Tra l’ultimo periodo dell’epoca terziaria e il principio della quaternaria, il Tavoliere di Puglia giaceva sommerso sino alle falde dell’Appennino. Emergeva dal mare il promontorio garganico, che, insieme con le Tremiti, Pianosa, le Pelagose, Pomo, S. Andrea, Lissa, Cazza, Lagosta, Lesina, Curzola e altre isole dalmate, che separavano il bacino settentrionale da quello meridionale dell’Adriatico, costituiva l’Adria, che congiungeva all’opposta sponda montenegrina. Il distacco dell’attuale gruppo di isole dal promontorio sarebbe avvenuto successivamente, in seguito sia a cataclismi che per la lenta opera del mare, che, per inefficiente resistenza della roccia, dovuta alle numerose cavità sotterranee, l’avrebbe man mano corrosa, provocando il crollo delle volte.
A dimostrazione delle affinità geologiche e naturali tra il promontorio garganico e le Bocche di Cattaro e la Dalmazia, che confermano resistenza dell’antica terraferma detta Adria, Giovanni de Agostini, che, con altri, ne studiò la geologia,non trascurò, però, in quelle isole la raccolta di piante e di animali, dei quali ultimi collezionò circa 500 esemplari di specie comuni viventi in Italia, Montenegro e Dalmazia. Il promontorio garganico e l’arcipelago delle Tremiti, da una parte, e il Montenegro e le isole e il litorale dalmato, dall’altra, gli si presentarono simili, per la loro conformazione, per i costoni scendenti a picco sul mare, per il frastagliamento della scogliera, per le loro cale, conche e caverne, per la stessa natura della roccia, della flora, delle coltivazioni e persino dei panorami. Le tre isole più grandi s’allungano in direzione NE-SW e nella stessa direzione si allunga nel Mare Adriatico la piattaforma da cui queste isole emergono; fra le varie isole, inoltre,
il mare ha scarsissima profondità (al massimo m. 11), onde è lecito affermare che in epoca relativamente recente il gruppo doveva essere costituito da un’unica massa insulare, allungata, per l’appunto da NE a SW. Nella “Cassandra” di Licofrone si parla infatti di una sola Isola Diomedea, allorché si discorre dell’insediamento dei compagni di Diomede, trasformati alla sua morte in uccelli marini. Scismo di Chio ricorda una sola isola, che fu chiamata Diomedea, per essere stato colà sepolto Diomede, e di una sola Isola Diomedea fanno menzione Dionigi il Periegeta, Pisciano e Stefano Bizantino.
C. Cornelio Tacito scrive (Ann. 4: 7): “luliam Augusti nepotem adulterio convictam, proiectam ab eo fuis- se in Insulam Tremetum haud procul Appulis littoribus, ibique XX annis exilium tollerasse”.
L’isola, al dire di P. Guglielmo Gumppenberg S.J., fu chianata Tremetus e Trimerus, da “tremor” e avrebbe avuto origine da un terremoto che la svelse dal promontorio garganico.
Se, al principio della sua formazione, l’attuale arcipelago consisteva in una sola isola-madre, è evidente che successivi cataclismi e forti correnti marine suddivisero questa, creando quei tratti di mare che oggi separano le varie isole.
Già Strabone riferì (Geogr. 2; 5. 20): “In vicino mare duae sunt insulae, Diomedeae appellatae, quarun colitur altera, alteram esse ferunt desertam”.
La notizia è confermata da Eustazio, nel suo commento al cap. I della Periegesi di Dionigi. Anche Plinio il Vecchio narra nella sua “Storia naturale” che le Isole Diomedee erano due, entrambe famose, Luna l’attuale S. Nicola) per il tempio e il sepolcro di Diomede, l’altra ((attuale
S. Domino) era detta Teutria: si tenga presente che qui siamo nel sec. I d.C.
E’ Claudio Tolomeo il primo a parlarci di cinque isole, forse aggiungendo a queste due maggiori, S. Nicola e S. Domino, l’isola della Caprara e gli scogli del Crepaccio e della Vecchia, staccatisi col tempo da esse, a noi oggi noti.
I primi abitanti delle Isole Tremiti risalgono al neolitico e ciò è documentato da alcuni rinvenimenti, nel 1900, a S. Domino, in località “Prato Don Michele” e “Cala degli Inglesi”, e, nel 1906, sul Crepaccio, ove furono rinvenuti frammenti di ceramica grossolana ornata e di armi litiche (notevole però la mancanza assoluta di frecce). Numerosi altri reperti, attribuiti alla fine del neolitico, furono successivamente rinvenuti dal Prof. Francesco Zorzi lungo le coste di S. Domino e del Crepaccio.
Gli scavi seguiti ebbero importanti risultati con la scoperta d’una necropoli eneolitica, con scheletri umani rannicchiati e ceramica dipinta, e col ritrovamento d’un deposito di ceramica impressa neolitica. Dei 12 scheletri umani rinvenuti in questa necropoli, sei erano di maschi e sei di femmine (!), ma fu pure recuperato un certo numero di varie ossa non riferibili alle prime.
