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“A debita distanza” – Essere giovani a 500 anni

Per renderci più vecchi celebriamo eventi non vissuti, per essere giovani cerchiamo e inventiamo il nuovo sulla polvere delle cose. Delle due ripartizioni della vita, una e indivisibile, la seconda è quella più sospirata, per la maggior disponibilità di ricordi assolutori di un’età troppo breve. L’impossessarsi del futuro e la nostalgia del passato accentuano l’alitosi dei luoghi comuni. Timore e speranza sono le armi indispensabili per il dominio dell’opinione pubblica.

Il tempo incombe alle nostre spalle, oggi più che mai: nell’illusione di controllarlo, ce lo ritroviamo accelerato e più violento – la tecnologia dà una mano insostituibile – con le tappe dell’esistenza bruciate e confuse. Ecco che, alla fin fine, il vecchio è servito in tutta la sua novità. Eppure è nell’impermanenza, è nel fluire naturale del transitorio che si annida la freschezza, la purezza: cosa sarebbe l’acqua se non scorresse? una palude putrida e stagnante.

Il rovistio ossessivo per il nuovo è figlio di un mero prurito biologico, confuso con la vivacità del sentire, solitamente speziata di contestazione: nulla di strano se i giovani nascono già vecchi e plasmati, pronti a seguire la scia di padri ciclostilati, sguazzando nei medesimi impulsi tra frustrazioni e soddisfazioni. A questo si riduce lo spazio reclamato dal succedersi delle de– generazioni, una smania competitiva che si converte in ansia d’identità. Alquanto umano è lo sfogo psichico degli istinti, sia immediato che differito: dominati dal desiderio, lo spirito di rivalsa diviene un valore obbligato – dipende da quanta impotenza abbiamo accumulato per la lotta. Un ulteriore effetto della disputa è l’identificare la “libertà” con l’affermazione e la realizzazione degli interessi personali. La libertà del carcerato.

Questa è la concatenazione del circolo vizioso, tutti ne siamo coinvolti e partecipi, è solo una questione di tempo. Non si sa se siamo governati dalla legge del divenire o da quella del risentimento. Sarà l’inconsapevolezza, sarà la cattiva coscienza, tutto sembra propenso a renderci adoratori di idoli – la fede nell’evidenza dei fatti innalza surrogati del reale, il vitello d’oro rende più di un Dio. Non ci sarebbe nulla da meravigliarsi se ciò riguardasse solo la vita pratica, ma quando una simile condotta invade il campo dello spirito, l’esistenza assume il suo aspetto più tralignante, nauseabondo.

Prima di definire presuntuosamente cosa sia la giovinezza, c’intratteniamo con l’intasato argomento della cultura.

Nella condivisione e nella crescita della sensibilità interiore, l’arte tout court occupa una posizione privilegiata, per non dire ambiziosa. Poco più che alfabetizzati con lode, si elaborano ricette da gettare in pasto agli avventori di musei e pubblicazioni (oggi va tanto di moda svelare i segreti dei grandi artisti, con la lettura). Con questo metro si misurano le opere, con la disgraziata conseguenza di scambiare il piacevole con la bellezza e l’emozione con la certezza di valore artistico. Nell’ambito più pratico ciò avviene, per esempio, quando dal semplice interesse per la pittura si passa direttamente a maneggiare pennelli e colori, con la disinvolta richiesta di riconoscimento (ci  si riferisce ai livelli superiori della cultura, il bricolage ricreativo è dispensato da ogni giudizio, ci mancherebbe). Onde evitare equivoci, incontriamo di sfuggita un mito divinizzato dell’arte, cercando a nostro discapito di renderlo umano tra gli umani. L’unico inconveniente è che non si tratta di una risorsa del territorio.

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Raffaello ha 537 anni ed è giovane come pochi. Senza addentrarci nel merito della sua formazione culturale – chi vuole può colmare la curiosità con google – tracciamo brevemente i risvolti del suo percorso pittorico: dal ducato di Urbino all’Umbria mistica e serena del Perugino; dall’affollata bellezza neoplatonica di Firenze, tutta intrisa di dinamismo classicheggiante, fino al traguardo romano, dove sarà la fiamma di Michelangelo a incendiare il suo ultimo entusiasmo creativo.

Per gusto personale, vorrei dedicare alcune impressioni a un tema fortunato del giovane pittore (si escludono per ovvie ragioni riferimenti alla tecnica dell’esecuzione pittorica, troppo complessa e impraticabile). Era di maggio, da sempre il mese della madre divina, e di madonne Raffaello ne ha dipinte di magnifiche. Tra le tante rappresentazioni mariane, sono celebri quelle degli anni fiorentini, ancora rivolte ai suggerimenti aulici del ‘400. Al di là della risaputa armonia formale – esercizi compositivi da accademie di belle arti –, meritano di essere evidenziate le qualità che ne fanno realmente delle meraviglie, e mi riferisco alle necessità intime e interiori emerse dall’ispirazione e alla capacità di tradurle (gli altri sono liberi di vedere semplicemente madonne e santi, nei casi più elevati si può sostare nelle pastoie del linguaggio). A Firenze il sentimentalismo e la semplicità lineare della poetica umbra diventano meno monotoni e stereotipati, inseriti in una dinamica compositiva chiara e stabile.

