Ora la costa del monte è spoglia e brulla. Ma circa due secoli addietro le sue rocce affioranti erano ricoperte dall’ombra densa di elci e di querci e le sue grotte, i cui ingressi boccheggiavano fra una bassa macchia fitta ed intricata, offrivano sicuro asilo a chi le scopriva.
Un manto verde nascondeva le creste aguzze e taglienti della Immersa delle Ripe, e, di fronte, Monte di Mezzo, quasi a cupola, era un folto bosco con poche chiazze di seminativi. Radi i tratturi e l’orizzonte limitato, giù in fondo alla gola di Valle di Ciurcio, dalla collina su cui si aggrappava Castel Caprile. La zona era popolata da numerosi greggi, i cui pastori, quando ogni quindicina, a turno, scendevano in paese, raccontavano agli attoniti ascoltatori le gesta dell’uomo selvaggio che soltanto qualcuno, in molti anni, era riuscito a vedere da vicino. Si chiamava Mingo Scirpo; era nato in un casolare della contrada ed era rimasto orfano appena ‘fanciullo perchè i suoi genitori, buona gente, erano stati assassinati dai briganti. Aveva vissuto ramingo per i monti soffermandosi a volta presso i pastori che non gli negavano asilo in cambio di modesti servizi, fin quando, raggiunta la giovinezza, dopo un alterco avuto con un padrone — al quale aveva spaccato il cranio con la scure — si era dato al brigantaggio. Ma operava da solo. Dotato di una forza erculea nel basso e quadrato corpo e di una agilità incredibile, si era procurato le armi assalendo di sorpresa un guardiano del principe che transitava, sonnacchioso su una bestia lenta e pigra, per la valle degli Origoni della Spina. Ma gli aveva lasciato il cavallo perchè egli non sapeva che farsene; i suoi garretti erano saldi e sulle montagne la cavalcatura avrebbe rappresentato un impiccio anche per la custodia ed il mantenimento. Ed aveva fissata la sua dimora in una grotta che egli solo conosceva, alla quale si entrava attraverso un piccolo buco ben nascosto da fitti arbusti, antica dimora di uomini trogloditici o tomba di saraceni. L’antro aveva, su una parete a picco che dominava la zona, un crepaccio da dove entrava discretamente la luce e si scopriva la contrada, gli addiacci e i sentieri. Vi andava a notte inoltrata e ne usciva prima dell’alba perchè nessuno scoprisse il suo nascondiglio.
Era dappertutto ed in nessun luogo, dominatore assoluto del territorio, taglieggiava i padroni degli armenti che, dopo i primi delitti su coloro che si erano rifiutati o che avevano provocato battute di polizia, non osavano più opporsi alle sue richieste e gli fornivano quanto chiedeva in viveri, abiti e munizioni, in cambio della sicurezza personale e degli armenti. Perchè tutta la zona era solo di Mingo Scirpo e nessun altro brigante poteva batterla. Vi aveva provato un montanaro isolatamente, e dopo qualche giorno il suo cadavere era stato rinvenuto presso una grande roccia che ancora si chiama « la murgia del morto ».
Di una piccola banda di Vichesi che, scesa dalle creste si era spinta fino alla Immersa delle Ripe, tre erano stati uccisi in luoghi diversi con infallibili schioppettate ed il capo era stato trovato esanime con un cappio al collo, penzolone da un ramo di cerro. Dopo di allora nessuno aveva avuto più l’ardire di invadere il piccolo regno di Mingo Scirpo, l’invisibile bandito del quale pochi avevano udito la voce e vedute le sembianze. Non scendeva mai in paese, che forse neanche conosceva, e tutta la sua vita la trascorreva sui pochi colli che formavano il suo dominio, dai quali non si allontanava mai. Lo chiamavano il selvaggio, l’anima dannata della foresta Immersa delle Ripe e bastava nominarlo ai capricci dei bimbi perchè ogni pianto e ogni querela cessasse come per incanto. Ed anche i grandi rabbrividivano quando si proferiva il suo nome.
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- Buon giorno, compar Rocco, udì all’improvviso, alle sue spalle, il massaro che, sulla spianata dell’addiaccio, ultimava la lavorazione della ricotta; e si volse in un malcelato sussulto.
