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VIESTE/ VIAGGIO NEGLI DAL 1943 AL 2013 – ATTIVITÀ ECONOMICHE ED EVOLUZIONE DEI MESTIERI – (32)

L’agricoltura

Dal dopoguerra sino ai primi Anni Sessanta l’economia della città si basa ancora, in massima parte, sull’agricoltura. Principalmente sulla coltura dell’ulivo, estesa su oltre 1500 ettari, che, a sua volta, dà vita ad attività complementari, quali il lavoro degli oleifici, la fabbricazione dei fiscoli impiegati negli oleifici, l’impianto industriale che estrae l’olio dalla sansa e altre. Numerose sono le donne impiegate nella raccolta delle olive. Le prelevano una ad una dal terreno dove i battitori le hanno fatte cadere e riempiono i canestri.

 A partire dagli Anni Settanta si diffonde l’usanza di stendere sotto gli alberi delle grandi tele (rach-n), sicché basta riunire i vertici d’ogni tela per prendere tutte le olive cadute, vuotarle nei sacchi e portarle al frantoio per la molitura. Pertanto, le raccoglitrici escono di scena. Intorno al Duemila ne escono anche i battitori. Al loro posto subentra un attrezzo chiamato Paparella. E’ un lungo braccio meccanico, dotato sulla punta di una specie di becco di papera che s’infila tra i rami e tira giù le olive. I frantoi che prima si trovavano nell’abitato vengono chiusi. I nuovi vengono costruiti, in campagna. Sono sei in tutto, grandi come cattedrali. Ne sono titolari: Latorre Marco in località Coppitella, Di Lella a Mandrione, Mafrolla Carlo a Focareto, i fratelli Troya di Sante al Piano Piccolo, Vieste Giuseppe e sorelle a S. Luca e i fratelli Vieste Pasquale e Giacomo al Piano Grande.

Fino agli Anni Quaranta un peso notevole hanno anche la viticoltura e la coltura del grano: nel Piano Grande, nel Piano Piccolo e nelle radure del bosco dove sopravvive la pastorizia, sebbene in misura ridotta rispetto al passato. Nei due decenni successivi il Piano Grande e il Piano Piccolo sono gradualmente trasformati in vigneti e uliveti. Negli orti primeggia la produzione del pomodoro nostrano. La maggior parte del quale è assorbita dal locale conservificio, che lo trasforma in ottimo pelato, richiesto anche fuori d’Italia. Ma per pochi anni ancora, perché la superficie coltivata ad ortaggi (quasi tutta la Scialara e un bel po’ della Padula), è diminuita, occupata in buona parte da costruzioni turistiche, per cui è diminuita anche la produzione, sufficiente più o meno ormai a rifornire di pomodoro nostrano le famiglie residenti che fanno ancora la salsa per tutto l’anno.

Neppure la viticoltura alla grande dura a lungo. Negli anni Ottanta, la Comunità Europea, visto che da alcuni anni una parte del vino prodotto nell’ambito comunitario resta invenduto, decide di corrispondere un contributo cospicuo per ogni ettaro di vigneto estirpato. A Vieste se ne estirpano alcune decine e vi s’impiantano ulivi.

 Nelle campagne avanza la meccanizzazione. All’aratro tirato dal mulo, che si vede nelle foto di queste pagine, subentra quello meccanico ovunque il terreno permette il suo impiego. A mietere il grano non c’è più l’uomo con la falce in pugno, ma la macchina mietitrice, e la trebbiatura non è più eseguita battendo le messi sull’aia, ma scuotendole con la trebbiatrice.

L’artigianato

Fiorente nella prima metà del secolo, dal dopoguerra in poi è in declino. Ho nella mente alcune botteghe e i titolari di esse, chiamati maestri. Di fatto erano delle scuole dove i giovani entravano al termine delle elementari e ne uscivano verso i vent’anni che avevano appreso un mestiere. Facilmente si autodefinivano artisti. Ed in effetti un po’ lo erano, stante la loro capacità di trasformare materiale grezzo, legno, oro, ferro, fibre tessili o altro in oggetti: mobili, strumenti di lavoro, monili, abiti, ecc.

