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IL RISORGIMENTO DAUNO NEI MOTI DEI CARBONARI. NEL 1820 E 1821 DOPO LA RIVOLTA GUIDATA DA PEPE

Nei primi giorni del luglio 1820, le strade della Capitanata che portavano al capoluogo erano insolitamente affollate di gente, armata alla men peggio, che dai centri della provincia, dal Gargano e dai Monti Dauni si dirigeva a Foggia. Erano i Carbonari che, non senza emozione, vedevano finalmente giunto il momento tanto atteso e pun­tigliosamente preparato. Stavano per spezzare “i ferri della schiavitù”. Era giunta l’ora della ri­voluzione per abbattere l’assolutismo borbonico e ottenere “il politico cambiamento”. Volevano la Costituzione spagnola del 1812. Scriveva in quei giorni Gaetano Rodino, uno dei protagonisti: «La Capitanata fa per ovunque risonare il grido sospirato d’indipendenza e di costituzione».

Ricorre quest’anno il bicentenario dei moti car­bonari del 1820-1821 che rischia di passare quasi inosservato a causa del Covid-19. Se ciò dovesse accadere sarebbe una vera iattura in tempi come i nostri, in cui la memoria è corta, volutamente selettiva, e perciò monca e ambigua. La rivo­luzione che nel “Nonimestre” tra il 1820 e il 1821 scosse il Regno delle Due Sicilie fu un evento di portata europea che mise in discussione il suc­cesso della Restaurazione e il disegno del principe di Mettemich nella penisola. Il rilevante con­tributo dato dal movimento carbonaro della Ca­pitanata alla rivolta viene messo sempre più in evidenza da recenti acquisizioni archivistiche. La laboriosa fase preparativa (Foggia “si era messa a rumore” prima che vi fosse la diserzione di Nola), gli agitati e caotici mesi costituzionali e soprat­tutto l’intensa attività cospirativa messa in atto durante la dura repressione borbonica (durò fino al 1830) videro in primo piano gli “empi soggetti” e i “facinorosi sicari” della provincia, uomini te­naci (Barbarisi, Vitale, Iacuzio, Vernisi, Cavalli, Rodino, Cassitti e tanti altri) che non accettarono nel 1821 il ripristino dell’assolutismo e affron­tarono con coraggio e dignità le persecuzioni di­rette dal temibile ministro di polizia Nicola In­tonti (già Intendente a Foggia, da cui fuggì di notte per evitare la morte) contro chi aveva collaborato con il legittimo governo costituzionale.

Nella Capitanata il numero delle vendite Car­bonare nel 1820 era segnatamente consistente (i dati ufficiali parlano di 66 vendite con 4.833 iscritti su una popolazione complessiva di 111.337 abi­tanti) e tutte facevano capo alle tre “Tribù”: l’Arpense, “del Valore” e “del Vallo Illuminato” con sede rispettivamente a Foggia, San Severo e Bo­vino. La sommossa ebbe inizio a Nola la notte tra il 1° e il 2 luglio 1820. A guidarla c’erano il tenente Michele Morelli e il sottotenente Giu­seppe Silvati, del Reggimento di Ca­valleria Borbone, che inizialmente di­sponevano di 130 uomini e 20 ufficiali che avevano disertato. Le forze ri­voluzionarie (tra cui anche i legionari di Capitanata al comando del colon­nello marchese Orazio Salerai di Ro­se e del maggiore Michelangelo del Sordo) confluirono tutte a Monteforte e passarono sotto il comando del ge­nerale Guglielmo Pepe. La sconfitta alle gole di Antrodoco ad opera degli austriaci del generale Frimont pose fine alla “stolta illusione” e segnò l’inizio di inesorabili persecuzioni po­litiche che privarono il Mezzogiorno della preziosa opera di intellettuali e politici di considerevole levatura, co­stretti all’esilio per salvare la vita. Morelli venne catturato a Chieuti, soggiornò per poche ore nelle prigioni di San Severo e fu condotto prima a Foggia e poi a Napoli, dove fu giustiziato insieme a Silvati. La reazione fu durissima, le “giunte di scrutinio” non rispar­miarono nessuno. Molti furono perseguitati per lunghi anni, altri preferirono l’esilio, altri ancora morirono nelle carceri borboniche.

Cito solo due nomi (ma tanti ancora ve ne sono) di eroi sconosciuti ai più. Il sacerdote Paolo Vernisi, ostinato paladino del governo costituzio­nale, che, nonostante fosse malato di tubercolosi fu lasciato morire nelle carceri di Lucerà, e Vin­cenzo Cavalli che riuscì a eludere la stretta sorveglianza della polizia e a raggiungere Cadice per portare a Foggia una copia della Costituzione spagnola del 1812. Ritornò in patria contro ogni previsione e trascorse quasi tutta la sua vita nelle prigioni borboniche. Morì nelle tetre carceri di Montefusco. Sono piccole “storie dì uomini” che quasi si perdono nel groviglio della “grande sto­ria” e rendono profondamente umani i grandi avvenimenti. Episodi di storia minore che hanno fatto dei carbonari e della Carboneria i «modelli mitici della generazione risorgimentale» e ci rac­contano una prospettiva della società e della politica dell’Ottocento meridionale.

Giuseppe Clemente

gazzettamezzogiorno