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ERAVAMO LADRI, SPORCHI E NERI. ERAVAMO GLI EMIGRATI DEL SUD NELLE MINIERE DEL BELGIO

Qualche tempo fa, seduto ad un bar, mi è capitato di ascoltare una conversazione sugli immigrati stranieri da parte di alcuni italiani. Non mi è sfuggito l’accento meridionale, inopportunamente “milanesizzato”, prodotto evidente di un sentimento di minorità, nonché tentativo maldestro tipico di cancellazione identitaria:
“Questi profughi puzzano anche perché non amano cambiarsi i vestiti e lavarsi, nonostante le organizzazioni che li ospitano a spese nostre li riforniscano di tutto l’occorrente. Vengono ospitati in alberghi a 4 stelle, ma preferiscono vivere in baracche di legno e cartone nelle periferie delle città o sotto i ponti. Quelli che riescono ad integrarsi e a trovare un lavoro, sottraendolo ai nostri figli, affittano alloggi vecchi e malandati, dove in pochi giorni diventano un numero incontrollabile. Parlano solo lingue incomprensibili e spediscono i propri figli – sempre numerosi nonostante dicano di non poterli mantenere – a chiedere l’elemosina, mentre loro sono soliti infastidire in ogni angolo le persone, lamentandosi e chiedendo di tutto con insistenza e spesso con toni minacciosi. Stupri, violenze, furti e rapine sono quasi sempre a loro addebitabili. Tutto questo caos e questa insicurezza è dovuta al nostro governo che, anziché lasciare le barche affondare, manda persino le nostre navi a salvarli. E poi almeno bisognerebbe selezionarli: i siriani, più simili a noi,potrebbero anche lasciarli passare, ma i “negri” proprio no, bisognerebbe ributtarli a mare”.

Mentre i miei vicini continuavano ad elaborate e rafforzare le loro tesi non volutamente razziste, continuando a respingere la tentazione di intervenire per spiegare termini ormai sconosciuti quali colonialismo, imperialismo, multinazionali, mi veniva in mente la Relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano dell’ottobre 1912, di cui molti contestano l’autenticità o, perlomeno, il fatto che sia stata scritta e letta per il Congresso. Tale relazione si riferiva ai circa 4 milioni di immigrati italiani che tra il 1885 e il 1911 avevano raggiunto gli Stati Uniti:

“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare fra coloro che entrano nel nostro Paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura,attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi,tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.
Anche noi, emigrati e figli di emigrati in Belgio a metà degli anni cinquanta, abbiamo vissuto nelle “baracche”. Anche noi eravamo ritenuti ladri, sporchi e neri. Spesso, lo eravamo per davvero, persino con orgoglio e fierezza.
Anche noi preferenzialmente «Abitavamo vicino alla stazione», perché come ha scritto il noto intellettuale calabrese Paolo Cinanni, prematuramente orfano di padre emigrato forzatamente a 13 anni a Torino nel 1929, la stazione era «il luogo da noi più frequentato perché era facile incontrarvi qualche conterraneo, e di tutta la grande città ci sembrava il luogo più vicino al nostro paese, quello da dove potevamo partire per raggiungerlo di nuovo».
Eravamo soprattutto dei poveracci provenienti da un antico mondo contadino straziato, vittime inconsapevoli di quella colonizzazione interna all’Italia che nefaste politiche fiscali e doganali avevano prodotto, rendendo noi sottoproletari e la nostra terra sottosviluppata.
Emigrati, profughi, richiedenti asilo politico, sono sempre il frutto di logiche coloniali e imperialistiche, che oggi, come ieri, avanzano e si fanno largo occultamente attraverso gli interessi di finanzieri e multinazionali.

Michele Eugenio Di Carlo