzione del lago di Varano, ricca di una fauna prevalente di caprioli, gatti selvatici, ghiri, faine, tassi, volpi, lepri, cinghiali.
Non sembri e non si creda, quindi, che la semplice scelta di inserire il leccio – anche eventualmente il corbezzolo, il mirto, il carrubo, l’ischio di Manicone – nel contesto urbano di Vieste e degli altri paesi del Gargano non abbia una valenza di ampia portata culturale e storica.

Ah! Dimenticavo: «Gli Aborigeni del Gargano?»
Ma questa è già un’altra storia.

Michele Eugenio Di Carlo
meridionalista

 

 

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