Menu Chiudi

VIESTE/ VIAGGIO NEGLI ANNI DAL 1943 AL 2013 (3)

L’ARMISTIZIO, DALLA DALMAZIA ARRIVANO SOLDATI ITALIANI SBANDATI E DAL SUD SOLDATI TEDESCHI DIRETTI A CATTURARLI

Nel mese di settembre gli eventi precipitano. Il 3 gli eserciti alleati passano lo stretto di Messina e mettono piede in Calabria. Il giorno 8 la radio annuncia la resa dell’Italia e la firma dell’armistizio. L’esercito si disgrega.

I soldati presenti sul suolo nazionale e nelle regioni confinanti lasciano le armi e prendono la via di casa. La divisione corazzata tedesca che prima della resa già combatteva in Sicilia a fianco degli italiani, ripiega lentamente, opponendo tenace resistenza.

Durante la ritirata, il giorno 16, una sua colonna volge su Vieste per disarmare i militari italiani sbandati, che da cinque/sei giorni giungono dalla Iugoslavia, via mare, con motobarche di ogni tipo, piccole e grandi. Si fa ascendere il loro numero a circa 3.000, che si spargono nel paese e per le campagne.

I viestani si prodigano ad aiutarli, soprattutto fornendo abiti civili. Il pomeriggio una camionetta con una decina di soldati tedeschi entra in paese. L’ufficiale che guida il drappello si fa indicare il militare italiano più alto in grado.

E’ un colonnello. Avvicinatosi, gli chiede la resa degli uomini e la consegna delle armi. Deciso rifiuto del colonnello. I tedeschi risalgono sulla camionetta e ripartono. “Sopra la Rena” hanno uno scontro a fuoco con gli italiani. Perderanno la vita un soldato tedesco e un carabiniere italiano.

Durante la notte i militari italiani si dileguano da Vieste. La mattina dopo i tedeschi ritornano in forze, in autocolonna con autoblindo. Si distribuiscono in coppie e perlustrano il paese. Trovano e catturano una ventina di nostri soldati e due civili viestani, il falegname Ninino Caizzi (18 anni) e Sante Simone (16 anni), che vengono riuniti e vigilati da un militare col mitra in mano, sul marciapiede di Piazza (oggi) Kennedy, vicino la sede (allora) del Banco di Napoli (oggi Monte dei Paschi di Siena). Passiamo vicino a loro. Il tedesco ci ha visti e non ha detto niente.

Suggeriamo ai due paesani, a volo, di unirsi a noi, quando ripasseremo, nel momento in cui il tedesco guarda altrove. Ripassiamo qualche minuto dopo. Non hanno il coraggio di farlo, è troppo rischioso. Ce lo diranno a vicenda conclusa, dalla quale usciranno comunque senza danno.

Infatti, dopo un incontro chiarificatore tra il podestà di Vieste Carlo Mafrolla e il colonnello comandante l’autocolonna, i tedeschi rilasciano i civili. Si limitano a rastrellare armi e munizioni, che accatastano nella Piazza del Fosso.

Il pomeriggio buttano tutto a mare, alla banchina, in prossimità dello “Spacco Rosinella”. In piazza, un ufficiale legge in italiano un volantino col quale impone il coprifuoco alla città. Poi risalgono sulle macchine e se e vanno. Oltre a quanto detto, lasciano il ricordo di qualche furterello compiuto e di qualche altro impedito dal comandante. Portano con loro, prigionieri, i pochi soldati italiani catturati.

Qualche giorno dopo, vicino la Punta di S. Francesco, aerei non identificati mitragliano due motobarche con militari e civili a bordo, dirett a sud.

Le motobarche accostano alla riva. Vengono sbarcate le sei persone uccise dal mitragliamento, tra cui un cappellano militare, e i feriti portati nella piccola infermeria comunale sita nella casa di riposo per anziani di Via Sante Naccarati, dove vengono assistiti amorevolmente dai medici della città.

E’ l’ultimo atto di guerra registrato a Vieste.

L’INCONTRO CON GLI EBREI

VENUTI DALLA JUGOSLAVIA

Nei giorni seguenti dalla Dalmazia giunge ancora qualche barca con militari italiani e civili italiani e iugoslavi. Una mattina, dopo uno degli ultimi arrivi mi trovo, insieme a due amici, sulla piazzetta antistante alla pescheria. A breve distanza, cinque-sei persone, uomini e donne parlano tra loro in lingua serbo-croata. Una signora del gruppo, sulla cinquantina, si avvicina a noi e in un italiano stentato ci chiede se ci sono servizi viaggiatori per Bari, dove intendono andare, avendo sentito alla radio che gli Alleati ci sono già. Penso di aver risposto che, con le operazioni di guerra in corso nella nostra regione, servizi regolari di linea non ve n’erano, si poteva solo tentare di arrivarci con mezzi di fortuna. Ricostruisco, per quel che ricordo, alcuni spezzoni del dialogo che seguì. Domando. “Da dove venite? “. Risposta: “Da Spalato”. – “Il motivo?” –. “Adesso che sono andati via i soldati italiani, la città è stata occupata dai tedeschi”. Un po’ sorpreso, domando ancora: “E per voi che differenza fa? Stranieri sono gli occupatori tedeschi di oggi e stranieri erano gli occupatori italiani di ieri”. Replica della signora: “Noi siamo ebrei, mio marito insegnava latino e greco al liceo di Belgrado. Quando i tedeschi hanno occupato la Serbia noi ci siamo trasferiti a Spalato, dove, come in tutta la Dalmazia, si erano insediati i militari italiani. Che ci hanno lasciato vivere in pace”. La conversazione finisce più o meno qui.

