Circa tremila anni addietro, in un giorno di tempesta in cui sembrava che il mare ribollisse, crescesse a dismisura ad ogni istante e da un momento all’altro dovesse riversarsi sulla terra, gli abitanti delle colline costiere garganiche videro delle navi inabissarsi nei flutti e poi riapparire sulle creste dei marosi, in una lotta titanica e quasi soprannaturale fra i natanti e l’elemento immenso. Ma sembravano grandi quelle navi ai primitivi del Promontorio, tanto grandi da farle ritenere costruite e guidate da giganti, che forse volevano domare le acque in rivolta. Da oriente le navi erano portate verso occidente, alla deriva sul mare che pareva contorcersi in un’ira indomabile, bianco di bava rabbiosa, ruggente, terrificante. Le seguirono attoniti, come avanti un prodigio, quegli esseri ignari dell’umanità antica, fin quando l’orizzonte non le ebbe assorbite. Poi più nulla; tetro il mare continuò a ruggire. Ma nella notte che seguì, man mano si placò. Il nuovo giorno apparve limpido, sereno. Si profilò in lontananza la sagoma delle isole dirimpettaie e le acque assunsero il turchino della bonaccia. Delle navi nessun segno. Le avevano inghiottite le acque ribelli o erano andate lontano, e chi sa dove, forse all’infinito perchè allora si ignorava se e dove ricominciasse la terra.
Gli indigeni, fieri ma poveri boscaioli, non potevano saperlo. Ma quella apparizione di una potenza ignota, aveva fatto credere che non di uomini si trattasse; erano forse dei in lotta con quell’elemento strano che era il mare. Tanto strano che dal canto dolce delle ondine sottili che s’infrangevano sulla sabbia d’oro in un gioco di rincorsa, e dalla immobilità stagnante in cui si specchiavano le chiome degli alberi delle prime colline, passava a ruggire forte, tormentoso, quasi che monti si formassero e si disfacessero, si accavallassero e si distruggessero a vicenda per forze ignote che li governassero dal fondo. Passarono i giorni ma le navi non riapparvero. E quando già si cominciava a dimenticarle, in un mattino in cui il sole accendeva mille faville sull’acqua appena crespa ed il cielo era tersissimo, pian piano si delineò da occidente, qualcosa che avanzava sul mare.
Erano le isole dirimpettaie che si avvicinavano alla terra, galleggianti sull’acqua?
Poi la sagoma si fece più distinta e si fu sicuri che quelle stesse navi, pochi giorni prima trascinate chi sà dove dalla tempesta, ritornavano, forse al punto di partenza, in una plaga ignota, probabile sede degli dei. E si affollarono sulla collina più protesa nel mare gli antichi garganici, attratti dal raro spettacolo. Ma quando i natanti furono in direzione della cala al cui fianco la base della altura più sporgente della ripa si inabissava nelle acque turchine, gli indigeni videro che le prue erano dirette verso terra, verso la loro terra che mai nessun’uomo venuto dal mare aveva fin’allora calpestato. Chiara era ormai l’intenzione negli stranieri di approdare, di calcare la sabbia di oro che cingeva gli inviolati monti, d’internarsi anche nei boschi fitti e possenti in cui di rado si scopriva il cielo. E la boscaglia risuonò di urli e di richiami e quell’umanità primitiva accorse al limite del bosco, sulla costa, per opporsi allo sbarco degli invasori, giganti o dei che fossero. Sul dorso della collina che dominava la cala dove le tre navi approdarono, si riunirono gli indigeni. Da barche scesero degli uomini forniti di strane armi, di scudi grandi e lucenti e di elmi alti con cimieri ricurvi. Chi erano e da dove venivano? Giganti no, perchè la loro statura era inferiore a quella dei garganici. Erano forse dei olimpici o solo uomini di altre terre, sperdutisi nel mare, che non sapevano più trovare la via del ritorno. Ma uomini o dei, nessuno aveva il diritto di profanare quella terra sulla quale doveva vivere solo chi vi era nato. Su tutti, uno dominava, più alto degli altri e dalle membra possenti; e tutti a lui ubbidivano. Aveva un portamento maestoso, armi più belle e sullo scudo era impressa l’immagine di un cinghiale. Ed era palese, da quanto veniva sbarcato, che gli stranieri volevano stabilirsi su quella terra, che non era la loro.
Fu breve il consiglio degli indigeni; lo attacco fu deciso ed in un istante si udì un urlare intenso, selvaggio mentre grossi massi venivano rotolati sul dorso della collina e giavellotti e sassi, lanciati dalla altura, investirono gli stranieri. Cominciò poi la discesa Veloce dei garganici lungo il declivio e l’orda si precipitò sui naviganti. La sorpresa determinò uno sbandamento negli invasori; qualcuno rientrò in acqua diretto alle navi. Ma il capo, in un idioma incomprensibile, con ordini secchi, li fermò, li radunò intorno a se, urlò qualche cosa che degli uomini parve fare tanti leoni nel rilanciarsi nella mischia dietro al loro duce, terribile nell’ira della battaglia.
