430 anni fa, nell’estate del 1567, le Isole tremiti respingevano l’aggressione turca e infliggevano una severa disfatta al califfo dell’Islam.
L’imponente complesso delle opere di difesa e le vicende della sua storia stanno a dimostrare l’importanza strategica avuta delle Isole Tremiti, vero e proprio antemurale della Puglia contro l’Islam, che, disponendo di uomini, d’armi e di possenti flotte, dalle basi dell’Europa sud-orientale e dell’Africa settentrionale menava un’incessante guerra corsara nel Mar Mediterraneo e desolava le coste ioniche e adriatiche.
Gli aggressori avevano, però, sempre più bisogno di una base ancor più vicina ai loro obiettivi, onde decisero d’impadronirsi di Malta. L’isola era stata donata, nel sec. XVI, dall’Imperatore Carlo V all’Ordine cavalleresco, che da essa prese nuovo nome, in compenso della perduta isola egea di Rodi. Nel desiderio di rivincita, quei Cavalieri presero ad abbordare tutti i vascelli musulmani che le loro navi incrociavano, procurando danni tali che il Sultano ottomano Solimano II, orgoglioso Califfo del’Islam, decise di inviare una grossa armata ad espugnare l’isola e così infliggere una dura lezione ai Cavalieri e una nuova e forse decisiva sconfitta alla Cristianità.
L’imponente flotta turca, forte di ben 240 navi e di molte migliaia di uomini, salpò da Istanbul il 20 marzo 1565 e giunse nelle acque maltesi il 19 maggio. L’artiglieria turca, con 32 dei suoi pezzi, sparò incessantemente ben 13.000 colpi e, dopo 37 giorni di strenua resistenza da parte di quei Cavalieri, riuscì a distruggere il forte di S. Elmo. Conseguita questa vittoria, che costò ai Cristiani la morte di circa l.500 uomini, tra cui 130 Cavalieri che presidiavano quel forte, i Turchi, con 70 cannoni, iniziarono il bombardamento del Borgo, del forte di S. Michele e del castello di S. Angelo.
Don Garzia di Toledo, Viceré di Sicilia, mandò in aiuto di Malta numerose galere siculo-spagnole. Così, con l’arrivo di nuovi armati, di viveri e munizioni, i difensori della Cristianità riuscirono a resistere lungamente e a respingere eroicamente tutti gli ulteriori tentativi di sbarco, infliggendo al nemico gravissime perdite. Il 28 luglio le artiglierie turche furono anzi costrette a cessare il fuoco. Al comando di una nuova armata italo- spagnola di 72 galere e 10.300 uomini, di cui 200 cavalieri, 5.550 fanti spagnoli, 2.500 italiani e per il resto soldati di tutte le nazioni cristiane, Don Garzia partì da Messina il 22 agosto e giunse a Malta I’8 settembre. Dopo qualche scaramuccia, in cui perdettero ben più di 1.500 uomini, i Turchi l’11 settembre presero ignominiosamente, nottetempo, la fuga, facendo vela verso Levante. Non trascorsero due anni che il Sultano, volendo porre riparo a questa disonorevole sconfitta e informato della maggiore importanza strategica, per i suoi intenti, della abbazia-fortezza di S. Nicola di Tremiti, che peraltro riteneva di facile conquista per essere governata – come narra il cronista di quell’evento, il Canonico Lateranense don Paolo di Ribera – “da Papacci, gente d’ordinario poco esperta nel maneggio delle armi”, inviò in Adriatico una potente armata forte di ben 150 galere “scelte, cariche di Giannizzeri, Spachi e Mogolani, tutti esercitati armigeri”, con gli stessi comandanti dell’infausta spedizione maltese, desiderosi di riscatto.
La flotta turca, giunta in Adriatico, tentò una prima azione su Pescara, cui dovette rinunciare, perché la città si palesò ben difesa. Proseguendo quindi l’armata lungo la costa abruzzese-molisana e non trovata uguale resistenza, furono saccheggiate e incendiate Ortona, Vasto e Termoli. Alcune compagnie di Turchi si spinsero nell’interno del Molise, da dove vennero valorosamente respinti dai “terrazzani”, capeggiati dal Lateranense don Serafino da Vicenza, che amministrava parte di quel Contado. Proseguì allora la flotta turca verso il Fortore per permettere nuovi sbarchi e scorrerie. Venne depredata e incendiata S. Agata, possedimento tremitense. L’incendio fu notato dalle Tremiti e i difensori della Badia avvertirono la presenza dell’armata nemica. Proseguendo nella scorreria, i Turchi si spinsero fino a Serracapriola, le cui cinta muraria permisero agli abitanti d’opporre valida resistenza e infliggere agli aggressori forti perdite di uomini, le cui teste restarono per parecchi anni impalate attorno alle mura. Mentre la flotta ottomana era alla fonda alla foce del Fortore, fu sorpresa da un violento fortunale da levante e costretta a levare in tutta fretta le ancore e uscire al largo per far rotta verso le Tremiti. Due galere, però, essendosi arenate, furono abbandonate con viveri, arme e munizioni e i loro uomini si dettero alla campagna scopo di rapina.