Buon giorno, compar Mingo, rispose il massaro, e… senti che buona pasta ho fatta oggi. Cerimonioso e deferente appressò lo scanno, trasse dal pagliaio una scodella di legno, la ricolmò di ricotta, nel cui candore infilò un cucchiaio d’osso, e la offri all’ospite con del pane bianco e spugnoso.
Mingo Scirpo, quando si fu saziato, con il dorso della mano si forbì le labbra appena visibili tra la barba ispida ed i baffi spioventi, e poi disse:Compar Rocco, hai anche tu paura di Mingo Scirpo
No, compar Mingo. A me non hai fatto mai alcun male e tu non ne fai a chi ti rispetta. Ti dirò anzi che spesso ringrazio Dio perchè se tu non vi fossi a proteggerci, chi sà quanti ne verrebbero a distruggerci gli armenti, come avevano cominciato a fare il montanaro ed i vichesi. Senti, Iddio… ma non proseguì per qualche cosa di sinistro che aveva scorto negli occhi del bandito e dalla quale fu terrorizzato.
Qualche istante passò e poi Mingo Scirpo cominciò a parlare con la sua voce bassa, dalla cadenza lenta ed il tono immutabile.
Dio!… Voi uomini di paese, parlate di Dio, adorate certe figurine che portate sempre addosso, frequentate certi locali grandi che chiamate chiese e che io non conosco, v’inginocchiate, vi battete il petto, pregate un essere che non vedete e che non vi risponde. E se qualche cosa vi va bene, dite che Iddio ve l’ha concessa, mentre è il diavolo che vi manda il male. Ma qualcuno di voi ha mai visto questo Dio o questo diavolo? Sono cose che non esistono ed io li invoco entrambi così… e snocciolò una sfilza di bestemmie contro Dio e di vituperi contro il diavolo.
Compar Rocco si era fatto piccolo piccolo ed in un momento in cui Mingo Scirpo si era voltato indietro per accertarsi che un fruscio alle spalle non fosse un’imboscata, abbozzò in fretta un segno di croce.
Riassicuratosi, il bandito proseguì: Di vero e di certo non v’è che la terra, gli alberi, il mio fucile ed il mio pugnale, le tue pecore, le vacche del principe e., senti, è vero che la figlia del principe si sposa? E voi uomini perchè siete tanto grulli da unirvi con le donne che appesantiscono la vostra vita e vi comandano a bacchetta ? E diventate schiavi fra Dio, il diavolo, il principe e la donna.
Tacque un momento e grave era il viso del massaro che non sapeva che rispondere.
— Tu stai zitto compare Rocco, ed io ti saluto.
E se ne andò bestemmiando col fucile a tracolla, il pugnale al fianco ed una grossa scure in mano il cui manico gli faceva da bastone.
Compare Rocco lo seguì con lo sguardo stupefatto fin quando non lo vide scomparire nel bosco. Entrò nel pagliaio, trasse un lungo respiro, si segnò ripetutamente con la croce, e ringraziò il suo santo protettore per lo scampato pericolo. Perchè non si sapeva mai come quel selvaggio sanguinario potesse prendere le sue parole e quale reazione ne poteva seguire.
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Nei pressi del torrente una piscina larga e profonda serviva per abbeverare il bestiame della contrada. Ampi erano gli abbeveratoi che la circondavano e due elci frondosi si piegavano dall’alto e l’ammantavano di continua ombra. Vi sfociavano le acque pluviali che si convogliavano nel fondo della valle e, perchè non si essiccava mai, qualcuno diceva che era una grava dove tutte le acque dei monti circostanti vi erano portate da cunicoli sotterranei, a profondità abissale. Si raccontava anche che, in tempi lontani, un bandito vi aveva buttato, con una pesante pietra legata alla cintura, la sua amante sorpresa mentre lo tradiva con un giovane e bel pastore, e che mai il cadavere era stato ripescato perchè inghiottito dalla terra.
Qualche tempo dopo anche il bandito vi si era annegato, pazzo d’amore e di nostalgia, con un altro sasso assicurato alla vita, per andare a raggiun gere il corpo della sua bella. Ed anche il suo cadavere era stato inghiottito dalla terra.
E dicevano alcuni di aver visto, nelle sere di tormenta o di pioggia, due fantasmi rincorrersi intorno alla piscina, senza raggiungersi mai, mentre il primo, di donna, urlava terrorizzato ed il secondo, di uomo, implorava amore e perdono.
