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“…UN GRECO A VICO NEL 1793”

Vi proponiamo un interessante articolo, curato dal vichese avv. Antonio Leo de Petris, cultore di storia locale, che ci regala ancora una volta, uno spaccato del nostro passato da leggere, approfondire, divulgare…

Tracce di presenza slava nella popolazione vicana attraverso le fonti antiche, gli stati delle anime e i libri dei battezzati

Avv. Antonio Leo de Petris

Sono noti, alla storiografia che si è occupata di cose patrie, e almeno in linea generale, i ricorrenti e millenari rapporti che hanno unito le due sponde dell’Adriatico.

È risaputo, sebbene l’evento manchi di appropriate conferme documentali, come la fondazione di Vico – ma, come avvertiva il Mattei nella Statistica richiamando la notizia fornita da Pompeo Sarnelli, sarebbe certo più opportuno discorrere di “riedificazione” e “riunione” di sparsi pagi attorno a un nucleo che sarebbe divenuto la Civita – sia collocata attorno all’anno 970 e fatta risalire all’opera di Sueripolo, duce degli Slavi che, su invito di Ottone I, si era adoperato per il discaccio dei Saraceni dal Monte Gargano.

Come si è già accennato, tuttavia, non vi è alcuna possibilità di verificare la notizia, così come riportata dal Sarnelli, per mezzo di concreti riferimenti nelle fonti, tanto che, in tempi più recenti, non si è mancato di ipotizzare come anche Vico sia il frutto di una vera e propria opera fondazionale posta in essere da popolazioni slave – provenienti dall’Isola di Lastovo (distante circa 100 Km dalle coste del Gargano) – che erano state da quel luogo scacciate, a mo’ di punizione per l’attività corsara che avrebbero svolto, dalla flotta veneziana agli ordini del Doge Pietro II Orseolo intorno all’anno Mille (v., per tale congettura, l’interessante saggio di N.K. Zrinka, Slavs but not Slaves: Slavic Migrations to Southern Italy in the Early and High Middle Ages, in M. O’Doherty, F. Schmieder [eds.], Travels and Mobilities in the Middle Ages: From the Atlantic to the Black Sea, Turnhout 2015, p. 267 e ss.).

Sebbene l’ipotesi da ultimo ricordata sia verosimile, è certo assai curioso che il Sarnelli – ripreso successivamente, sia pure in tono dubitativo, dal Mattei – abbia fornito una data precisa (il 970, appunto) traendola dal nulla. Appare invero più verosimile che egli abbia potuto fruire di una fonte, a noi ignota, che di tal data faceva espressa menzione. D’altro canto, è fuor di dubbio come il territorio vicano fosse caratterizzato dalla presenza di plurimi e sparsi insediamenti che, a causa dell’insicurezza regnante in quel torno di tempo assai turbolento, si sarebbero ben potuti dotare – con ogni probabilità dietro impulso di un dux – di una comune struttura di difesa caratterizzata dalla riunione delle varie comunità in un sito unico (spazialmente collocato in una posizione difensiva appropriata) e dalla costruzione di un primo embrionale edificio a uso di fortilizio.

D’altro canto, a rafforzare la tradizionale visione “epica” del duce slavo Sueripolo, contribuisce la ben più certa conquista di Siponto, nel 962, quindi in una data di poco anteriore rispetto a quella in cui il predetto Sueripolo avrebbe “fondato” Vico (970), da parte di Michele Visevic, rex sclavorum. Tale episodio, evidentemente, rende alquanto verosimile una similare opera di “conquista” e riunione di popolazioni anche nell’entroterra garganico.

Risulta fuor di dubbio, comunque, come sin dai primissimi documenti attestanti l’esistenza del castrum Vici, popolazioni stanziali – vale a dire presenti ab origine nel territorio – coesistessero con genti di provenienza slava.

