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ALFONSO D’ARAGONA E IL REGIME DELLA TRANSUMANZA, OGGI PATRIMONIO UNESCO

Il periodo di anarchia e di disordine che segna il passaggio dal Regno degli Angioini a quello degli Aragonesi favorisce l’appropriazione dei terreni fiscali da parte di baroni, Università, enti ecclesiastici, latifondisti.

Dal 1442 Alfonso d’Aragona dedica notevoli energie alla regolamentazione della transumanza delle greggi molisane e abruzzesi in Capitanata, del tutto convinto che essa rappresenti un formidabile mezzo per assicurare floride finanze al suo Regno.

Domenico Maria Cimaglia, illuminista di origini viestane del Settecento, avvocato dei poveri del tribunale della Regia Dogana di Foggia, ci parla di quel periodo scrivendo che le «guerre perditrici che fin al duodecimo secolo furono quasi perenni in Puglia» avevano spopolato il Tavoliere, quando nel 1443 « ‘l savio Re Alfonso I» credette necessario «con ogni sua forza agevolar tal industria, costituendo i campi di Puglia in proprio territorio degli armenti apruzzesi, e stranieri, e ne’ quali potessero i pastori con profitto e libertà costantemente condurli a svernare».

Con la Prammatica del primo agosto 1447, re Alfonso sancì l’atto costitutivo della “Dogana Menae Pecudum Apuliae(Dogana della mena delle pecore in Puglia), riconsiderando tutte le costituzioni precedenti che avevano ottenuto validi risultati e nominando con le più ampie facoltà il fidato Francesco Montluber, nobile catalano, doganiere a vita.

Montluber, valido ed esperto alto funzionario, spinto dalla totale fiducia che Alfonso gli aveva riservato, dagli ampi poteri concessigli, dalla vasta e completa autorità della quale era stato investito in tutte le questioni inerenti la transumanza e le molteplici attività ad essa collegata, pose le condizioni affinché i pastori molisani ed abruzzesi potessero portare permanentemente le greggi a svernare nel Tavoliere della Puglia.

Per ottenere risultati apprezzabili era necessario, ma anche decisamente richiesto dai pastori, assicurare il libero passaggio degli animali dal Gran Sasso, dalla Maiella, dall’alto Molise attraverso i pascoli di feudi baronali, di Università, di enti ecclesiastici, di latifondisti, anche in condizioni di sicurezza, visto che il brigantaggio e l’abigeato erano piaghe endemiche e che anche i baroni erano soliti esercitare prepotenze e abusi di ogni genere.

Montluber, dotato dal sovrano delle risorse economiche necessarie, acquistò per conto della Dogana le terre necessarie per il passaggio lungo migliaia di chilometri: gli storici tratturi.

Per di più era assolutamente prioritario assicurare la giusta quantità di pascoli invernali anche quando la transumanza assumeva dimensioni bibliche, al fine di non mettere in concorrenza forzata i pascoli fiscali con quelli privati. Montluber contrattò l’acquisto dei pascoli di baroni, comuni e latifondisti, in perpetuum, per il solo periodo inclemente dal 29 settembre all’8 maggio, lasciando pienamente libera la titolarità delle proprietà o dei possessi per il periodo estivo, quando si poteva sfruttare il pascolo estivo: la cosiddetta erba statonica.

In un Tavoliere che si estendeva per circa 300 chilometri quadrati, secondo Maria Rosaria Britto, «vennero, in tale occasione, censite in perpetuum terre per una estensione di circa 15.592 carra[ii] di terreno, che permettevano di ospitare 911.264 pecore»[iii].

Con Alfonso d’Aragona la pastorizia transumante nelle pianure pugliesi, diventa l’unica attività economica consentita, favorita e protetta, oltre che una delle maggiori fonti di entrate delle finanze del Regno; l’agricoltura assume aspetti del tutto secondari e nessun tipo di coltivazione può permettersi di sottrarre superfici al pascolo, tanto che i seminativi possono essere arati e coltivati solo per un terzo.

Pasquale Soccio, letterato garganico del Novecento, ha infatti asserito che l’istituzione della Dogana della mena delle pecore fu l’elemento trainante per il transito da un pauperismo fisiologico ad uno, ben più grave e dannoso, patologico, «tanto da scuotere e illuminare le migliori coscienze di politici e studiosi contemporanei. Mi riferisco soprattutto a quella gloriosa schiera di illuministi napoletani, alcuni dei quali sgomenti viaggiatori per questa terra e che si possono ritenere a buon diritto proto-meridionalisti. Si pensi a Genovesi, a Filangieri, a Galiani, a Delfico e in modo particolare a Palmieri, Longano e Galanti»[iv].

