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VIESTE/ VIAGGIO NEGLI ANNI DAL 1943 AL 2013 – LINGUA E DIALETTO – (35)

Ai giorni nostri, se rivolgi la parola a un bambino puoi parlare tranquillamente in italiano. Stai certo che ti risponderà in italiano. In generale, in casa, fin dalla nascita, i genitori gli rivolgono la parola solo in italiano e, naturalmente, altrettanto fa lui da come comincia a balbettare. Ai nostri giorni, tutti i bambini dai tre ai cinque anni frequentano l’istituzione che una volta si chiamava asilo infantile, diventato poi scuola materna, ribattezzata qualche anno fa scuola dell’infanzia. Però, familiarmente, viene tuttora chiamata l’asilo. Nell’età della scuola elementare gli alunni parlano l’italiano, ovviamente anche meglio, ma cominciano a dire qualche parola in dialetto, come pure qualche breve frase, forse ascoltata dai nonni o da qualche amichetto. L’uso del dialetto cresce negli anni della scuola media. Dalle scuole superiori in poi il dialetto e l’italiano si può dire che viaggino alla pari, alternati nelle conversazioni, con lievi differenze secondo il grado d’istruzione e l’argomento in discussione.

Di questo rapporto lingua-dialetto, ho qualche ricordo emblematico correlato al mio primo anno d’insegnamento, il 1946/47.

Mi era stata affidata una classe prima, stabilizzatasi alla fine di ottobre in circa 60 alunni. Nei primi giorni di scuola il numero dei presenti era superiore a quello dei nomi inclusi nell’elenco fornitomi, anche perché, per un paio di settimane, mi arrivava quasi ogni giorno qualche altro bambino da iscrivere.

Per cominciare a conoscerli, cercavo subito di scambiare due parole con ciascuno di loro. Tra l’altro, a quasi tutti chiedevo: “come ti chiami?”. I più mi dicevano nome e cognome, ma v’erano anche parecchi che mi dicevano solo il nome, in dialetto: “Giuan, Michel, Giorg” eccetera. Io allora specificavo: “e il cognome?”. Nessuna risposta. Replicavo spiegandomi in altro modo. Niente. La porta dell’aula talora era aperta. Un giorno che la buona e brava bidella Massimilia – tanti la ricorderanno – si trova a passare vicino, vede la scena, entra scusandosi nell’aula, mi si avvicina e quasi timorosa, forse temendo che potessi offendermi, mi dice in dialetto, ma io lo scrivo in italiano: “Signor maè(stro), non devi dire qual è il tuo cognome, ma com t’ mitt”. Espressione che non ha il corrispondente letterale in italiano. Ascoltai il consiglio e tutti gli scolari seppero dirmi il proprio cognome.

Nei banchi biposto gli scolari si sedevano in tre. Di tanto in tanto udivo una voce di protesta. Veniva da qualche alunno seduto all’estremità, il quale temeva di cadere spintonato dal compagno al centro, che si sentiva troppo stretto tra i due ai suoi fianchi. Invitati ad aver pazienza si rimettevano a sedere stringendosi quanto potevano. Lamentarsi a che sarebbe servito? Non ci si di lamentava neppure per la mancanza di riscaldamento. Certi giorni d’inverno particolarmente freddi succedeva che i ragazzi non riuscivano a stringere la penna tra le dita. Allora ci si riscaldava quanto basta facendo un po’ di ginnastica. La guerra era finita da poco e già si lavorava alla grande per rimettere in sesto la nazione.

Alle pareti dell’aula c’era il cosiddetto alfabetiere, una serie di 21 cartelli, quante sono le lettere del nostro alfabeto, pressappoco di centimetri 30 x 40, ciascuno con la figura di un animale o un oggetto più la lettera iniziale del nome corrispondente, scritta in stampatello e in corsivo, maiuscola e minuscola. Era la maniera di avvicinare il bambino alla conoscenza delle lettere dell’alfabeto e quindi a leggere e scrivere.

Ma il dialetto fa degli strani scherzi.

Su di un cartello c’è un imbuto. La sua funzione è di mettere in rilievo la lettera iniziale, la i. Faccio avvicinare un alunno al cartello, gli indico col dito l’imbuto e poi domando: “Come si chiama questo?”. Risposta: “Il muto!”. Così è chiamato nel nostro dialetto quel tronco di cono rovesciato che si trova nella cucina di ogni casa. Non è che sia così in tutti i casi, però. A un altro alunno mostro il cartello con la barca, per evidenziare la lettera b: “Questa come si chiama?”. Risposta: “La varch!”. Per proporre la lettera d c’è un cartello con un dado. “Cos’è questo?”. Risposta: ”U bslott!”.

Racconto questi particolari non perché fossero delle sorprese o creassero grandi difficoltà agli insegnanti, ognuno dei quali poi s’ingegnava a trovare i modi più validi per agevolare l’apprendimento degli alunni, ma per dire quant’era radicato e diffuso allora il dialetto.

La conoscenza e l’uso dell’italiano da parte degli alunni aumenterà, naturalmente, man mano che avanzano negli studi e anche in concomitanza con la crescita culturale di tutta la popolazione, ma il dialetto, per molti anni ancora avrà la prevalenza nel linguaggio parlato. Dagli Anni Sessanta in poi la differenza andrà riducendosi sempre più, fino ad invertirsi a favore della lingua italiana, che oggi, come ho già detto, è appresa e parlata dai bambini prima del dialetto.