Di ogni settore, ricorderò i nomi dei protagonisti da me conosciuti direttamente o attraverso informazioni, scusandomi con quanti involontariamente omessi.

I fabbri e le forge

Avevano le forge al corso L. Fazzini, in via 24 Maggio e in via C. Battisti. Talora lavoravano anche all’aperto, davanti alla bottega. Tra la fine degli Anni Quaranta e i Cinquanta, i più di loro spensero le fucine. La ragione? In primo luogo la concorrenza dell’industria, poi perché una parte degli oggetti di loro produzione stava scomparendo dall’uso e, poi ancora, per mancanza di continuatori. Ricordo Dell’Erba Giuseppe, detto student. Costruiva oggetti casalinghi, ringhiere per balconi, cerchi di ferro per le ruote dei carri agricoli e altre cose; il figlio Antonio che ne continuò l’attività per una ventina d’anni e poi smise. Gli altri fabbri: i fratelli Prencipe, che avevano bottega uno appresso all’altro, al Corso L. Fazzini, “Sopra la Rena”. Erano quattro: Carmine, coadiuvato dai figli Giacinto, Antonio e Luigi, seguiva Raffaele con il figlio Tonino, e poi Giorgio e Giuseppe, che non ebbero continuatori. Questi fabbri, principalmente maniscalchi, oltre che ferrare cavalli, muli e asini, costruivano attrezzi di lavoro per la campagna: aratri, zappe, accette e ogni altro utensile occorrente. In via 24 Maggio aveva la fucina Dimauro Michele detto u re, e teneva bottega il mastro-carriero, così chiamato chi costruiva carri agricoli, traìni nel nostro dialetto.In via C. Battisti v’erano ancora due fabbri: Giuseppe Sicuro e poi Domenico Giuffreda. Un altro fabbro, Michele Trotta, stava un po’ fuori paese.

Era un mestiere che consentiva di vivere dignitosamente e questo valeva per tutti gli artigiani, purché capaci di lavorare senza contare le ore di lavoro e di essere sobri nelle spese di famiglia. Poiché le difficoltà non mancavano. Gigino Prencipe, che da ragazzo e da adolescente ha vissuto nel mestiere, mi fa un esempio, che è un quadretto della vita d’anteguerra. Egli racconta che l’oggetto più costoso che facevano, l’aratro, era loro commissionato solitamente in autunno, al tempo della semina, daipiccoli e medi proprietari, i cosiddetti massari, che poi glielo pagavano a giugno, alla raccolta del grano. Spesso non in denaro ma in grano.

Tra la fine dei Quaranta e i Cinquanta tutti i fabbri ricordati, ormai anziani, cessano l’attività. I giovani, quali Tonino e Gigino Prencipe, cambiano lavoro, Domenico Giuffreda se ne va a Pistoia. Dopo di loro altri aprono bottega. Ma ora non ferrano più gli animali da soma, quasi scomparsi dalla campagna, scalzati dai motocarri. Tra i nuovi manufatti che escono dalle loro botteghe vi sono alcuni che prima erano di legno, quali persiane e vetrate, altri di nuovo impiego,

Appartengono alla nuova leva di fabbri Ciuffreda Angelo e Ciuffreda Leonardo, Fabrizio Pasquale, i fratelli Troiano Michele e Luciano, Garofalo Francesco, Troia Michelino. Però adesso non lavorano soltanto con il ferro, ma più ancora con l’anticorodal, variante di alluminio.

