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VIESTE/ VIAGGIO NEGLI ANNI DAL 1943 AL 2013/ – MESTIERI SCOMPARSI – (33)

Mi resta da ricordare alcuni mestieri che nell’ultimo cinquantennio hanno perso mercato, anno dopo anno, sino a scomparire del tutto.

Carrettieri. Conducevano carri trainati dal mulo o dal cavallo, (traìni) trasportando ogni sorta di materiali sulle brevi distanze, di rado da comune a comune. Durante la campagna olearia portavano anche le raccoglitrici di olive nei luoghi di lavoro. Tradizionalmente, dietro il carro vedevi un cagnolino correre trafelato per tenere il passo col cavallo. Alla sera la maggior parte dei carri si allineavano su via C. Battisti e nella zona di S. Francesco. I carrettieri avevano anche una loro confraternita (quelli con la mantellina gialla) intitolata a S. Antonio, che c’è tuttora, ma aperta a tutti.

Bottai. Come dice il nome, costruivano botti, barili, tini, tinozze e ogni sorta di recipienti in legno. I bottai di Vieste non erano molti, però come categoria avevano una lunga tradizione. Che io ricordi, ebbero cognome Dimauro, Chionchio e forse qualche altro ancora.

Carbonai. Facevano carbone nel bosco comunale e poi lo vendevano in paese. Con le ramaglie facevano la carbonella, che s’accendeva nel braciere intorno al quale ci si riuniva d’inverno per scaldarsi un po’ e chiacchierare.

Legnaioli. Raccoglievano la legna secca nei boschi comunali, senza pagare alcun corrispettivo, avvalendosi dell’antico diritto di uso civico. L’affastellavano e a sera la vendevano in paese. Fin quasi la metà del ‘900 la legna ed il carbone furono i combustibili unici per il fuoco in cucina.

Stagnini. Furono molto apprezzati in quest’arte, nella prima metà del Novecento, i componenti di due famiglie: quelle dei fratelli Fabrizio, Natale e Gaetano, continuati nella seconda metà del secolo, per una trentina di anni, dai figli del primo: Matteo e Tommaso, che tenevano bottega allo stradone, e quella di Giuseppe Ruggieri, il vecchio mitico capobanda di Vieste, che teneva bottega al largo Seggio, continuata dal figlio Natale, Talino, per chi lo conobbe. Facevano pentole e ogni genere di recipienti di latta e stagno, compresi i grossi contenitori, quale il blandone, che le famiglie usavano per conservarsi la provvista annuale di olio. Col mutare dei tempi, i figli, e i figli dei figli rimasti nel settore, hanno spostato la loro attività dalla produzione di oggetti alla loro commercializzazione, mettendo su bottega di ferramenta.

Fiscolai. Si potevano contare sulle dita di una mano. Fabbricavano artigianalmente degli attrezzi complementari dell’oleificio, chiamati fiscoli. Erano dischi intessuti con fili di fibra vegetale. Venivano spalmati di olive frantumate dalla macina e sovrapposti a forma di pila sotto il torchio. Da cui colava l’olio nei contenitori. Torchio e fiscolo si vedono ancora in qualche frantoio, ad uso degli estimatori dell’olio ottenuto con la spremitura delle olive a freddo.

Fu apprezzato fabbricante di fiscoli artigianali, a partire dalla fine dell’Ottocento, mio nonno Nicola Maria Ragno, cui seguì il figlio Mauro e dal ‘50 al ‘56 il figlio di lui, omonimo del nonno, col quale l’attività ebbe termine. Era cominciato pure per i fiscoli il tempo della loro fabbricazione industriale.

Orafi e orologiai. Ce n’erano cinque o sei. Di essi, il primo, e maestro, è stato Giannangelo D’Errico. Da lui hanno appreso l’arte i fratelli Iervolino Gaetano e Liborio, i fratelli Giardino e Nicola Palumbo come orologiaio. Il quale, come orafo era stato alla scuola del maestro Aldo Berti di Como dal 1965 al 1970. Ebbero bottega a Vieste fino agli anni Sessanta anche due forestieri, dei quali ricordo il cognome: Niglio e Russo.

