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IL LIBRO DELLA SETTIMANA/ Dispera Bene. Manuale di consolazione e resistenza al declino di Marcello Veneziani

Ognuno di noi è coinvolto. Non ce la poniamo direttamente, abbiamo da badare ai nostri guai, ma ci viviamo dentro questo interrogativo: ha senso sperare? Oppure conviene rimboccarci le coperte sotto una coltre di leggera e libidinosa disperazione, senza eccessi, con pudore, ripetendo a bassa voce poi-tanto-si-muore? Del resto: cos’è la speranza e che cos’è la disperazione? Non essendoci più purtroppo Giorgio Gaber, ad illuminarci – ed è una ragione di disperazione, ma anche di speranza: rincontrarlo nell’altra vita! – si fa avanti Marcello Veneziani.

Il libro si intitola Dispera bene. Manuale di consolazione e resistenza al declino (Marsilio pagine 152, €17) ed è tutto uno splendido paradosso. Disperare quietamente, evitando gli strepiti, riflettendo senza paura su noi stessi e il nostro destino, è forse la cola speranza che non delude. Non sto rivelando (spoilerando come si dice ai tempi di Netflix) il finale di un thriller. Perché Veneziani dichiara subito ti suo intento. Non rivelerà la V-e-r-i-t-a. Neppure nega che essa esista. Ma è al di là di questo istante, essa non ci afferra e neppure si lascia possedere.

Bisogna subito spiegare, ai pochi che non lo sanno, chi è Veneziani. Lo dico a me stesso, con una certa invidia. E di certo il giornalista più colto quanto a filosofia e poesia che sia in circolazione in Italia. È dotato di una logica ferrea, ma anche di un gusto per la illogicità della nostra esistenza, e degli assunti della filosofia.

Crede nell’essere, nel suo essere solido, intonso, inattaccabile dal nulla. Non crede che il tempo sia un fattore decisivo, per questo ritiene un’operazione inutile sperare, ma anche il suo contrario. Eppure vi dedica un libro bellissimo. Che lascia intatte le domande poste all’inizio: che cos’e la Speranza? Perché nonostante tutto mi alzo il mattino e cerco l’alba, un’alba diversa, una piccola spada di luce per tagliare la corazza della noia; e fare anche solo il mio dovere con una briciola di soddisfazione, voler bene ed essere ricambiati oppure no, non importa, ma almeno cercare di eseguire bene il compito, anche se non se ne accorgerà nessuno, figuriamoci Dio?

Figuriamoci Dio…

Veneziani nelle sue pagine, scritte con una scelta delle parole di tipo arabo, piene dei sapori della sua Puglia, racconta c spiega quanto i massimi pensatori dell’umanità ci hanno spiattellato sul tema della speranza, che coincide con il senso della vita. Non ritiene questa domanda oziosa, uno stupido vezzo della nostra specie, ignorato dal resto del regno animale. Egli sa che l’anima esiste, e lo sai anche tu che lo leggerai, anche se sono pensieri ondivaghi e tremuli, ed egli ti conduce a esplorarne i recessi nascosti, ma anche le spume illusorie con una meticolosità di cesellatore.

Da Aristotele a Leopardi

Troverete tutto: Bibbia, Gesù, Parmenide a Zenone, Socrate e Aristotele. Soprattutto Epicuro cd Eraclito, il preferito se non capisco male è però Seneca, insieme al san Paolo di cui Veneziani ama l’abisso contraddittorio della sua formula “spes contra spem”, sperare contro la speranza. Adora il “disperatissimo” Leopardi (anche se come Augusto Del Noce credo preferisca il padre di Giacomo, Monaldo). Ce l’ha a morte, il nostro autore, con un mito citato da chiunque quasi fosse l’oracolo del millennio: Zygmunt Bauman (1925-2017), e la sua teorizzazione della “società liquida”, che diventata una formula-talismano, alibi per rinunciare a considerare ciò che di solido resiste quanto a valori, principi, doveri.

Ma ecco per fortuna c’è Tommaso d’Aquino. In lui Veneziani trova argomenti favolosi. E li sviluppa. Nella Quaestio 26 del secondo libro della Summa Theologica, ad esempio, c’è il contravveleno per negare l’ideologia neo-cristiana che privilegia i (milioni) di migranti sui (miliardi) di restanti e i (milioni) di diversi sui (miliardi) di persone comuni. Ma queste in fondo sono divagazioni salutari sul presente del mondo. Affascinanti distrazioni rispetto al tema dominante, che esistenziale, intimo, che trilla con la sveglia al mattino, e non si spegne affatto quando smorziamo l’abat-jour. Spes o di-spes? Questo libro si pone, in continuità di scopo con il De consolation philophiae di Severino Boezio (523 ca.), che dal Medio Evo in poi si portano in carcere gli intellettuali per inventarsi che l’etimologia di “cella” in fondo è identica a quella di “cielo”.

Marcello ci conduce nella disperazione, evirandola, così che non ci sodomizzi, trasformandola in un fattore di conforto. Mostrando come essa sia l’unica cosa ragionevole. In fondo se si scompone la parola non è un caso che si possano isolare due sillabe: “razio”, per cui potremmo arditamente tradurre con qualche licenza disperazione in non-sperare-è-razionale. Un possibile aggettivo potrebbe essere coniato: disperazionale. Ammetto: queste ultime discettazioni, poco fondate sul greco e sull’arabo, sono solo mie, ma Veneziani ti induce all’immedesimazione. Al suo metodo di maestro del paradosso creativo.

Fatto sta che consiglio fatale di Marcello è: “Imparare a coabitare con la disperazione”. Essa non delude mai. Non è brutta come la fanno apparire. Ci si può campare dentro dolcemente e senza però dormire. Consente di evitare di amareggiarsi per il futuro, il quale secondo lo scrittore pugliese e levantino ha in serbo solo il dominio della Tecnica, e non è cosa che possa colmare i giorni di beatitudine. Non è cinismo, quello che consiglia Veneziani. Perché il cinismo comporta “disfattismo che attira negatività”, sfrega l’anima con un’asprezza che rende amara la vita.

Sapienza canuta

Quella venezianesca è una sapienza sobriamente disperata, cauta, confortevole. Una mezza porzione di disperazione. Io – se essa fosse la verità sulla vita – almeno la vorrei intera, da annegarci furiosamente dentro. Ma a voi basta questa consolazione da disperazione debole? A me francamente no. Ma non basta neppure a Veneziani. Quid animo satis (salmo 8)? Cosa basta al cuore? La disperazione no di certo. Non mi accontento della disperazione. E lo scrive in fondo anche Veneziani, quando elogia la disperazione perché consente di prepararsi meglio all’imprevisto, all’inaspettato.

Siamo questo guazzabuglio magnifico noi uomini. Come scrisse Albert Camus: «Non v’e amore per la vita senza disperazione di vivere» (II rovescio e il diritto, 1937). Un incontro, come un bel giorno, accadrà? Siamo così. Attendiamo qualcosa. Veneziani la chiama disperazione, per me è speranza, ragionevole speranza, sappiamo così poco dell’universo.

Renato Farina