Ebrei ve n’erano stati nel passato anche a Vieste. Ce lo rammentano il nome di una strada del borgo antico, Via Iudeca, e un documento che menziona la loro esistenza qui nel XV secolo, andati via non si sa quando.

Noi giovani di allora sapevamo degli ebrei alcuni luoghi comuni che circolavano, storielle tendenti a metterli in cattiva luce, onde nel corso della storia, erano stati oggetto di vessazioni, persecuzioni, espulsioni ora in uno Stato ora in un altro.

Sapevamo anche, sebbene superficialmente, che in Germania avevano luogo delle manifestazioni contro di loro. Ma in Italia c’era solo chiacchiericcio. Sostanzialmente, ci si limitava a due pregiudizi: che avevano tradito Cristo e che erano tirchi e usurai. Per etichettare una persona di tale carattere, si diceva “è un ebreo, mi sembra un ebreo”. Parole che lasciavano il tempo che trovavano, perché di fatto i residenti in Itala erano italiani quanto i cattolici, per lingua, interessi, costumi, patriottismo. Tant’è vero che fino al 1938 lavorarono in tranquillità, intrattenendo normali relazioni con tutti.

Dal 1938, con la pubblicazione delle leggi razziali, gli ebrei italiani vennero messi gradualmente al bando, poiché contro di loro furono disposte restrizioni al lavoro intellettuale e alle attività economiche. Per quanto ricordo, l’assurdità di quelle leggi, il male che facevano furono percepiti confusamente dalla mia generazione – io allora avevo quattordici anni – e anche da coloro che giovani non erano più, perché in quel periodo eravamo frastornati dalla politica internazionale, le cui vicende già lasciavano presagire una nuova guerra. E’ vero che nella pratica attuazione le disposizioni governative non sempre furono applicate come dovuto, temperate da certe inclinazioni degli italiani, quali all’indulgenza, quali al menefreghismo e quali a impulso umanitario. Ciò non toglie che diedero luogo a situazioni umilianti di coloro che le subirono, e hanno costituito una pagina nera della nostra storia

Il peggio venne negli anni della seconda guerra mondiale, di cui quasi niente giunse allora alle orecchie degli italiani, cioè che i tedeschi, nei territori occupati, rastrellavano gli ebrei e li portavano in Germania, nei lager, con tutti i crimini a seguire dei quali sapemmo a guerra finita.

UNA VISITA DA BRIVIDI

A DOMICILIO

Per chiudere la pagina della giornata coi soldati tedeschi a Vieste, dirò un episodio raccontatomi dall’interessato: Angelo De Meo, per i famigliari e gli amici Ciulino.

La mattina in cui la nostra città fu occupata, Angelo, giovane allora sui trent’anni, si trovava nelle vicinanze della casa paterna quando sbirciò, lontano forse cinquanta metri, un soldato tedesco, figura nibelungica, mitra in spalla, che sembrava lo guardasse. Un motivo l’aveva per temere l’incontro, ed era la sua età, quella dei giovani sotto le armi, che i tedeschi prendevano prigionieri e portavano in Germania. Ebbe paura ed alzò il passo. La cosa non sfuggì all’altro, che s’insospettì e gli diede la voce. Angelo finse di non sentire, imboccò la strada di casa, infilò il suo portone, salì trafelato le scale, disse alla madre sorpresa e sconcertata: “I tedeschi!” e si ficcò vestito nel letto della seconda stanza.

Aveva ben ragione di fare in fretta. Il soldato tedesco infatti non lo aveva mollato. Individuato il portone salì sopra ed entrò nella casa. In piedi, vicino la credenza, scorse la madre di Angelo. Squadrò tutt’intorno. Non c’era che lei, una donna dall’aspetto dimesso che sfaccendava appresso a qualche cosa. Notò una porta chiusa. “Chi sta di là”, chiese con qualche parola e un po’ di mimica. E la donna dall’aspetto dimesso, resa accorta dalla circostanza, con lo stesso linguaggio: “Sss… rispose, portando l’indice alle labbra, dorme il bambino!”, e fece i dovuti gesti con le mani. Il tedesco capì, ma volle sincerarsene. Dischiuse la porta piano piano, appena di un palmo, ed effettivamente, subito di fronte intravide una culla con un bambino che vi dormiva, era il figlio della sorella sposata di Angelo, che, da quando il marito era stato richiamato sotto le armi, viveva con la madre. Si ritrasse delicatamente e chiuse la porta. Ciò che non poté vedere fu il letto grande situato più indietro nella stanza, dove si nascondeva il trepidante Angelo.

Dopo di che, gradì un bicchierino e un grappolo dell’uva preso nella zuppiera sul tavolo che gli offrì la buona donna, e se ne andò. Angelo si sentì salvo e ringraziò Iddio.

(3 — continua)

Ludovico Ragno

IL FARO settimanale