I discendenti degli anzidetti rimasti nel settore vendono soltanto, monili e orologi. Sono Filippo figlio di Giannangelo e Giardino Francesco. Fino al 2013 c’è stato anche Iervolino Mario. Due altri discendenti Iervolino, Liborio e Michele, hanno negozio di ottico.

L’anziano Nicola Palumbo, al giorno d’oggi è l’unico a Vieste capace di sistemare un monile d’oro e di rimettere in funzione un orologio.

Cavamonti. Da alcune elevazioni rocciose del nostro territorio, cavavano le pietre occorrenti per le costruzioni. Era un lavoro faticoso e poco remunerativo, eseguito da operai organizzati in “compagnie”. Negli Anni Sessanta il mestiere entrò in crisi. Nell’edilizia, il primato dei materiali era passato dalle pietre al cemento e ai mattoni, sicché i cavamonti cambiarono mestiere. Indirettamente ne guadagnò l’integrità dell’ambiente naturale.

Delle cave aperte in passato nel nostro territorio sono visibili quella sotto l’altura con la chiesa di S. Lorenzo e quella di Cisco, sulla strada statale per Mattinata. La prima è stata sistemata e attrezzata nel 2005 per l’intrattenimento all’aperto nelle sere d’estate.

Facchini. A Vieste c’erano due categorie di facchini. Quelli di città, che svolgevano i piccoli trasporti a braccia, organizzati dagli anni Trenta sotto il nome di “carovana facchini”. Il maggior lavoro lo svolgevano nell’autunno-inverno , durante la campagna olearia, trasportando a spalla gli otri di olio dal frantoio alla casa dei compratori. Gli altri erano i facchini, o scaricatori, di porto, i quali provvedevano al carico e scarico delle merci trasportate dai motovelieri. La diffusione di strumenti meccanici di carico e scarico ha messo fuori uso l’opera delle due predette categorie.

Macerari. Erano coloro che costruivano le macere, così chiamati i muretti a secco che nelle campagne delimitavano le proprietà.

Acquaioli. Prima che arrivasse l’acqua del Sele, giravano per le strade portando a dorso d’asino barili d’acqua attinta ai pozzi, ritenuta buona da bere e cuocere i pasti. Per gli altri usi ogni altra acqua dei pozzi conosciuti era buona.

Sanapiatti. Che io ricordi a Vieste ve n’era uno solo, si chiamava Salvatore. Qualche altro veniva da fuori. Si annunciava nelle strade con voce modulata. Chi aveva un piatto o altro oggetto di terracotta da sanare, usciva in strada. Il sanapiatti con un trapano sottile faceva dei buchi ai pezzi da unire, infilava dentro un filo di ferro, ne tirava le estremità che poi annodava, infine spalmava la congiuntura con lo stucco o qualcosa di simile. In breve il piatto era di nuovo a posto per l’uso. Sembra Medioevo. Invece da allora al nostro tempo dell’usa e getta sono passati si e no cinquant’anni.

Braccianti agricoli e manovali. Sono ridotti ai minimi termini, adesso che il loro lavoro lo fanno le macchine.

Sarte e ricamatrici. Finite le elementari, fra le ragazze che non continuavano le scuole vi erano quelle che iniziavano a frequentare l’uno o l’altro dei laboratori artigianali di cucito e ricamo del paese. Lavorando imparavano, chi più chi meno, il mestiere.

Negli Anni Quaranta-Sessanta, ha fatto scuola di ricamo, apprezzata e indiscussa, la sorella di don Luigi Fasanella, Antonietta, ricamatrice valente e altrettanto valente maestra. Per diversi anni ha organizzato, con la collaborazione delle sorelle Filomena e Blandina, corsi di ricamo riconosciuti dal Ministero del Lavoro, che ebbero pubblici riconoscimenti. Tramontato il ricamo artigianale, ora, per i pochi cui quei prodotti interessano ancora, provvede l’industria.

Banditore. Era un personaggio non dico importante, ma, insomma,“ascoltato”. Girava le strade della città munito di una trombetta a mo’ di corno, con la quale richiamava l’attenzione dei passanti e delle persone nelle case, che dai “soprani”, s’affacciavano alla finestra e dai “sottani” uscivano sulla soglia.

