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10 Gennaio/ LO SFOGO

Oh, amico, non calarti il cappello sulla fronte! Sfoga con parole il tuo dolore: si rivolge contro il cuore troppo oppresso e lo spezza.

È Malcolm, figlio del re di Scozia, a parlare così al nobile scozzese Ross nell’atto IV (scena III) del Macbeth di Shakespeare, suggerendogli di non tenere dentro di sé il dolore che lo tormenta. Egli, in tal modo, tocca una verità che tutti conoscono, ma che non trasferiscono nella vita. Lo «sfogo» è, infatti, una prima medicina alla sofferenza; anzi, in alcuni casi è l’unica possibile. Chi distilla dentro di sé la propria ama­rezza alla fine corre il rischio di avvelenarsi l’anima o, giunto a un punto estremo di saturazione e di compressione, può anche esplodere in una disperazione suicida o in un’atonia altrettanto mortale.

Ma è proprio qui che scatta la difficoltà di base: c’è ancora chi è pronto a raccogliere lo sfogo di un altro? Ormai tutti hanno fretta, per­sino i preti che un tempo erano i destinatari spontanei delle confidenze di molti infelici. Eppure il sentirsi ascoltati e forse compresi è un dono prezioso che può salvare dal vuoto e dalla desolazione tante persone. Quando incontri chi ti accoglie sinceramente, tu puoi mostrare anche le piaghe nascoste, le cicatrici di cui ti vergogni. L’altro non deve necessariamente trovarti una soluzione (spesso impossibile), deve solo ascoltare e partecipare, accostarsi e condividere. E per questo che è in­dispensabile dedicare una parte del nostro tempo all’amicizia, alla vi­cinanza, all’incontro, senza controllare di sottecchi l’orologio…

Gianfranco Ravasi