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Il modello pittorico di queste maternità è da ricercare nelle prove leonardesche, ma, rispetto al Maestro fiorentino, le madonne di Raffaello si adagiano su una dimensione più distesa, racchiuse allo stesso tempo in una più severa architettura formale. La pittura del giovane “apprendista” si realizza in una profondità spirituale meno tormentata, il suo mondo espressivo tende ad essere calato in una perfezione più terrena, raggiungendo un equilibrio figurativo raramente perseguibile, dove la vastità dello spazio e l’agire umano si compenetrano e si armonizzano perfettamente nell’intuizione del sentimento sacro della vita. Raffaello ha reso concreta e meno ascetica l’ispirazione celeste di Leonardo, tramite una bellezza ferma e definita. Quelle figure, colte nel rito di passaggio dalla vergine fanciulla alla giovane donna, sono il frutto di intuizioni d’intelligenza raffinatissima e accorta – certo non folgorazione improvvisa – come lo è la singolarità e la compiutezza stilistica di Raffaello. Una rievocazione di quelle giovani ragazze la ritroviamo in uno dei tondi allegorici della Segnatura, a Roma: la personificazione della “Poesia”, commentata dalla citazione virgiliana “Numine Afflatur”. Con questa epigrafe coroniamo tutta l’arte di Raffaello.

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Io mi servo di certa idea che mi viene nella mente. Se questa ha in sé alcuna eccellenza d’arte, io non so”. Così parlava l’umiltà di un giovane di fronte al suo operato. A seppellire i dubbi di Raffaello ci penseranno i secoli successivi con fiumi di libri, di teoria e critica d’arte, e tante idee appese ai muri. Uno degli esiti del dialogo tra noi moderni e la sua opera è il restauro della “Madonna del cardellino”, accuratamente lavata e ripristinata. L’intervento di pulitura ha smorzato la coesione tra il sentimento degli elementi figurativi e la densità atmosferica dello spazio, consegnandoci una Madonna bella e ritagliata, come piace a noi. Una bomboniera fresca fresca, dipinta con coloracci acrilici, adatta al nostro mondo fumettistico dagli occhi digitalizzati.

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Giocando con la vanità erudita, è possibile tracciare un parallelo tra Raffaello e Mozart. Oltre alla giovane morte, li accomuna un identico destino spirituale, soprattutto il talento nell’assorbire in perfezione espressiva ciò che si vede e si ascolta. Anche se distanti nel tempo e differenti nella materia artistica, le due anime apollinee radunano le membra sparse e variopinte del mondo in un unico corpo splendente, con la rara capacità di trasformare la grazia in bellezza. Per questo omaggerei entrambi, anacronisticamente, con un verso scritto dal padre di Raffaello stesso – Giovanni Santi – scritto nel 1483 e dedicato in origine al Perugino e a Leonardo: “Due giovin par d’etade e par d’amori”.

Con Raffaello il rinascimento raggiunge la maturità del suo programma artistico. In un’epoca che  ha privilegiato la potenza delle forme, la magia della pittura sancisce la superiorità espressiva del visibile, un misticismo mediterraneo solcato da visioni caleidoscopiche. Quella del rinascimento è una rivelazione plastica del mondo e della vita, un’età di esagerata produzione di opere elaboratissime – ci sarebbero bastati alcuni disegni per farne una superiore civiltà culturale. Come officina sperimentale dell’uomo nuovo, la parabola miracolosa del rinascimento si spegne nel rogo di Campo de’ Fiori, gli eroici furori si estinguono per accendere i cuori dei cannocchialai: inizia l’era dei demolitori di antichi cimiteri, fossero anche altari di vecchi Dei ornamentali, amanti di pitture e di sculture.

Allora, questa giovinezza, questa età sospesa in cerca di una posizione stabile e sicura, ma negata, dove si annida, dove la rintracciamo? Cos’è? Vigore fisico, pelle tirata sulle carni ancora allettanti? Che umiliante bottino, basterebbe il trascorrere di alcune stagioni per ritrovarci avvizziti e patetici. Oppure è un prodigioso camminare sui gomiti, su una strada ingolfata dagli “adesso tocca a noi”, “questa è la nostra occasione”, dal pippone ipocrita del “bisogna dare spazio”? Tutto lascia pensare a una paura indotta da vecchi guardoni su anime candide, prima che vengano violate dal tempo biologico. Ma la parola che più di ogni altra serve ad adescare i giovani è “cultura”, imbuto semantico per trangugiare brodaglie d’erudizione, altrimenti imbevibili.

Una cultura degna di questo nome dovrebbe acquisire uno sguardo penetrante sulla vita intera, un occhio affilato sulla pena del mondo, capace di far emergere il cuore celato della gioia abissale della vita. L’oro è il colore del mondo. Giovane è chi infonde dolcezza nelle ore cadenti del giorno, durante la frescura salente delle ombre. È un tenero virgulto accerchiato da rami secchi, vigoroso nello slancio e vulnerabile nel pantano dell’effimero. Prima che le fibre vengano soffocate dalle carezze di matrone decrepite, pagate l’obolo a Cesare, finché è lecito; dopo girate a largo, perché di Cesare sono rimaste solamente le fauci spalancate sulle finanze. Sarà giovane colui che ha piantato le sue radici nel cielo per farne un giardino sulla terra. La giovinezza non è un dato anagrafico, un certificato scritto su una pagina bianca strappata dall’intera esistenza. È bella perché fa parte di un tutto, è un movimento che serba in sé ogni età della nostra vita: nel giovane c’è il padre di domani, nell’uomo autentico il bambino ritrovato. Giovani si diventa. Nel frattempo, mentre intrecciate fiori sulle teste nude al sole, cercate di scorgere la bellezza d’argento nascosta tra i capelli, a debita distanza dal commercio degli uomini.

Francesco Lorusso (ass. Camera Cromatica)