Quindi si fermava e leggeva qualche comunicato dell’Amministrazione comunale, oppure, molto più spesso, faceva pubblicità commerciale, ossia annunciava e lodava un qualche prodotto, fresco arrivato, che si vendeva qua o là. Il più delle volte in italiano, a volte in dialetto. Per esempio, in dialetto e a voce alta diceva: “ Alla p-scaria sonn appen arre-vt i sard di battill”; “Alla chiangh d mizz u fuss c venn la carn du capr-tton a 400 lir u chil”.

L’ultimo banditore ricordato di Vieste si chiamava Luigi Rota. Univa alla sua funzione di banditore quella di accalappiacani randagi, a ciò incaricato dal Comune. Di soprannome lo chiamavano “u p-cciutt” (il picciotto).

Era un pezzo d’uomo, dalla voce tonante. Il soprannome gli era stato affibbiato quand’era giovane per qualche sua esagerazione nel corso di un paio di risse. Diceva di essere figlio naturale di un ricco signore di S. Severo.

Da come io l’ho conosciuto attraverso i suoi comportamenti e da conversazioni occasionali, egli era un tipo direi eccentrico, esibizionista, gigione, fanfarone, un po’gradasso, e pur tuttavia simpatico e anche acculturato con la sua quinta elementare. Un po’ per vezzo e un po’ per scherzo, dietro il bavero della giacca, me lo fece vedere quando era già pensionato, portava un distintivo con la scritta: “Fatevi i cazzi vostri”.

Il picciotto era già in pensione quando la figura del banditore uscì di scena sul finire degli Anni Sessanta superata dalle macchine con altoparlante, dai manifesti e da radio e televisioni locali.

Vi è chi dice che “tutto passa, tutto si lascia, tutto si cancella”. Io concordo sulle prime due affermazioni. Non sulla terza. Perché le memorie scritte, tramandate, sopravvivono.

L’attività marinara

Fino agli anni Sessanta, si svolgeva su due filoni, quello commerciale esercitato con i bastimenti chiamati trabaccoli e quello della pesca con barche di vario tipo. Appena percettibile qualche prestazione dei trabucchi.

I trabaccoli, erano imbarcazioni adibite al trasporto merci, velieri fino agli Anni Venti, poi motovelieri. Avevano da 30 a 60 tonnellate di stazza, prua e poppa rigonfia. ampia velatura, ed erano condotti da 4-5 uomini di equipaggio: un impasto di marinaio, commerciante socio-padrone, mano d’opera. Mediamente avevano base a Vieste sei-sette. Portavano nelle città costiere della Dalmazia (Zara, Sebenico, Spalato), dell’Istria e di Fiume la frutta e le verdure di Vieste e dei comuni vicini, che vendevano ai negozianti locali e anche, stando accostati alla riva, alle persone che passavano di lì.

Cessati quei viaggi dopo la guerra, date le difficoltà create al libero commercio dal regime comunista che si era instaurato in Iugoslavia, la loro attività si concentra sui trasporti per conto terzi verso le nostre città della costa adriatica. Ma il guadagno è minimo. All’inizio degli Anni Sessanta sono allo stremo, anche perché superati dal trasporto su strada, più rapido e conveniente. Così, silenziosamente, uno dopo l’altro vanno in disarmo. Uno degli ultimi trabaccoli di Vieste è stato il Cromo (vedi foto).Il più fortunato il Giovanni Pascoli, acquistato e ancorato nel “museo della marineria” allestito nel porto canale di Cesenatico. Ora primeggia come ammiraglia delle otto imbarcazioni dette trabaccoli ivi galleggianti, a ricordare un tipo di bastimento, distintivo della nostra costa adriatica, che per circa duecento anni fu veicolo di commercio, di lavoro, di relazioni e di conoscenza fra gente di regioni diverse. Nella Dalmazia, diversa anche per lingua, sebbene questa diversità fosse attenuata dalla parlata del dialetto veneto, retaggio della Repubblica di Venezia di cui la regione aveva fatto per secoli.