Un regime fiscale del genere, pur trovando giustificazioni tipiche del tempo storico, non poteva in ogni caso non destare proteste che troveranno concordi, fatto insolito, baroni e contadini, come riporta Raffaele Licinio, uno dei massimi esperti contemporanei della storia del Medioevo [v].

La rivolta iniziava nel 1458, durante la fase del passaggio di potere da Alfonso al figlio Ferdinando I, detto Ferrante (1458-1494). Non è affatto una data casuale. Infatti, Alfonso nell’intento di premiare la nobiltà napoletana, che lo aveva favorito nella lotta contro gli Angioini, era stato estremamente “Magnanimo” nel favorire e diffondere ovunque il potere baronale, attribuendogli piena giurisdizione civile e penale nei territori infeudati.Con Ferrante al potere i sentimenti baronali nei riguardi della Corona mutano radicalmente, non solo per le vicende legate alla subordinazione dei feudi al regime fiscale delle terre del Tavoliere. La politica illuminata di Ferrante si contrappone allo strapotere nobiliare, sottrae feudi alla giurisdizione baronale recuperandoli al Regio Demanio, incentiva e liberalizza commerci e industrie posti nella concezione feudale sotto stretto e dispotico controllo.

Come conferma lo storico garganico Giuseppe Piemontese quando, riferendosi all’odio nei confronti di Ferrante, e alla conseguente e successiva Congiura dei Baroni (1485-1487), scrive:

«Tale congiura nasceva dalla resistenza dei baroni all’opera di modernizzazione dello Stato perseguita da re Ferrante, il quale si era prefisso di dissolvere il particolarismo feudale e fare del potere regio la sola leva della vita del paese. Cioè il re voleva attuare un’organica riforma dello Stato, i cui cardini erano la riduzione del potere baronale, lo sviluppo della vita economica e la promozione a classe dirigente dei nuovi imprenditori e mercanti napoletani, che allora stavano nascendo in tutto il Regno»[vi].

 

Il Tavoliere viene diviso in estensioni territoriali denominate «locazioni», ciascuna delle quali può contenere un numero definito di pecore che varia in rapporto alla diversificazione qualitativa dei pascoli. Le locazioni tradizionali, che qui si elencano, erano ventitré: Andria, Arignano (Rignano Garganico), Camarda, Candelaro, Canosa, Casalnuovo, Castiglione, Cave, Cornito, Feudo d’Ascoli, Guardiola, Lesina, Ordona, Orta, Ponte Albanito, Procìna (Apricena), San Giuliano, Sant’Andrea, Salpi, Salsola, Tressanti, Trinità, Valle Cannella.

E quando ancora i pascoli di queste locazioni non saranno sufficienti, verranno aggiunti altri territori da assoggettare al regime fiscale, esterni al Tavoliere stesso e aggregati alle locazioni, quali il Feudo di Monteserico, i boschi di Ruvo e di Montemilone, i demani di Ascoli, di Bisceglie, di Bitonto, di Cagnano, di Campolato, di Carpino, di Grumo, di Ischitella, di Isola Varano, di San Bartolomeo, di San Nicandro, di Sequestro, di Terlizzi, di Toritto, di Venosa, di Vieste e di Peschici [vii].

Le locazioni erano ulteriormente divise in 446 «poste», le quali venivano assegnate nominalmente ai singoli allevatori, assurti alla tanto ricercata qualifica di «locati o fidati», con relativi diritti e doveri annessi e connessi.

Le greggi per raggiungere i regi pascoli del Tavoliere – estesi ben oltre la pianura pugliese con l’ampliamento imposto da Montluber – percorrevano vie pastorali erbose larghe 111 metri onde permettere agli animali di nutrirsi e di sostare durante le pause; vie che, denominate «tratturi»,si diramavano in una rete infinita e lunghissima di «tratturelli», collegati tra loro da innumerevoli vie minori denominate «bracci».

Michele Eugenio di Carlo

Adattato ad articolo dall’autore ed estratto dal testo “La Capitanata al crepuscolo del Settecento