Un documento, risalente all’aprile 1113, che si può leggere nell’edizione del Regesto di San Leonardo di Siponto a cura di F. Camobreco – precisamente la charta n. 1 che rappresenta l’instrumentum all’uopo confezionato per la donazione operata dal signore normanno di Vico, Guarino de Ollia, in favore della Chiesa di S. Pietro – corrobora ulteriormente tale ultima congettura. Ivi compaiono, infatti, personaggi con nomi di chiara origine illirica (o comunque orientale): vi si fa menzione di un tale Bidanga, figlio di Bratanla, così come di Poto, filio Ivani, cioè figlio di Ivano. E, tra i testimoni all’atto, appare un tale Milicciu.

D’altro canto, e forse ancor più della predetta charta, è assai significativa quella collocata dal Camobreco al n. 30 del Regesto, datata febbraio 1151 ove compaiono quali parti dell’atto che si stava stipulando il presbitero Ibano, oltre a Rada (figlio di Beladrago) e a sua figlia, Basilia. Inoltre, qui appare per la prima volta anche un toponimo di chiara origine illirica: l’Acqua di Tesidrago (aqua Tesidragi).

Ancora, nella charta n. 202 dell’edizione di Camobreco, datata più precisamente al 26 marzo 1264, sebbene non compaiano nomi propri come in precedenza, vengono ricordati alcuni altri toponimi di chiara impronta slava: l’Acqua di Saldrago (aqua Saldragi) e “unam terram in monte Priviczi”. Diversamente, non ritengo di poter affermare con certezza che la medesima origine linguistica debba essere attribuita anche al toponimo Gadesona (che farei corrispondere, peraltro, alla contrada oggi denominata Gadescia).

Come si è visto, e a prescindere dall’ipotesi che si ritiene più corretta circa la fondazione di Vico, un dato è assolutamente certo: il susseguirsi, assai risalente nel tempo, di rapporti intercorrenti tra le genti dimoranti sul Monte Gargano e quelle illiriche provenienti dalla Schiavonia. D’altronde, e per giungere a un periodo relativamente più vicino nel tempo può ricordarsi, vieppiù, come sia documentalmente accertata, a partire almeno dal 1553, la presenza di veri e propri “consolati” ragusei – preposti alla cura degli interessi commerciali e diplomatici della potente Repubblica di Ragusa – a Peschici e a Vieste (sul punto v. il fondamentale studio di G. Martella, Consoli e consolati ragusei a Peschici e a Vieste, Rodi Garganico 1987, p. 18 e passim).

Per focalizzare nuovamente l’attenzione sul territorio vicano, peraltro, è certamente opportuno richiamare alla memoria un documento, di notevole interesse, che contribuisce a gettare ulteriore luce sulla presenza slava a Vico.

Mi riferisco, segnatamente, alla “Conventio inter Universitatem Terrae Vici et Universitatem Casalis ex Prothocollo anni 1607. Notarii Annibalis Pascharellis apud Notar. Claudio de Ambrosio”, risalente al 23 settembre 1607.

Prima di soffermare l’attenzione sull’anzidetto documento è forse opportuno ricordare come il Casale ospitasse, all’inizio del secolo XVII, genti provenienti dai territori illirici, di estrazione sociale ragguardevole, che, secondo il Mattei, erano state “gittate da burrasca di mare a questi lidi” (probabilmente mentre fuggivano dal Gran Turco che metteva a ferro e fuoco i territori di provenienza). Sempre secondo il Mattei, il predetto rione sarebbe stato edificato due secoli addietro rispetto alla data in cui egli scriveva, cioè al 1837.

Ebbene. Il predetto documento – un commento del quale, particolarmente approfondito, è a firma di N.M. Basso, 23 settembre 1607: il Casale e l’Università di Vico, in Anni di Scuola, Vico del Gargano 1989, p. 45 e ss. – costituisce un esempio lampante di integrazione tra popolazioni di etnia differente che, sino alla data di stipula della Conventio, avevano vissuto in tutto separate. E infatti, come chiaramente appare dall’uso del termine Universitas (rispettivamente, Casalis e Terrae Vici), il “quartiere” Casale era considerato una comunità giuridicamente distinta e autonoma, tanto che, per mezzo della Conventio a rogito del notaio Annibale Pascarellis, l’Università di Vico – attraverso i propri deputati muniti del potere di rappresentanza, i dottori Isidoro Mastromatteo e Antonio dell’Armi – decideva di aggregare e unire a sé quella del Casale. Non sarà inutile ricordare i nomi dei deputati dell’Università del Casale: Marco Boccuto, Antonio Bucciolino, Joanne Maladino e Donato de Matasso: tutti, evidentemente, di origine illirica.