La pesca. Nei primi trent’anni del Novecento i battelli da pesca sulla marina di Vieste, erano tutti a vela e a remi. La maggior parte faceva scalo alla spiaggia della pescheria (adesso giardini di Marina Piccola), poche altre sulla spiaggia di S. Lorenzo e sulla bassa scogliera di Sotto la Ripa.

Negli Anni Cinquanta e Sessanta, in questo settore si manifesta decisamente la voglia di crescita, il segno dell’intraprendenza. Le barche diventano motobarche e con i contributi dello Stato, se ne costruiscono di più grandi, i motopescherecci.

Ve ne sono di attrezzati per due indirizzi diversi di pesca. Una ventina pescano a strascico, con reti che scendono in profondità sino a lambire i fondali. Hanno due-tre membri d’equipaggio. Catturano pesci pregiati: sogliole merluzzi, triglie, mormore, orate, ma anche molluschi e crostacei.

Altri motopescherecci detti lampare, se ne vedono sino a 12, sono attrezzati di sonar e di fonti luminose per individuare i banchi di pesci e attirarli entro le reti di circuizione. Sono governate da 12/14 uomini di equipaggio.

A cominciare dal 1973, pescano per buoni quindici vent’anni, dalla primavera all’autunno, una ventina i giorni al mese, durante le notti di scura, cioè quando non c’è luna piena. La mattina portano a terra centinaia di cassette di alici; certi giorni qualche barca è arrivata fino a 3000 (ogni cassetta contiene circa 12 chili). Sul porto trovano ad aspettarle i mezzi delle industrie conserviere. Sono gli anni più prosperi, mai vissuti prima, dell’attività peschereccia di Vieste.

Ma, come si dice, cosa bella eterna non dura. Dagli anni 90 in poi, le lampare trovano sempre meno pesce. La causa o le cause? Se ne considerano alcune: le reti che scendono troppo in profondità così da impoverire la riproduzione ittica; l’elevato numero di pescherecci che setacciano giorno e notte il mare Adriatico. Altre.

La drastica riduzione del pescato produce disamore, distacco dal mestiere. Il numero delle lampare un po’ alla volta si assottiglia, quali vendute, quali mandate in demolizione con l’incentivo dello Stato, che paga un indennizzo ai proprietari. Sembra un paradosso! Lo Stato adesso fa l’opposto di ciò che aveva fatto meno di quarant’anni prima, quando aveva dato i contributi a chi le barche le costruiva. Si direbbe un frammento a rovescio dei corsi e ricorsi storici.

Delle lampare che animarono il porto di Vieste nella seconda metà del Novecento, all’inizio di questo Millennio erano rimaste in attività solo due: Maestrale di Matteo Colella e Cosma e Damiano di Grima Giovannantonio e figlio Nicola. Alla fine del 2013 è stata avviata la pratica di demolizione di Cosma e Damiano. Continuano l’attività tre o quattro motopesca a strascico, e una ventina di battelli tradizionali della piccola pesca.

 Un’altra categoria di marittimi, sorta con l’avvento del turismo, è quella dei barcaioli che su motoscafi bene attrezzati portano passeggeri a visitare le grotte marine che forano la nostra costa.

Navi da passeggeri. A lato delle attività marinare fin qui raccontate, in tempi recenti ce n’è stata un’altra, quella delle navi da passeggeri, prima e apprezzata iniziativa del settore a Vieste, intrapresa e gestita dall’imprenditore turistico Mario Turi. Per una decina di anni, a cominciare dal 1988, tre navi, due delle quali portavano il nome Vieste, di base nel nostro porto in tempi successivi, solcarono le acque dell’Adriatico. Ebbero nome: Vieste 1 e Vieste 2, capaci di 650 passeggeri, e Catamarano Zenit.

D’estate fecero servizio turistico giornaliero tra la nostra città e le isole Tremiti; saltuariamente con i dirimpettai porti dalmati di Ragusa e Curzola.

In certi periodi, una o l’altra fecero servizio anche con partenze da Termoli e da Bari. Poi, forse si erano diradate le partenze da Vieste, forse per altro motivo, quell’attività un certo giorno venne chiusa.

Ludovico Ragno

Il Faro settimanale

(33- continua)