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VIESTE/ VIAGGIO NEGLI ANNI DAL 1943 AL 2013 – 18 APRILE 1948: ELEZIONI POLITICHE COME UN REFERENDUM – (9) –

Data la forte contrapposizione esistente, specialmente sulla politica internazionale, tra la Democrazia Cristiana con i partiti minori di centro-destra da una parte, e i partiti comunista e socialista, uniti nel Fronte Popolare dall’altra, quella votazione fu intesa per quello che effettivamente era: una scelta di campo fra i due blocchi. Uno, quello dei Paesi di antica democrazia fondata sulla libertà di opinione e di espressione e ad economia liberale, che si stava formando intorno agli Stati Uniti d’America; due, quello comunista dei Paesi ricadenti nell’area d’influenza dell’Unione Sovietica, confinanti con essa.

Eravamo stati abituati al tempo del fascismo a considerare gli italiani tutti della stessa idea, un popolo unito, compatto, proteso, come ci dicevano i capi del partito, verso i suoi luminosi destini. Le contrapposizioni esistevano soltanto nei riguardi di altre nazioni. Ma la guerra civile, combattuta da italiani contro italiani nella Repubblica Sociale Italiana, aveva cancellato quell’idea. Adesso ci si ritrovava divisi all’interno della comunità nazionale, e la contrapposizione era molto accesa.

Forse mai più dopo, i cittadini si sentirono tanto partecipi di una campagna elettorale quanto lo furono alle elezioni del 18 aprile ‘48. Se ne discuteva in ogni dove, nelle sedi dei partiti e nei comizi, nelle botteghe artigiane e nei crocchi di amici e conoscenti la sera in piazza. Fuori dei luoghi ufficiali, qualche volta anche in quelli, se ne sentivano di tutti i colori, dalle frasi serie e sensate a quelle fantasiose e colorite a favore o contro una parte o l’altra. Una battuta dei comunisti viestani più arrabbiati voleva vedere “i ra-r-ch sop e i frunn sott”(le radici sopra e le foglie sotto), come dire: sopra, cioè nell’area del benessere, doveva andarci chi era vissuto e ancora viveva nella povertà, e sotto, nella bassa fortuna, i benestanti.

I moderati, ripetevano gliargomenti nazionali del partito di appartenenza. Fra tutti gli argomenti, il più propagandato nel Meridione, da destra e da sinistra, era la riforma agraria, cioè il proposito di dare la terra ai contadini senza terra. Questo argomento, però, a Vieste non faceva molta presa per il fatto che nel territorio del nostro comune la proprietà coltivata era notevolmente frazionata, e non c’era un latifondo da espropriare e quotizzare, in modo che su ogni quota potesse lavorare e campare una famiglia. Ai braccianti agricoli, che lavoravano pochi giorni al mese – quando lavoravano! – sarebbe interessato di più sentirsi prospettare possibilità di lavoro durevole, con paga certa alla fine della settimana. I braccianti costituirono il maggiore serbatoio di voti del Partito Comunista Italiano.

Al blocco di democristiani e formazioni politiche minori (Liberali, socialisti democratici e repubblicani), aderivano in gran parte, insieme con gli agricoltori di buona consistenza, i coltivatori diretti, comprendenti piccoli proprietari, mezzadri e fittavoli, nonché gli artigiani, i commercianti, la gente di mare, gli impiegati, i professionisti. L’adesione andava soprattutto alla Democrazia Cristiana. Gli argomenti erano quelli dei rispettivi partiti in campo nazionale, quali la libertà di pensiero e d’espressione, contrapposta alla dittatura del partito unico dei Paesi comunisti, e la superiorità dell’economia di mercato, favorevole all’iniziativa privata, su quella pianificata, statale. Si riteneva l’economia liberista in grado di produrre più benessere di quella socialista, e si citava come esempio il maggiore progresso degli Stati Uniti rispetto all’Unione Sovietica. Sul piano emotivo aveva molto ascolto a Vieste la difesa della nostra tradizione cristiana contro il comunismo ateo. A sostegno della quale i sacerdoti della nostra città, con don Luigi Fasanella fra i più attivi, appoggiarono decisamente la D.C.