Di notte tutti fuggivano la piscina. Solo- un uomo dalla barba ispida, armato a tutto punto, vi si attardava per delle ore, col fucile sulle ginocchia, confuso tra i tronchi degli elci che si incurvavano sull’acqua, immobile, forse appisolato. E se qualcuno più coraggioso osava avvicinarsi, si sentiva fra le fronde un sospiro lamentoso e poi un urlo disumano ma soffocato. Così la leggenda del bandito e della sua amante trovava conferma e Mingo Scirpo poteva passare indisturbato i suoi ozi notturni sulla piscina, dalla quale saliva il gracidare monotono delle rane ed alla quale scendeva dal bosco qualche accento breve degli uccelli notturni, che si ripeteva all’infinito su poche note sempre uguali.
Di giorno invece, specialmente d’estate, era un avvicendarsi di pastori e di armenti e la piscina rappresentava il centro della contrada, quasi il luogo di convegno, come la piazza del paese. Si raccontavano, negli incontri, le novità della borgata, gli splendori delle feste che di frequente il gaudente principe offriva agli altri signori del Promontorio, le liti fra i componenti del decurionato, i piccoli scandali fra i concittadini, ed i più informati riferivano pure le cronache del capoluogo e finanche della capitale dove viveva il re. Un re invisibile e onnipotente come Dio, davanti al quale il potentissimo principe del luogo e tutti i principi si inginocchiavano, che aveva lo sguardo dell’aquila, che era sempre vestito d’oro e di gemme, che, volendo, faceva tremare la terra. Ma solo Mingo Scirpo si infischiava del re, perchè Mingo Scirpo aveva fatto alleanza con il diavolo. Anzi il diavolo s’era incarnato in lui e perciò era imbattibile ed aveva vinto ed ucciso tutti quelli che avevano tentato di togliergli il dominio della Immersa delle Ripe.
E la piscina sentiva che Mingo Scirpo era nato si da donna, ma concepito da un accoppiamento con lo spirito maligno, che aveva il potere di rimanere invisibile sempre che lo volesse, che nel ventre di un colle — ma non si sapeva quale —, in antri immensi con tante colonne disuguali e tante cortine frastagliate pendenti da massi ciclopici, custodiva un tesoro fiabesco che vecchi e potentissimi diavoli, suoi antenati, vi avevano riposto, distrutti poi e ricacciati nelle profondità della terra dalla venuta dell’Arcangelo Michele.
Ed ai tentennanti si opponeva che per questo l’Arcangelo era venuto sul Promontorio; perché altrimenti non si poteva comprendere come mai avesse scelto il Gargano, piccolo monte sperduto nell’immensità del creato, per sua dimora terrena ed avesse fatto di un’orrida grotta la sua Basilica Celeste, da dove non si dipartiva mai per tenere in soggezione il figlio del diavolo.
Mingo Scirpo non sapeva di essere un diavolo, ma, nella sua anima selvaggia, fondava la sua potenza sulla sua carabina, sul suo pugnale e sulla sua scure. E chi sà che nelle solitudini dei boschi e nello squallore della sua grotta umidiccia e tenebrosa, il ricordo di un volto dolce e candido di madre e di uno sguardo forte ed amoroso dell’uomo che aveva chiamato tata, non rigò talora di una goccia cristallina e purissima la sua guancia bruna per perdersi fra i peli irsuti della barba incolta. E forse il suo cuore sentì, alle volte, un vuoto che l’anima non seppe definire, al quale il corpo rispose con un tremito e la fantasia si illuminò nel sogno di occhi profondi e te neri, di ovali bianchi intaccati di carminio, di forme procaci con gambe e snellezze di gazzelle, e visioni con la sequenza di uno schermo passarono nel delirio di un desiderio di ignoto, di gaudi sconosciuti, di conquiste intentate.
Ma la leggenda su questo tace e per tutti Mingo Scirpo era il diavolo incarnato.
Intanto gli anni passavano e sembrava che Mingo Scirpo non dovesse morire mai.
Ogni tanto appariva nelle masserie della Immersa delle Ripe per chiedere viveri, per farsi rifornire di vestiario, per imporre taglie.