Ma ciò, evidentemente, ancora non è sufficiente. Un necessario (e sia pure sintetico) riferimento deve essere fatto ai dati che si possono trarre dal Liber primus baptizatorum relativo all’anno 1624 e conservato presso l’Archivio capitolare della nostra Chiesa Madre. E così, il giorno 6 gennaio 1624, il Sacerdote Don Cataldus Basilius battezzava il figlio di Dominicus de Milicchio e di Tomasa de Anella, entrambi coniugi “Casalis huius terrae Vici” (Liber primus baptizatorum, fol. 3r). E ancora, il 13 febbraio 1624, il Sacerdote Angelus Dattilus battezzava la figlia di Gregorius de Milicchio e di Gustanza Cornacchia che, pure, erano coniugi “Casalis terrae Vici” (Liber primus baptizatorum, fol. 4v.). Per concludere, è assai significativo fare riferimento al battesimo, somministrato nella medesima data del precedente, dal Sacerdote Angelus de Cilento. In tale occasione, infatti, era stato battezzato il figlio di Franciscus de Scibinico e di Gratia de Carbone, coniugi sempre “Casalis terrae Vici” (Liber primus baptizatorum, fol. 5r). D’altro canto, e per queste due ultime segnalazioni ringrazio l’amico Nicola Parisi, è opportuno richiamare l’Indice di ciascun Libro della Scheda Parrocchiale di Vico sino all’Erezione della Nuova Parrocchia, compilato nell’anno 1848 dall’Arciprete Antonio Maselli e sempre conservato presso l’Archivio Capitolare della Chiesa Madre. A questo riguardo, più in particolare, vanno segnalati alcuni significativi nomi di nubendi, di chiara origine slava: nella serie dei matrimoni celebrati tra gli anni 1667 e 1695 compaiono, difatti, una tal Francesca d’Usmanich (Indice di ciascun Libro, fol. 53 [f. 10 del corrispondente Registro di matrimonio]) e, più innanzi, un tale Giacomo Portaut (Indice di ciascun Libro, fol. 49 [fol. 56 del corrispondente Registro di matrimonio]). Quest’ultimo – come si apprende Libro dello Stato delle Anime per l’anno 1680, Borgo, sub lett. P, n. 492 – figlio di Simone Portaut e Margarita Scomicchio, di Dalmazia.

La complessiva analisi del Liber in questione (e dell’Indice di ciascun Libro della Scheda Parrocchiale poc’anzi ricordato) permette di trarre alcune fondamentali conclusioni che meriterebbero ulteriore e maggiore approfondimento.

Da un lato, infatti, è chiara la presenza illirica ancora nell’anno 1624, come si deduce chiaramente dai cognomi prima riportati: de Milicchio – che, lo si noti incidentalmente, ricorda quello di uno dei personaggi (Milicciu) che aveva funto da testimone nell’atto raccolto al numero 1 del Regesto di San Leonardo di Siponto e risalente al 1113, ciò che mi indurrebbe a ipotizzare, il che è assai significativo, una continuità genealogica perpetratasi nel corso dei secoli (potrebbe credersi, così, che Gregorius de Milicchio fosse un discendente in linea maschile di Milicciu, di cui conservava il ricordo nel cognome patronimico) – de Scibinico, indicante, evidentemente, la provenienza da Sebenico, attuale Città croata (per una ulteriore carrellata di esempi v. N.M. Basso, 23 settembre 1607: il Casale e l’Università di Vico, cit., p. 48).

Peraltro, qualora si voglia ritenere corretta l’ipotesi di una identità genealogica di discendenza tra Milicciu e Gregorius de Milicchio, diverrà più arduo pensare a un fortunoso arrivo (come asseriva il Mattei a causa di una tempesta in mare che ne avrebbe forzato l’attracco) di tali popolazioni slave sulle coste del Gargano. In tal senso, allora, sarà più plausibile credere a una continuità di rapporti – di natura non solo commerciale e caratterizzati dal continuo arrivo di nuclei familiari, appartenenti a una medesima “gens”, presso parenti già presenti da secoli a Vico – che avrebbe avuto durata plurisecolare.