I sarti

Sono la categoria di artigiani più numerosa di Vieste. Dopo la guerra molti giovani e anche alcuni non proprio giovani, come Pasquale Scattino, Santino Notarangelo, detto Zambarrott, Vincenzo Rado emigrano in Alta Italia. Alla fine degli anni ’50, degli anziani con sartoria rimasti a Vieste ricordo Ludovico Caizzi, mio zio materno, dal quale ho preso il nome, e il figlio Vincenzo; Simone Caizzi, fratello del primo; Nicola Del Piano detto Pavicchio, Carlantonio Florio, Michele Silvestri e qualche altro. Pochi i giovani: Cecchino Del Duca, Salvatore Laprocina, Giuseppe Olivieri, Vincenzo Pecorelli, Vincenzo Solitro, u Spal-tres.

I falegnami

Avevano fatto sempre mobili per l’arredamento delle case. Adesso, però, i mobili si comprano già belli e fatti, visti nelle esposizioni o scelti sui cataloghi, confezionati dall’industria. Ciò nonostante il lavoro ce l’hanno sempre. Anzi ne hanno di più. In concomitanza con la forte espansione dell’edilizia abitativa e turistica di Vieste, hanno adeguato le attrezzature e la professionalità alla nuova richiesta del mercato e costruiscono porte, infissi, manufatti e accessori di legno d’ogni sorta occorrenti per le abitazioni.

I muratori

Mentre nella maggior parte delle categorie artigianali il numero dei praticanti è andato via via scemando nei decenni in parola, in quella dei muratori è cresciuto fino ai primi anni del millennio, favorito dal miglioramento della condizione economica della popolazione e dalle leggi a favore dell’edilizia economica e popolare. Negli anni 50 e 60 le piccole imprese locali che io ricordo, sono ancora le stesse di prima della guerra, articolate in alcune famiglie che lavorano con serietà e onesto profitto: gli Ascoli, i Del Giudice, i Rosiello, i Fusco, i Palumbo, Masanotti “u s-ndon”.

Negli anni che seguono, tra i discendenti ci sono quelli che continuano l’arte paterna, e ora sono chiamati costruttori, e quelli che la lasciano per altre attività, per lo più nel settore turistico.

I costruttori vecchi e nuovi, alcuni dei quali non sono più fra noi, diventano tanti. Cito quelli che ho conosciuto e ricordo. I fratelli e cugini Ascoli: Antonio, Michele, Giuseppe e Sante, Giorgio e Mario; Salvatore Vescera, Giuseppe Cariglia, Raffaele Palumbo, Vincenzo Marinelli, Francesco Notarangelo, Biasino Scala di Antonio e Biasino Scala di Nicola, Peppino Dimauro, Bartolomeo Azzarone, Vescera Leonardo (Narduzz), Del Duca Antonio, Sollecito, Mazzone Giacinto.

I calzolai

Sono tra gli artigiani, quelli a cui i cambiamenti vanno proprio male. Prima della guerra facevano le scarpe. Da quando le scarpe si è cominciato a comprarle nei negozi, loro hanno da fare solo qualche risuolatura. Dagli Anni Sessanta in poi, non fanno più neppure queste. A Vieste, riusciranno a sopravvivere tre o quattro anziani calzolai e qualche giovane per le piccole riparazioni.

Gli idraulici

Tra i nuovi mestieri che si affermano, sono forse quelli che hanno più fortuna. Capofila ne è Girolamo Esposto, detto Mimì; Matteo Micelli,Vincenzo Olivieri, Michele Notarangelo, i fratelli Forte Sante e Francesco, i fratelli Pagano, Nicola Silvestri, Carlo Dimauro, Pasquale Prencipe, Antonio Nobiletti, Dies Natale, forse altri.

Tra gli addetti ai mestieri già esistenti, che ora si espandono, primeggiano gli elettricisti e i meccanici, sempre più numerosi, e i giovani diplomati dell’Istituto Alberghiero che trovano lavoro nelle strutture turistiche.

