A due giorni dalla discovery degli atti che hanno svelato quel che accadeva nella stazione carabinieri Levante di Piacenza, con chi doveva difendere la legalità accusato di reati pesantissimi che arrivano fino alla tortura, salta l’intera catena di comando della cittadina emiliana: il comando generale dell’Arma trasferisce ad altro incarico il comandante provinciale, il tenente colonnello Stefano Savo arrivato alla fine del 2019 in Emilia, il tenente colonnello Marco Iannucci, comandante del reparto operativo e il capitano Giuseppe Pischedda, che fino a ieri mattina guidava il nucleo investigativo.
L’azzeramento dei vertici locali non arriva inatteso ed anzi era scontato, anche se i tre non sono al momento coinvolti nell’indagine della procura piacentina e della Guardia di Finanza. Fonti dell’Arma sottolineano che la decisione di trasferire gli ufficiali, tra l’altro condivisa e approvata dallo stesso colonnello Savo nell’interesse del Corpo, ha un duplice scopo: agevolare il «sereno e regolare svolgimento delle attività di servizio» per coloro che subentreranno nelle prossime ore ai vertici locali e agli otto militari che sono stati mandati a sostituire quelli arrestati, e per recuperare il rapporto di fiducia con i cittadini, compromesso dalle gesta dell’appuntato Giuseppe Montella e dei suoi complici. Un avvicendamento, insomma, «per garantire a tutti» quella tranquillità necessaria che è invece sparita con gli arresti di mercoledì.
I finanzieri hanno già cominciato ad analizzare tutti gli ordini di servizio e tutta la documentazione sequestrata nella caserma Levante, tra cui l’encomio solenne che nel 2018 venne dato dal comandante della Legione Emilia-Romagna nel corso della festa dei Carabinieri proprio alla stazione dei militari infedeli. «Per essersi distinti – diceva la motivazione – per il ragguardevole impegno operativo ed istituzionale e per i risultati conseguiti, soprattutto nell’attività di contrasto al fenomeno dello spaccio di sostanze stupefacenti».
Dal Gip intanto sono comparsi i primi arrestati, oltre ad alcuni spacciatori, sono stati sentiti l’appuntato scelto Angelo Esposito e il carabiniere Daniele Spagnolo. «Ho eseguito degli ordini e non ho mai saputo del disegno» di Montella e gli altri, si sarebbe difeso quest’ultimo. Difficile da credere, che in una caserma così piccola, si potesse non vedere.
L’inizio della fine per Giuseppe Montella e i carabinieri suoi sodali comincia lo scorso 16 aprile, quando l’appuntato napoletano che pensava di vivere come in Gomorra scopre la cimice piazzata dalla Guardia di Finanza nella sua Audi A4. Poi, dopo l’apparecchio sulla sua vettura, gli indagati ne scoprono altri tre nel giro di 24 ore. Scrive il Gip: ((Montella con la solita tracotanza, si dichiara convinto di non aver fatto nulla di male». A ritrovare la microspia sull’auto di Montella è Simone Giardino, originario di Vieste, uno dei fratelli coinvolti nello spaccio, dopo che il carabiniere gliela porta in officina per controllare «un rumore che non aveva mai sentito».