Inoltre, e sempre incidentalmente, si noti come, pur a fronte della Conventio datata 23 settembre 1607 – che, lo si ripete, aveva giuridicamente “fuso” due entità prima distinte – il Liber primus baptizatorum continuava a specificare la provenienza dei genitori dei battezzati, precisando sempre, nei casi di nati presso il Casale, come essi provenissero dal predetto “rione” (una simile precisazione, invece, non si rinviene ove si tratti di battesimi di infanti nati in altri quartieri cittadini). Tale fenomeno potrebbe derivare, in verità, o dalla prassi ab antiquo invalsa nei sacerdoti che annotavano i battesimi o, ancora, dall’orgoglio identitario di quanti ivi dimoravano (si è evidenziato, ciò che il Mattei chiaramente asserisce, come le famiglie slave presenti fossero di elevata estrazione sociale) o da possibili resistenze all’assimilazione provenienti da entrambe le parti o, in ultimo, da una combinazione di tutte queste motivazioni.

Per concludere la ricerca “empirica” riguardante le testimonianze della presenza illirica nel nostro Comune, converrà ora segnalare alcuni casi di particolare importanza che possono trarsi dai cc.dd. Libri degli Stati delle Anime, sempre conservati presso l’Archivio capitolare della Chiesa Madre.

Purtroppo, e tale stato di fatto causa non pochi inconvenienti nella ricerca storiografica, non sono disponibili i Libri relativi ai primi anni del secolo XVII (per intenderci, quelli corrispondenti alla stipula della Conventio).

E tuttavia, una breve ricerca nel primo Libro disponibile – che purtroppo è a noi pervenuto frammentario in alcune parti – relativo all’anno 1680, rende evidente la presenza di cognomi toponimici, come quello di Antonia, figlia di Gio. Raguseo (che, evidentemente, indica la provenienza dalla Repubblica di Ragusa) e di cognomi tipicamente slavi, come quello di Nuntia Cornacchia (Libro dello Stato delle Anime per l’anno 1680, Casale, sub lett. V, n. 602).

Peraltro, nella compilazione del Libro si procedeva spesse volte ad annotare la provenienza dei capifamiglia (evidentemente giunti con il nucleo familiare al seguito da poco tempo): è il caso emblematico, risalente all’anno 1697 (Libro dello Stato delle Anime per l’anno 1697, Civita, sub lett. C, n. 162) di Gio. Candido, che esplicitamente viene indicato come proveniente da Ragusa (la famiglia Candido, successivamente, contrasse in Vico importanti matrimoni, unendosi, per poi definitivamente estinguersi, con esponenti di primarie famiglie cittadine).

E tuttavia, come ora si mostrerà, i rapporti con altri popoli non si esaurivano nel continuo interscambio con le nazioni di etnia slava ma si estendevano, anche, alla vicina penisola ellenica. E così, nell’anno del Signore 1793, si trova censito a Vico Domenico Demetria Gazzoia, proveniente da Giannina – cittadina dell’Epiro, regione greca al confine con l’Albania – che, come viene specificato dal redattore, era prima “greco scismatico” e poi si era “fatto cattolico” (Libro dello Stato delle Anime per l’anno 1793, Borgo, sub lett. G, n. 1). È impossibile documentare quali affari avessero portato un greco presso la nostra Cittadina. Sappiamo solo che egli era stato in precedenza un cristiano di rito greco (in questo senso va inteso l’aggettivo “scismatico”), successivamente convertitosi al cattolicesimo.

Non si può che concludere, dopo questa succinta elencazione di esempi che ci offrono le fonti, come sia sempre più necessario approfondire – attraverso una analitica indagine sui documenti superstiti (specialmente i Libri dei battesimi e quelli relativi ai cc.dd. Stati delle Anime) – la plurisecolare storia dei rapporti tra il nostro Promontorio e le Nazioni prospicienti l’altra sponda dell’Adriatico, intercorsi nel segno dell’integrazione tra popoli e culture uniti dalla comune matrice cristiana.