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La costituzione del 1848 a Napoli e le lotte politiche intestine a Vieste

Il liberale Alfonso Perrone, futuro sindaco e segretario comunale di Vieste, il 27 gennaio del 1848 giunse a Napoli, proveniente da Deliceto. Intimidito ed allarmato, si rese subito conto che la città viveva un forte stato di agitazione, causato dalla tormentosa attesa di grosse novità politico-istituzionali.
Infatti, l’11 febbraio entrava in vigore il nuovo Statuto costituzionale, accolto da una popolazione festosa e acclamante il Re, la Costituzione, la libertà in tutto il Regno delle Due Sicilie.
Mentre Perrone iniziava i suoi studi di giurisprudenza con un beneaugurante novello Statuto, a Vieste la situazione politica era travagliata e viveva momenti di forte tensione a causa della lotta senza quartiere tra due gruppi appartenenti alla borghesia locale.
Da un lato, con le famiglie Petrone, Vigilante, Caizzi, Cocle, Del Viscio, c’erano i rappresentanti della borghesia agraria, liberali moderati, che si proponevano l’occupazione delle leve comunali del potere per continuare a godere di piccoli e grandi privilegi e per opporsi meglio ai contadini che pretendevano la ripartizione e la divisione in quote delle terre demaniali usurpate; dall’altro, gli esponenti del ceto commerciante ed intellettuale della borghesia, liberali progressisti, democratici, qualche volta radicali, a cui appartenevano le famiglie Medina, Nobile, Bosco e Spina, fautrici di una partecipazione più democratica alla vita sociale e politica.
Fin quando Michele Petrone era stato sindaco, la sua famiglia, composta da quattro fratelli, proprietaria di un grosso allevamento di pecore e di capre, non aveva pagato la fida nella misura regolamentata e relativa al pascolo praticato sui terreni del Tavoliere; la qual cosa mise in difficoltà economiche il Comune a cui era imposto di pagare un canone annuo su tali terreni detti «risecati». Eletto sindaco nel 1846 Andrea Medina, il Decurionato pretese dai Petrone il pagamento dell’intera fida pascolo, ponendo le basi per una lotta che avrebbe avuto pesanti conseguenze per l’intero paese.
Il clima di maggiore libertà che si respirava nei primi mesi del 1848, quando il re Ferdinando II concesse lo Statuto costituzionale, mise in agitazione i contadini e i braccianti che da sempre aspiravano ad un pezzetto di terra demaniale per migliorare le condizioni di vita, al limite del decoro e della decenza, in cui erano tenuti da sempre dai soprusi e dalla crudeltà dei proprietari terrieri, prima baroni poi borghesi.
La crisi economica e la carestia trascinarono i contadini del Gargano verso le agitazioni di San Giovanni Rotondo, Monte S. Angelo, Peschici, tutte represse dalla Guardia Nazionale. A Vieste, i contadini dapprima occuparono e divisero i terreni comunali, poi, utilizzati e spinti delle famiglie Medina e Bosco, invasero le grandi estensioni terriere di Francesco Cocle e degli amici della famiglia Petrone, i quali, come ha scritto Giuseppe Clemente nel testo “Costituzione e anarchia nel 1848 in Lotte politiche a Vieste e Peschici nel secolo scorso”, «se ne erano precedentemente impossessati ed erano odiati perché arricchiti con usure ed estorsioni».
Francesco Cocle era il nipote di monsignore Celestino Maria Cocle che, confessore di Ferdinando II, era stato da questi appena fatto allontanare. Quando nella notte del 23 e 24 febbraio 1848 si sparse la voce che, sceso da una barca sulla spiaggia del “Convento”, il monsignore si era rifugiato nel monastero dei Cappuccini, nel giro di pochi minuti il paese fu in subbuglio e la plebe pretese dal giudice Emilio Politi, amico del farmacista Del Viscio e, quindi, vicino alla famiglia Petrone, la perquisizione della chiesa e del convento.
Le perplessità, le resistenze, le lungaggini adoperate dal giudice Politi nel decidere il da farsi, furono oggetto di segnalazione all’Intendente di Capitanata del sindaco Andrea Medina, il quale asseriva che il monsignore aveva sostato a Vieste fino al 27 febbraio.
Considerato l’odio che circondava la famiglia Cocle, non fu difficile spingere i contadini verso fine marzo ad occupare i loro terreni.
Cocle presentò denuncia e il giudice regio Politi condannò ad un anno di reclusione Giorgio Iannoli, Matteo Pastorella, Francescantonio Papalano, Andrea e Pietro Cariglia, Vincenzo e Domenico Protano.
Le occupazioni di terre proseguirono nel mese di maggio, quando il sindaco Andrea Medina, il cancelliere Pasquale Abruzzini, Carlantonio e Giovanni Vincenzo Nobile, cognati del sindaco, il sacerdote don Vincenzo Protano, diffusero la voce che nelle difese di “Santa Tecla”, di “Campi” e di “Piscina dei Frati”, a seguito di una inesistente delibera del Consiglio d’Intendenza era reso possibile l’uso civico del pascolo estivo dall’8 maggio al 29 settembre . Anche qui uno dei proprietari, Michele Caniglia di Rivisondoli (probabilmente uno dei tanti locatari abruzzesi delle terre fiscali del Tavoliere) , per conto di tutti gli altri, presentò denuncia all’autorità competente.

Le terre demaniali promesse ai contadini da una legge del 1806, usurpate dai “galantuomini”, rimasero un sogno. Un sogno che porterà contadini, braccianti, renitenti alla leva ed ex soldati borbonici, sostenuti dal ceto popolare, alla lunga, cruenta e feroce guerra civile che caratterizzerà i primi anni del processo unitario.

(Tratto dal testo “Contadini e braccianti nel Gargano dei briganti”)

Michele Eugenio Di Carlo

 

 

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