Viaggio dal “Signurij” al tu

Nel secondo dopoguerra era ancora diffuso a Vieste, come in tutto il Meridione, l’usanza di rivolgersi ai nonni e spesso ai genitori con l’appellativo di “signurij”. Si dava questo appellativo pure alle persone anziane che godevano di buona considerazione, anche se non erano parenti. Come segno di rispetto. Però, nel dialogo, il verbo veniva armonizzato col “tu”, e solo da una minoranza più acculturata col “voi”.

Da un punto di vista lessicale, si potrebbe vedere nel termine anzidetto una sintesi della forma linguistica burocratica “la Signoria Vostra”, in sigla “S.V.”, tuttora corrente, con cui nella corrispondenza d’ufficio ci si rivolge al destinatario della missiva. Solo che in questo caso l’espressione è asettica, non manifesta alcun sentimento, mentre il nostro signurij era soffuso d’affetto.

Dico era, perché da allora è andato gradatamente in disuso, sino al punto che oggi molti giovani sotto i trent’anni non sanno neppure che sia mai esistito. E’ stato sostituito dal più familiare tu, permeato del rispetto o altro sentimento, che ognuno ci mette in quella parolina.

Le suocere e i suoceri spesso erano chiamati “mamma” e “papà” da generi e nuore, con un certo imbarazzo sia dei primi e sia dei secondi. Giustamente, di mamma ce n’è una sola! Così, piano piano, quasi senza accorgercene, quest’usanza ha tolto il disturbo, si è dissolta, con gran sollievo dei primi e dei secondi. Già da parecchi anni, i nuovi sposi si rivolgono a papà e mamma del coniuge chiamandoli col nome di battesimo. I pochi che ancora non lo fanno perché, intercorrendo tra loro ottimi rapporti, pensano che quelli si dispiacerebbero, scelgono la via intermedia di non chiamarli proprio, rivolgono loro la parola senza nominarli, aprendo direttamente il discorso.

È giunto ormai al tramonto anche l’appellativo “don” premesso al nome di battesimo, che, come già accennai in una delle prime puntate, veniva dato ai possidenti, ai professionisti accreditati, agli impiegati di buon livello. I quali però se lo risparmiavano parlando tra di loro Ora, i rapporti interpersonali si articolano fra tre pronomi personali: tu, voi, lei.

Tra i suddetti spadroneggia nel dialogo, tanto in dialetto quanto in italiano, il tu.

Il ”lei”, oggi come ieri, non esiste nel nostro dialetto. Nel passato i viestani lo usavano poco, anche quando si esprimevano in italiano, in questo caso solo tra persone che non si conoscevano affatto e che avessero frequentato una scuola superiore. Da qualche decennio a questa parte la situazione è mutata, tanto per dirne una, basta andare in un qualunque esercizio commerciale per sentire le commesse che si rivolgono disinvoltamente con il lei al cliente.

Come si può capire, il lei mantiene più marcate le distanze tra i dialoganti, sconfinando solo sporadicamente nel confidenziale. Anticamente, quando le distanze sociali erano abbastanza nette e marcate, chi stava più in alto pensava – e all’occasione lo diceva – che a familiarizzare con persone di grado inferiore si perdeva di dignità. Pensiero passato in proverbio con la frase: Chi tropp c’iavvasc, u cul fe’ v-dè (chi troppo si abbassa fa vedere il sedere).

Il lato curioso è che il confronto non valeva solo tra il ricco e il povero, ma anche tra gli intermedi; lo usavano persone supponenti, che dal punto di vista economico, magari poco o pochissimo si differenziavano fra di loro, in molti casi proprio per niente. Però si davano l’aria.

Tempi che furono! La metafora che mostrare il fondoschiena equivale a perdere di dignità oggigiorno non potrebbe più essere usata, visto come quel tondo lunare viene spesso e volentieri esibito in televisione da attrici, attricette e aspiranti varie alla notorietà.

Confidenziale, col rispetto delle distanze attenuato, è invece sempre stato, ed è ancor oggi, il “voi”. Lo usa il lavoratore dipendente quando parla al proprietario se tra loro c’è notevole differenza d’età, la badante con la signora quando sono entrambe di Vieste o dintorni (se la badante è straniera, si arrangiano come possono), lo usa l’artigiano col cliente facoltoso, o professionista, o comunque persona che conta, così pure il commerciante, il pescatore, il borghese di piccolo cabotaggio, ricambiati in qualche raro caso col voi, quasi sempre col tu.

Il “tu” è naturalmente il pronome più diffuso. Totalizza la nostra parlata dalla prima infanzia alla giovinezza. Nell’età adulta primeggia alla grande non solo perché ha più popolo tra parenti, amici e conoscenti, che in una cittadina come la nostra sono tanti, giacché avendo rotto gli argini del rispetto formale connesso agli appellativi detti prima, ormai attraversa e aggrega tutti i ceti. Non pensiamo, com’è chiaro, all’uso indiscriminato dell’anglofono you, ma ad una via di mezzo, che spesso rende più scorrevoli le relazioni. Ci va bene così.

Ludovico Ragno

Il Faro settimanale

(35 continua)