Tipografi

Un’attività rimasta tuttora unica a Vieste, è quella tipografica, iniziata nel 1958 da Antonio Iaconeta, di Monte Sant’Angelo. E’ un giovane che ha lavorato in un paio di buone aziende, acquisendo piena padronanza delle arti grafiche. A Vieste, operando con impegno, intelligenza e serietà, si fa buon nome, sicché l’azienda cresce e si afferma. Lo gratifica il privilegio (speranza di tutti i padri) di avere al suo fianco due figli, Franco e Adriano, che lo seguono nell’attività. E lo seguiranno anche quando smetterà per limiti d’età e poi non ci sarà più, continuando con altrettanta bravura e serietà, a tenere alto il buon nome delle Arti Grafiche Iaconeta di Vieste.

Fotografi

Non ho notizie di fotografi stabili a Vieste prima della guerra. Nella seconda metà degli Anni 40, apre qui il primo studio fotografico Franco Cappiello. Dal suo studio escono e si affermano Lillino Masanotti e Fiorenzo Piracci e figli. Per una diecina di anni lavora da fotografo anche Antonio Bario, che però, negli Anni Settanta se ne andrà in America. Dopo gli anzidetti apre lo studio fotografico Nando Luceri, che ora lo ha passato al figlio. Di ultima generazione, opera nella fotografia il giovane Marco De Leo.

Estetiste e parrucchiere.

Entrate in campo nell’ultimo ventennio, costituiscono la nuova leva del lavoro artigianale femminile.

Jean Annot, il pittore di Vieste

Mi sembrerebbe di far torto alla memoria di un uomo, un forestiero, artista, innamorato di Vieste come forse pochi viestani nati lo sono, se tralasciassi di ricordarne la figura. Si chiamava Jean Annot. Pittore, di nazionalità belga, era giunto in Italia nel 1966 nei giorni dell’alluvione che colpì Firenze, insieme ad altri artisti, a dare una mano per salvare le opere d’arte in pericolo nei locali al pianterreno delle gallerie. Finito l’impegno a Firenze, verso la fine dell’anno si portò a Foggia e non seppe dirmi perché. E’ lui che mi racconta questa vicenda. A Foggia non ha più una lira in tasca. Chiede a un vigile di indicargli qualche cosa di bello da dipingere, farne un quadretto e venderlo, perché allo stato non può pagarsi neanche un pranzo. Il vigile sa dirgli solo il duomo, e lo dirotta verso una vicina trattoria frequentata dagli artisti. Al ristoratore ripete ciò che aveva detto al vigile. E quello: “Bene, adesso si sieda e si metta in pace con il pranzo, offro io, poi le consiglierò cosa deve fare”. Lui nel sentire che non deve pagare nulla si schermisce un po’, ma poi più che il pudore potè la fame. Finito il pasto, ancora una breve chiacchierata e poi il consiglio: “A Foggia c’è poco da dipingere, vada a Vieste, là di luoghi e cose da riprendere ne troverà tanti, le piacerà.” Ciò detto, gli porge cinquemila lire e alla nuova rimostranza di Annot aggiunge: “Lasci stare, si paghi il biglietto dell’autobus e buona fortuna”.

 Ed è così che venne a Vieste, pensando di starci un mese, due mesi, forse un anno. Invece rimase a lungo, attratto dalla bellezza del luogo e dalla ricchezza di soggetti da dipingere.

 Difatti dipinse molto, ad acquerello e ad olio, esprimendo il suo estro nella rappresentazione di scorci suggestivi e di peculiarità notabili di Vieste, così da diventare – sia detto magari con un po’ di retorica – il cantore della nostra città col pennello. Si può dire che non c’è aspetto significativo, urbano ed extraurbano, che non sia illustrato nei suoi quadri. Che egli vende da guadagnarci quanto gli basta per campare. E non sempre basta.