Trattandosi di materiale frammentario e mal conservato, esso richiese al Prof. Cleto Corrain, dell’Istituto di Antropologia dell’Università degli Studi di Padova, l’impiego di gran tempo per la doverosa loro analisi. Da una fotografia fatta dal Prof. Zorzi ai primi due scheletri rinvenuti risulta che esse erano stati deposti vicini tra loro, ma orientati in senso opposto. Si tratta di sepoltura in posizione rannicchiata su un fianco: il primo scheletro con gli arti inferiori moderatamente flessi, il secondo con gli arti fortemente ripiegati sul tronco così da toccare il petto con le ginocchia, le mani in prossimità della faccia, tanto da ricordare i sepolti delle stazioni delle Arene Candide, di Chiazza e della Grotta del Cane a Ripoli.
Quanto alla sepoltura dei due rannicchiati con orientamento opposto, il lato più interessante di questo rinvenimento è la diversità dei sessi: lo scheletro rattratto, di età giovanile, è di sesso femminile; l’altro semplicemente rannicchiato è di un giovane maschio. Questo tipico rito di seppellimento è stato seguito a lungo dagli Illiri e dai paleo-Slavi. In tutta la Bosnia- Erzegovina, la Croazia, il Kosovo, la Macedonia, il Montenegro, la Serbia e la Slovenia e anche nell’Albania greca e nella Bulgaria, è stato rilevato questo orientamento sepolcrale per i due sessi: in Dalmazia, anche in tombe comuni a due sposi, l’uomo e la donna giacevano in direzione opposta; nell’alta Desna, nelle tombe di coppie di sposi, l’uomo era orientato a est, la donna a ovest. Oltre all’accennata serie osteologica, furono rinvenute una vera e propria officina litica d’età anteriore e, dal Prof. Zorzi, una moneta illirica d’età posteriore.
E’ quindi del tutto certa la notizia di una colonizzazione illirica, di cui troviamo tracce presso i Veneti e i Piceni, lungo le coste dell’Afriatico, sino a raggiungere attraverso le Tremiti – concludeva nel 1934 Ettore Pais – le Puglie e la regione prossima all’odierna Crotone. Confrontando la serie dei reperti tremitensi con altre del Gargano (Ischitella e Monte Saraceno) e dell’agro di Siponto, constatiamo, non senza meraviglia, una grande somiglianza, onde possiamo dare una positiva risposta al quesito posto dalle sensazionali scoperte del Prof. Zorzi. I creatori della prima manifestazione artistica sipontina non furono antichi Italici, ma quei Dauni che, muovendo dall’antistante penisola balcanica, si attestarono nella Puglia settentrionale circa 3000 anni or sono; non potendosi espandere presto nell’entroterra per la presenza di una numerosa popolazione neolitica, si soffermarono nell’area lagunare che si estendeva tra i futuri abitati di Siponto e Salpi.
Quest’area, oggi in grandissima parte bonificata, non era una vera e propria palude, come oggi le Paludi Sipontine, ma un’estesa laguna, in cui affioravano isolotti di terra ferma. Qui e sulle circostanti alture vissero i primi Dauni, dando vita all’arte delle stele, che ci è stata svelata dalle ricerche archeologiche; quest’arte morì solo perché, isolata tra monti e laguna, non potè irradiarsi, salvo sporadiche eccezioni, e connettersi con altre tradizioni, ben più antiche, della popolazione dell’entroterra.
Solo più tardi, quando quei coloni illiri, certamente non molti, come mai molti sono stati i ogni tempo i primi colonizzatori, crebbero di numero, per naturale incremento demografico e per continui nuovi apporti, furono in grado di espandersi in tutto quel largissimo territorio, che fu la Daunia antica, divenirne padroni e fondarvi forti e floride città.
Si resta veramente ammirati di fronte alle doti naturali di questi nostri antenati. Essi furono capaci di segnare sulla pietra ogni attimo della loro vita quotidiana, ogni aspetto della natura che li circondava. Con pochi tratti, in apparenza maldestri, ma in realtà efficacissimi, fissarono quel che passava dinanzi ai loro occhi; furono maestri di concretezza, perché, se è vero che schematizzarono le immagini, è anche vero che, in tanta quantità di figurazioni, non ne presentarono una che non venisse loro fornita dalla vita reale e quotidiana nella nuova patria, o dai ricordi della propria gente.
Come si pone questa arte dauna nella storia culturale del nostro Paese, che pur d’arte è così ricco? Il Prof. Silvio Ferri, che ha dedicato a essa uno studio approfondito, ha ritenuto che almeno in parte della sua ricca tematica, specialmente in alcune scene che ricordano motivi dei poemi omerici (pur se visti, a suo avviso, da occhi di Traco-llliri, quindi filo-Troiani e non filo-Elleni!), possa ravvisarsi, per così dire, l’antefatto della grande arte greca e che questo antefatto resta tale, senza lo sviluppo splendido che sarà proprio dell’arte classica. In altre parole, le stele daune ci presentano i motivi artistici greci in uno stadio che potremmo chiamare grezzo, primitivo, “pelasgico”; in ciò sta il loro limite, ma anche la loro importanza, perché è per noi veramente preziosa la possibilità offertaci di risalire alle fonti e alle premesse della civiltà fiorita sulla nostra terra pugliese.
Emilio Benvenuto