Un sergente che, nonostante i precedenti, s’era messo in testa di prenderlo vivo o morto, era stato un bel giorno trovato impiccato ad uno degli alberi che davano ombra alla piscina e da allora ogni velleità di cattura era in tutti definitivamente scomparsa; si invocava solo l’Arcangelo perchè liberasse la contrada dal diavolo Mingo Scirpo. Ogni pastore portava l’abitino con la immagine di S. Michele e con schegge di pietra dolce dell’antro garganico da lui consacrato; e dall’Arcangelo, vincitore del diavolo, sempre, ogni giorno, i poveri pastori imploravano grazia e protezione.
Intanto qualcuno assicurava che qualche filo d’argento si insinuava già fra il nero della barba ispida di Mingo Scirpo e la sua schiena qualche volta s’incurvava come se su di essa un enorme peso di tanto in tanto calasse.
Il diavolo invecchiava.
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Era quell’anno una stagione particolarmente secca. Il livello dell’acqua nella piscina si era notevolmente abbassato perchè da diversi mesi non pioveva e molti armenti, anche delle contrade circostanti, venivano ad abbeverare alla Immersa delle Ripe. Chi sa che a lungo andare non si potesse scoprire il fondo e vedere gli scheletri, forse avvinti, del brigante suicida e della sua amante infedele! Qualcuno lo pensava. I monti circostanti erano diventati gialli di seccume; l’erba era rasa al suolo arido; gli armenti soffrivano la fame e finanche le chiome degli alberi del grande bosco del principe si erano rincartucciate.
In paese si era organizzata una grande processione; la bella statua della Vergine dell’Assunta, tremolante sul supporto di molla, era stata portata in giro per tutte le strade del borgo, e poi fuori l’abitato, in vista dei monti, della piana e del lago, invocando la pioggia. Tutte le cisterne delle abitazioni erano esaurite e gli uomini soffrivano la sete e bevevano l’acqua molle e scipita del lago, che solo a fatica si riusciva ad ingoiare.
La Vergine però non aveva fatto il prodigio Ogni giorno di più le chiese erano frequentate da fedeli e tridui e preghiere si avvicendavano e si implorava il miracolo. Nessuno, a memoria d’uomo, ricordava una siccità così persistente. Era proprio un flagello di Dio, una punizione grave per il Promontorio sul quale splendeva ogni giorno un sole che bruciava, in un cielo cristallino. Che non si dovesse offuscare mai più con le belle nubi nere, gravide di pioggia ?
Qualcuno cominciò in sordina a sussurrare che tanto castigo era determinato dal permanere nella zona di Mingo Scirpo, il diavolo incarnato. Il sussurro pian piano crebbe, si estese con la rapidità di una macchia d’olio, divenne infine credenza generale. Ma come abbattere il diavolo, se era il diavolo?
Si riunì il decurionato, la quistione fu portata alla sapienza del potentissimo principe gaudente, che la risolse con uno sbadiglio e con un’alzata di spalle. Era grave il volto della rappresentanza della università, quando, insoddisfatta e delusa rivarcò l’arco di ingresso al castello e nulla seppe rispondere al popolo attonito che aspettava nella piccola spianata della collina sulla quale si ergeva il maniero, mentre ai suoi fianchi si aggrappavano le piccole case basse nel mefitismo delle viuzze ingombre di lordume su cui svolazzava ronzando una miriade di mosche grasse. E su quella umanità sofferente, aleggiò per qualche giorno un fatalismo nero che sapeva di disperazione e di morte.
Si decise infine di ritentare una nuova processione.
Non era alla madre clemente, alla madre di tutti i mortali, alla madre loro che i castelcaprilensi dovevano chiedere aiuto?
Un nuovo triduo di preghiere e di penitenze fu indetto. E, dopo il terzo giorno, tutto il popolo implorante seguì la statua della Vergine dell’Assunta. Quando il corteo si fermò nel punto dove si scoprivano i monti, il piano ed il lago, fu uno scoppio di singhiozzi e di lacrime, un sollevarsi di mani al cielo, un implorare, frenetico e disperato.
— «Non ci abbandonare!… pietà, o Signore!… grazia, Dio onnipotente!… acqua, Vergine Santa! … acqua, o Signore!… acqua, acqua Arcangelo Michele!… debella il diavolo, liberaci da Satana!… »
Parve ad alcuni di scorgere un sorriso materno sull’ovale bianco della Vergine. Ad altri sembrò che i suoi occhi levati al cielo implorassero grazia, mentre le mani discoste dal corpo verso terra, pareva indicassero il popolo orante.