La propaganda

Insieme con la varietà di argomenti, accompagnarono la campagna elettorale slogan per tutti i gusti, da sinistra, da destra, dal centro. Ne ricordo tre. Uno, nato evidentemente a Roma: “Addavenì Baffone”. Baffone era Stalin, l’onnipotente capo dell’Unione Sovietica, un uomo che faceva tremare le vene e i polsi ad amici e nemici. Questa espressione aveva una doppia valenza: voleva essere una speranza per chi credeva nel “paradiso sovietico” e una minaccia, tra il serio e il faceto, per gli avversari politici e d’ogni altro genere. Era così immediata e plastica che presto cominciò ad essere usata in senso lato anche da chi comunista non era, generalmente come provocazione bonaria e scherzosa, magari verso l’amico o il conoscente, per comportamenti ritenuti sbagliati od omissivi. Un altro slogan, da destra, sentenziava: “Meglio il Duce e la Petacci che una repubblica di pagliacci”, diffuso dai nostalgici del fascismo, con evidente riferimento critico alle frequenti crisi di governo avvenute dal ’43 al ’48, e al sistema dei partiti in generale. Dal centro, un manifesto della D.C., ricordava all’elettore ancora indeciso, magari pressato dai comunisti, che “nella cabina Dio ti vede, Stalin no!”.

A rafforzare l’idea del “pericolo rosso”, c’era chi evocava la profezia di San Giovanni Bosco che aveva visto i cavalli dei cosacchi abbeverarsi alle fontane di Piazza San Pietro. Un’immagine minacciosa di tempi ormai lontani, da cui l’Italia scampò.

 C’è chi dice oggi che quella profezia si è avverata all’incontrario, durante le feste di Natale del 2003, nell’esibizione in Vaticano del coro dell’armata russa (non più chiamata rossa) davanti al pontefice Giovanni Paolo II. Perché i russi son venuti sì a Roma, ma non in armi, bensì in amicizia e tanto di rispetto, in riconoscimento del valore universale della chiesa di Roma e del suo pastore.

Prima di ogni comizio, sulla Piazza del Fosso gremita di gente, giungeva dai democristiani il canto Biancofiore, dai comunisti Bandiera Rossa e dal Movimento Sociale Italiano il pucciniano Inno a Roma.

Il movimento nei giorni della votazione

 Durante la votazione animarono il Corso Lorenzo Fazzini oltre agli elettori che si recavano a votare, gli attivisti dei partiti. Numerosi erano quelli dediti ad intercettare familiari e conoscenti che non avevano avuto occasione di contattare prima, o per fare un’ultima raccomandazione a chi era già stato contattato sul simbolo e il nome da votare. Altri attivisti rastrellavano a tappeto le persone inabili ma di sicura appartenenza politica, e le accompagnavano in macchina. Insomma una caccia all’ultimo voto.

Le operazioni a caccia dell’ultimo voto si ripeteranno anche nelle elezioni successive, ma non più con la stessa passione ed estensione del ’48.

Fuori dei due schieramenti anzidetti, comparvero per la prima volta due altri partiti: il Movimento Sociale Italiano, di ispirazione neofascista, e il Partito Monarchico Italiano che raccoglieva adesioni fra quanti pensavano ad una possibile restaurazione della monarchia sabauda in Italia.

Il 18 aprile 1948 gli italiani votarono in massa: circa il 92 per cento degli elettori. Alla DC andò il 48,5 per cento dei voti, al Fronte Popolare (comunisti e socialisti insieme) il 31 per cento, ai socialdemocratici il 7,1. Pochi voti alle altre formazioni (una decina).

Con il trionfo della DC e il tracollo delle sinistre si dissolse il “pericolo rosso”, cioè il timore di finire nella sfera d’influenza dell’Unione Sovietica. Un’Italia giovane e dinamica si mosse a creare fortuna.

Nelle librerie entrò una copiosa letteratura, intessuta di storie vere, e di altre romanzate e inventate, ambientate negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra. Fra i libri più letti in quello scorcio degli anni 40 si affermò il Don Camillo, emblematico della contrapposizione politica tra il mondo cattolico e il comunismo, seppure con sottofondo di sfumata bonomia. Autore il giornalista, umorista, scrittore, Giovannino Guareschi, il quale, in quella fortunata pubblicazione, narra con sottile umorismo le vicende parapolitiche di antagonismo che hanno luogo a Brescello, comune della Bassa emiliana, tra il robusto e impulsivo parroco Don Camillo, che parla col Cristo dell’altare maggiore, e il sindaco comunista, il meccanico Peppone, altrettanto robusto e sanguigno,ma più limitato per il resto.Il successo del libro si rinnoverà ben presto col film che ne verrà tratto, seguito da altre storie e altri quattro film. Che vediamo ancora oggi alla televisione.

9 – (continua)

Ludovico Ragno

Il Faro settimanale