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Lupi e cani randagi, le annotazioni del Centro Studi per l’Ecologia e la Biodiversità degli Appennini

Da ormai diverso tempo si assiste ad un fenomeno di notevole diffusione del lupo in tutto il territorio italiano, diffusione che sta creando un allarmismo giustificato in parte dalla non conoscenza di alcuni fenomeni naturali, in parte dall’impreparazione di alcuni comparti zootecnici ed in parte dalla inefficienza della pubblica amministrazione da sempre afflitta da carenza di fondi. Il fenomeno è perfettamente comprensibile se inquadrato nelle leggi della natura e, con un minimo di programmazione, sarebbe stato prevedibile e si sarebbero potuti predisporre gli adeguati provvedimenti per il contenimento delle conseguenze. La diffusione di una specie comporta sempre l’alterazione degli equilibri preesistenti ed è comunque la conseguenza di una serie di cause, in gran parte addebitabili all’uomo, che spesso hanno origini lontane. Non potendo in questa sede effettuare una analisi approfondita, si vogliono comunque evidenziare alcuni passaggi fondamentali di questo fenomeno, ripercorrendo brevemente la storia del lupo, peraltro comune a tanti altri predatori. Negli anni ’70 si assiste al minimo storico della presenza del lupo sul territorio italiano, portando la specie sull’orlo dell’estinzione. Le cause che avevano condotto a quella situazione risiedono nella caccia spietata al predatore ma, soprattutto ad un calo vertiginoso delle prede tradizionali e ad un degrado significativo degli ambienti in cui tradizionalmente la specie si sviluppava. Piccoli nuclei sopravvivevano nelle aree più impervie e meno frequentate ed alterate dall’uomo. I decreti di protezione sia a livello nazionale che a livello internazionale hanno evitato che alla specie fosse assestato il colpo di grazia. In seguito sono accaduti alcuni fatti che hanno permesso alle residue popolazioni di lupo di riprendersi e aumentare di consistenza. Sotto questo aspetto, la diminuzione della pressione di caccia (questa non è mai cessata del tutto) ha contribuito a favorire la salvezza della specie. Il progressivo abbandono della montagna da parte dell’uomo unito ad una serie di interventi di ripopolamento degli ungulati (cervi, caprioli e, soprattutto, cinghiale) hanno iniziato a ricostituire la base alimentare tradizionale del lupo. Occorre fare due importanti precisazioni: la prima riguarda il potenziale riproduttivo degli erbivori. Esso è molto elevato, talvolta per il numero dei piccoli che viene prodotto ogni volta (il cinghiale), talvolta per la struttura della popolazione (cervo) in cui un singolo maschio possiede un harem di femmine e ciò incrementa notevolmente il numero delle nascite. La seconda considerazione riguarda il potenziale riproduttivo del lupo che, pur avendo la possibilità di produrre una prole numerosa nell’unica riproduzione annuale, vede la sopravvivenza dei cuccioli legata strettamente alle risorse alimentari disponibili sul territorio. Di conseguenza, maggiori saranno le prede e maggiore sarà la possibilità di espansione del predatore. Un’altra considerazione importante da fare è quella riguardante il possibile controllo delle popolazioni di erbivori da parte del lupo. Per quanto le predazioni da parte dei predatori siano efficaci nel controllo delle popolazioni di erbivori, nella nostra particolare situazione il lupo è partito svantaggiato per cui l’equilibrio fra predatori e prede, necessariamente, non potrà essere raggiunto facilmente. È comunque vero che al momento attuale il lupo ha a disposizione una quantità enorme di prede e ciò favorisce la sopravvivenza dei cuccioli e l’incremento delle popolazioni del predatore. Nel contesto ambientale del territorio italiano, il lupo appenninico costituisce branchi di piccole dimensioni, per lo più costituiti da consanguinei (genitori, cuccioli dell’anno e, talvolta dell’anno precedente). Al raggiungimento della soglia numerica critica, alcuni elementi del gruppo familiare si staccano ed iniziano una fase di erratismo allo scopo di formare, con esemplari provenienti da altri gruppi familiari, nuovi branchi. Questo fenomeno ha una sua ragione di essere e deriva dalla necessità di assicurare scambi genetici ed evitare che il possibile reincrocio fra consanguinei porti ad una degradazione del patrimonio genetico. Una volta formati nuovi branchi, si verifica l’occupazione del territorio familiare. È evidente che verranno scelte aree libere più favorevoli, ma quando queste si esauriscono, la colonizzazione interesserà aree marginali fino ad occupare aree di minima compatibilità con la specie che, comunque, grazie alla sua estrema adattabilità, riuscirà a sopravvivere. In tale contesto si inserisce il problema del cane “vagante” (randagio, inselvatichito). Quest’ultimo ha, per il territorio, una valenza molto simile al lupo e, essendo pur esso territoriale, impedirà al predatore selvatico l’occupazione degli spazi adeguati. Di conseguenza si può ragionevolmente affermare che l’espansione del lupo in aree non vocate viene accentuata e favorita dalla presenza, talvolta molto consistente, del cane randagio, presenza che rappresenta una competizione territoriale ma anche alimentare. Chiarito, anche se in forma molto semplice, il fenomeno e le sue dinamiche, appare necessario fornire indicazioni sul come salvaguardare le attività umane, produttive e non. Va, preliminarmente chiarito un concetto fondamentale: il lupo non aggredisce l’uomo, fatto salvo che non si trovi in evidente pericolo, sia perché stretto in un ambito senza via di fuga, sia perché provocato dal comportamento umano. Se nelle aree vocate, con abbondanza di prede selvatiche, il lupo stenta ad avvicinarsi all’uomo ed agli animali allevati, nelle aree meno vocate e con scarsa presenza di prede, può essere spinto dalla fame ad aggredire il patrimonio zootecnico. La presenza di cani di adeguata attitudine alla difesa dei domestici (mastino abruzzese, ma anche altre razze, a seconda del contesto) scoraggia i predatori ad aggredire le greggi. Anche la presenza, fra gli equini al pascolo, dello stallone nella stragrande maggioranza dei casi tiene lontani i predatori, con un significativo abbattimento delle predazioni. Recinti elettrici possono essere utili per minimizzare i danni all’atto della stabulazione degli animali, sempre con la presenza dei citati cani all’interno ed all’esterno del gregge (CSEBA – PWE, ricerche triennali di Andrea Gallizia nel teramano, tutt’ora in corso). A ciò, naturalmente, deve aggiungersi un efficiente intervento della pubblica amministrazione nel tempestivo e totale rimborso degli inevitabili danni che dovessero continuare a verificarsi. La convivenza fra uomo e natura (intesa nella più ampia accezione del termine) è possibile, a patto che l’uomo capisca che una sua interazione troppo aggressiva nei confronti degli elementi naturali porterà solo a disastri e che lui stesso, in quanto elemento integrante della natura, per primo ne subirà le conseguenze. Gli effetti dei cambiamenti climatici indotti dall’uomo dovrebbero insegnarci qualcosa.