La processione ritornò alla Chiesa Madre e la Vergine fu riposta sul suo trono a fianco dell’altare maggiore.
Si scrutava il cielo sempre sereno che nella notte buia diventò infinitamente ricco di stelle.
Sorse un’alba limpida; poi il sole dardeggiò ancora, raggiunse lo zenit, cominciò a declinare, cadde al tramonto, scomparve.
Nella valle di Ciurcio gli ultimi armenti si abbeverarono a fatica con l’acqua del fondo melmoso della piscina e calma la notte sopraggiunse. Per i colli, avanti i pagliai, vicino alle mandrie, si stesero i pastori. Quanto era turchino anche quella notte il cielo e quante, quante stelle brillavano e come era luminosa la via lattea!
Ma ad un tratto, come per un improvviso prodigio, il cielo si oscurò. Un forte vento cominciò ad ululare fra i boschi e per la valle. I cani latrarono paurosamente, i greggi sorsero sulle zampe e negli occhi buoni delle pecore e dei bovini, s’impresse uno smarrimento senza nome. Anche gli uomini non sapevano cosa stesse per avvenire. Era l’attesa, benefica pioggia o il diluvio universale che si approssimava? Era il diavolo che scatenava l’inferno o la Vergine santissima che veniva in aiuto delle creature affrante?
Il cielo si fece tutto nero, il vento infuriò ancora e, inatteso, pauroso lo scroscio di un boato enorme percosse la terra; una gran luce, come di mille saette, sfolgorò in direzione della piscina ed illuminò per un attimo le creste, i boschi tormentati che dimenavano le cime, le mandre immobili, gli uomini esterrefatti che erano caduti in ginocchio e poi, nel buio più fìtto che seguì, la terra tremò come se le sue viscere si contorcessero. Un secondo boato più forte del primo, sembrò il rombo di mille tuoni, l’urlo pazzo di tutta l’umanità. Poi un bagliore discreto, lontano mostrò le nuvole nere, basse sulla terra riarsa, accovacciata, timorosa.
E cominciò la pioggia. Goccioloni grossi e radi in principio assunsero pian piano una frequenza sempre maggiore, fin quando la cadenza fu ininterrotta come in una successione continua di note e di ritmi. La terra beveva assetata e vorace; qualche rivolo cominciò a formarsi e nella valle il torrente, dapprima torbido ed incerto, ricantò possente ed impetuoso una canzone di gioia. Nei pagliai dell’Immersa delle Ripe, il cuore degli uomini rallentò i battiti che erano diventati furiori. Qualcuno si arrischiò fino alla porta e rientrò bagnato e sorridente. Aveva visto che qualche luce brillava lontano nel borgo. La vita non era finita.
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Tutta la notte durò la pioggia.
All’alba cadeva ancora lenta, quasi stanca, e la foresta non aveva più le foglie accartocciate. Negli addiacci i greggi erano sporchi di fango ma sembravano rinvigoriti. E gli uomini, gli animali e le piante ricominciarono a gioire ed a sorridere alla vita, nell’inno perenne alla creazione immortale.
Ma giù nella valle qualche cosa era stata sconvolta. Nel luogo ove era la piscina, si scorgeva un ammasso di sterpi, di terra e di macigni, qualche muro mozzo affiorante ed una radura che sembrava bruciata, senza vegetazione. Ed agli occhi dei pastori stupefatti, non apparve più l’ampia e bella piscina, gli elci che l’ammantavano sempre di ombra, gli abbeveratoi capaci per i greggi assetati. Tutto era stato distrutto, travolto. Poco lontano, nella radura, una carabina, un pugnale ed una scure apparivano stemprati e contorti, con le parti legnose carbonizzate.
Da allora Mingo Scirpo non è più apparso nella contrada. Ma al posto della piscina, sull’ammasso informe di sterpi, di terra e di macigni, sui muri mozzi affioranti, nelle notti buie e di cattivo tempo, sono state viste fiamme rosse e bluastre sorgere e scomparire e poi fiammelle brillare e spegnersi. Fin quando i pastori della Immersa delle Ripe non hanno fatto benedire con l’acqua lustrale il luogo dove il diavolo si è inabissato, come il popolo caprilense continua a credere ed a tramandare.
Giuseppe D’Addetta
Scrittori Dauni – 1960 –
(2 continua)