Un giorno, appesi alle pareti del Ristorante del mare, ubicato di fronte alla chiesa Santa Croce, dove adesso ci sono il fotografo De Leo e un’agenzia, vidi dei dipinti di Annot. Chiesi a Tommasina Ranieri, la padrona, come mai avesse quei quadri alle pareti, e lei, in poche parole mi raccontò una storia simile a quella della trattoria di Foggia. Annot era entrato per mangiare, e non avendo soldi voleva pagare con le sue pitture. Tommasina, commossa gli aveva risposto che lei era ormai anziana e di quadri non ne voleva, ma lui poteva venire a mangiare lo stesso ogni mezzogiorno senza nulla pagare. Se mai quando ne vendeva qualcuno poteva pagare il pasto di quel giorno. Annot le chiese allora il permesso di esporre i suoi lavori nel ristorante, offrendole la percentuale per ogni dipinto venduto. Lei gli rispose: “Puoi metterli, io non voglio niente, se qualcuno mi chiede informazioni vi fisso un appuntamento e ve la vedete tra voi”.

Il ristoratore di Foggia e la signora Tommasina sono personaggi d’altri tempi? Io m’immagino che persone siffatte siano attuali in tutti i tempi. Solo che non fanno rumore.

Annot usufruì dell’offerta per una mesata, e neppure andò tutti i giorni al ristorante. Alla fine costrinse la signora ad accettare il dono di un quadro

 Insieme all’amore per la pittura, gli stavano a cuore la natura (da vicino ai giovani del WWF, partecipò con loro alle iniziative di pulizia di tratti di spiagge e rive) e la difesa dei valori ambientali-culturali. Una volta, nei primi Anni Ottanta scrisse una lettera al Comune per segnalare che nel centro storico antico, Ad-Alt, da una casa era crollato un comignolo in muratura. E, richiamando l’attenzione sull’interesse storico dell’edilizia d’epoca che quello rappresentava, concludeva con la raccomandazione di imporre a chi di dovere di rifare il comignolo crollato così com’era, in muratura, diffidandolo dal metterci al suo posto un tubo di eternit, certamente meno costoso.

Stette fra noi una quindicina d’anni, discreto e dignitoso, stimato da quanti con lui ebbero modo di relazionarsi.

Quando pensò di non riuscire a trovare più nel nostro luogo soggetti nuovi da dipingere, materia prima della sua ispirazione, – così mi disse – spinto dalla sua costituzionale irrequietezza, cominciò ad allontanarsi da Vieste per periodi prima brevi poi sempre più lunghi. Per qualche anno un po’ qua, un po’ là nei paesi del Gargano, poi sempre più lontano e infine in Africa. Dai suoi viaggi mandava sempre qualche cartolina agli amici di Vieste che gli erano stati più vicini. Tra questi, più di tutti a Franco Ruggieri. Il quale, quando le cartoline non gli arrivarono più, prese a cercarlo. E tanto si diede da fare che trovò notizie: era deceduto in Africa. Si recò sul luogo della sua sepoltura, la fece sistemare dignitosamente e ne informò la famiglia in Belgio.

Riposa nella savana dell’Alto Ghana (Tamale) dove è morto il 10 marzo 1990.

Qualche anno dopo, per ricordarlo, Franco Ruggieri fece riprodurre alcuni suoi quadri su cartolina, annotando sul retro le seguenti notizie biografiche: Jean Annot è nato a Forest (Brabante), Belgio, il 21 maggio 1928. Arriva in Italia nel 1966 per l’alluvione di Firenze ove collaborò nell’ambito del Servizio Civile Internazionale al restauro di libri, manoscritti e mobili antichi. Dal 1968 elegge a Vieste la sua dimora. E’ senza dubbio l’artista che maggiormente ha saputo rappresentare il Gargano nella sua autenticità.

Per il suo amore verso la natura gli amici, del WWF di Vieste hanno intitolato la sezione al suo nome.

Ludovico Ragno

     Il Faro settimanale

(32 continua)