All’alba del 5 agosto 1567, i Tremitensi videro nelle loro acque un gran numero di velieri e subito compresero che era giunta l’armata musulmana. Fu dato l’allarme e tutti i canonici e frati, i soldati e le maestranze si schierarono in armi, con le bandiere spiegate, alla Torre del Pennello.
Nell’assenza dell’Abate, don Angelo da Piacenza, che era fuori sede sul continente, animatori della resistenza furono, col Lateranense don Paolo di Ribera, il Priore don Marco da Piacenza, don Ubaldo da Napoli, già prima dell’ingresso in religine animoso ed esperto militare, il Capitano messer Dionigi Milanese e il medico messer Francesco da Rimini, che, all’intimazione di resa mossa dalla nave ammiraglia turca, diedero ordine al bombardiere veneto mastro Giulian di rispondere aprendo il fuoco. I tiri aggiustati della batteria della Torre del Pennello e
costrinsero la flotta turca a defilarsi dietro la vicina isola di s. Domino, nei pressi della Riva di Falconi. Datosi inizio all’assedio della fortezza e del castello della Badia di S. Nicola, vennero
a fronteggiarla in due squadre 50 galere ancorate tra l’isola di S. Nicola e le Pelagose, e 50 ancorate a S. Domino, mentre le altre restavano di guardia al golfo di Manfredonia,
per impedire il sopraggiungere di qualsivoglia aiuto. Da parte tremitense, i bastioni e le cinte dell’abbazia-fortezza di S. Nicola erano guardate dalle batterie d’artiglieria dell’Acconciaria, di S. Michele, dell’Ospedale, della Cisterna e di Scirocco. Sulle mura erano schierati militi, religiosi e laici, tutti dotati, oltre che di armi bianche, di archibugi. Nel frattempo, alla foce del Fortore, il capitano Cola di Vico, al comando d’una fregata tremitense, abbordava le galere turche arenate, asportandone tutto, e si avvicinavano la cavalleria e la milizia del Viceré di Napoli.
Assedianti e assediati combatterono strenuamente per tre giorni e tre notti con incessanti bordate d’artiglieria e ma i Tremitensi riuscirono a opporsi, contrariamente a ogni erronea previsione del Sultano, tanto validamente a ogni tentativo di sbarco che i Turchi, considerata l’impossibilità d’espugnare S. Nicola, ben difesa da uomini decisi, e per ravvicinarsi d’un minaccioso fortunale da tramontana decisero di toglier l’assedio e far ritorno in patria.
Salparono tanto in fretta da abbandonare al loro destino gli uomini sbarcati alla foce del Fortore, ritornati dai saccheggi operati nel retroterra molisano e dauno. Si avviarono costoro lungo la costa verso Lesina e S. Nicola Imbuti, sul lago Varano, territorio tremitense. Furono qui accolti da archibugiate e respinti con gravissime perdite. Due di loro, fatti prigionieri, furono tradotti a Tremiti, ove vissero a lungo, uno anzi battezzandosi.
I superstiti, trovato un natante abbandonato sulla spiaggia, si imbarcarono per raggiungere le Tremiti, ignorando che la loro armata non vi aveva potuto lasciare alcun presidio. L’allarme, subito dato al loro arrivo da don Giovanni Battista da Lucca, li colse di sorpresa, onde non rimase loro altro che impossessarsi di un’imbarcazione abbandonata sulla spiaggia e far vela verso la dirimpettaia costa slava. Inseguiti da Paolo di Ribera, furono fatti segno per un intero giorno a tiri di archibugio, che ne uccisero molti. L’infuriare di un’altra tempesta, giunta questa volta da scirocco, impedì al Ribera l’abbordaggio e lo costrinse a far ritorno alle Tremiti.
Così finì questo scontro con la potente flotta turca, che ne riportò un insuccesso ancora maggiore di quello subito a Malta. Né i Turchi, come a Malta così alle Tremiti, ardirono più tentarne la conquista, che facile sarebbe stata – scrisse poi il Ribera – se la gloriosa Vergine non avesse tenuto protezione di loro e del luogo Santo”, accompagnando con essa l’ardire dei Tremitensi.
Malta, Tremiti e, solo dopo, Lepanto furono le tre fondamentali tappe che valsero arrestare i tentativi di conquista islamica e a dare inizio alla ben nota lunga malattia dell’Impero Ottomano che portò alla inevitabile caduta del Califfato.
Emilio Benvenuto