L’urto avvenne sulla battigia. La sabbia d’oro fu morbido letto ai caduti, e su di essa, difensori della propria terra e stranieri invasori mescolarono il loro sangue e si accomunarono in un unico, tragico destino. Nessuno può dire quale durata ebbe il combattimento. Forse breve. Ma sul trambusto e sull’urlo, una parola dominava, quale invocazione di guerra che divenne poi grido di vittoria: «Diomede! Diomede! ». E gli stranieri al sentirla riprendevano vigore e sempre più spesso e più forte la ripetevano, sia che gli alterni episodi della battaglia li respingessero al mare o li portassero ai piedi della collina. Fin quando, forse il numero, ma certo una maggiore arte della guerra, migliori armi e l’abilità del capo che era dappertutto, terribile, invulnerabile, non determinò le prime defezioni nei difensori superstiti che, vistisi a mal partito, riguadagnarono il bosco e si dispersero fra gli alberi. Erano stati fieri e valorosi ma non avevano potuto impedire che lo straniero violasse la loro terra e su di essa stabilisce la sua signoria. Perchè Diomede, il re degli invasori, cauto ed astuto, iniziò a costruire opere difensive sulla collina da dove aveva scacciato gli indigeni e poi man mano allargò il suo dominio sul Gargano. Seguirono altre lotte cruenti, fu ancora fiera, lunga e tenace la resistenza degli abitanti, ma infine tutto il Promontorio subì la potenza del capo degli invasori, di Diomede.
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Era, Diomede, di valorosa stirpe reale. Suo padre, Tideo di Eneo, fuggitivo da Calidone, fu accolto da Adrasto re di Argo, di cui sposò la figlia Deifele.
Gli eroi greci portavano addosso, come trofeo, la pelle di una belva da loro uccisa. Tideo indossava quella di un cinghiale e per questo era soprannominato « il cinghiale ». Nella prima guerra contro Tebe, avendo ucciso l’odiato Menalippo, ne aprì il cranio e ne sorbì il cervello. Nella stessa guerra, successivamente perì.
Diomede, suo figlio, inteso anche come « il figlio del cinghiale », partecipò alla seconda guerra tebana ed ottenne la signoria di Argo, sotto il supremo dominio di Agamennone, re di Micene, il più potente dei sovrani della Grecia. In Argo, Diomede si stabilì con la moglie Agialea. Ma a quei tempi si viveva continuamente in guerra e non furono lunghi gli ozi del nuovo re di Argo.
Era avvenuto nell’Olimpo, dove gli dei trascorrevano l’eternità, che Eride, dea della discordia, non essendo stata invitata ad un banchetto nuziale in occasione dell’imeneo fra Teti e Peleo, dai quali sarebbe poi nato Achille, fece cadere sulla tavola durante il fastoso pranzo, un pomo d’oro con la scritta « alla più bella ». Fra Venere, Minerva e Giunone si accese una disputa per l’assegnazione del pomo; e poiché nessuno degli dei poteva risolvere la lite, il giudizio fu demandato ad un mortale e precisamente a Paride, figlio di Priamo re di Troia. Le tre dee in lizza cercarono, ognuna per proprio conto, di conquistare il favore di Paride. Minerva promise sapienza e gloria, Giunone ricchezza e dominio, e Venere amore e il possesso della più bella donna dell’universo. Vinse Venere; e Minerva e Giunione divennero nemiche di Paride, e della stirpe troiana e cercarono di vendicarsi alla prima occasione.
L’occasione si presentò quando Paride, durante un suo viaggio in Grecia, ospitato con molta cordialità da Menelao, re di Sparta e fratello di Agamennone, rapì al suo ospite la bellissima moglie Elena e molte ricchezze che trasferì a Troia, capitale del suo regno, sull’estremo limite occidentale dell’Asia minore. E la offesa si aggravò quando, ad un’ambasceria inviata a Troia per chiedere la restituzione di Elena, fu opposto un netto rifiuto. Il grave torto fatto da Paride a Menelao, fu ritenuto, dal potente Agamennone, arrecato anche a lui, ed i due sovrani offesi invitarono tutti i re delle altre città ed i popoli della Grecia, a vendicare l’oltraggio patito. E fu la guerra contro Troia, alla quale partecipò anche Diomede, l’impetuoso, l’invincibile che con Ulisse riuscì a penetrare nella rocca d’ilio ed a rapire il Palladio, antica statua in legno rappresentante Pallade, relativamente alla quale una profezia vaticinava che fino a quando il simulacro fosse stato in Ilio, la città non sarebbe caduta.
La guerra durò dieci anni ed alla fine Troia fu distrutta. Minerva e Giunone avevano vinto, e si erano vendicate dell’offesa ricevuta da Paride. Tanto più che Venere e Marte erano stati feriti in combattimento dalla lancia di Diomede, l’eroe nato per la guerra, dalla figura vigorosa, irruente, quasi selvaggio e d’impeto primitivo, astuto, imbattibile. Ma gli dei feriti nella guerra di Troia e specialmente Venere, non ritennero chiusa la partita ed a loro volta, giurarono vendetta. E quando Diomede ritornò in Argo, trovò che la moglie Agialea era diventata l’amante del suo ministro Comete. L’eroe sarebbe caduto vittima delle male arti della moglie se, per ispirazione di Minerva, non si fosse rifugiato nel tempio presso la statua della dea.
Tormentato e deluso, Diomede abbandonò Argo e partì con le sue navi alla volta dell’Etolia, patria di suo padre Tideo, portando con se come zavorra le pietre delle mura di Ilio, la rocca di Troia da lui espugnata. In Etolia altri dolori lo attendevano. Lì viveva ancora l’avo Enea, ma spogliato della signoria ad opera dei nipoti, figli di suo fratello Agrio. Diomede combattè e vinse gli usurpatori e restituì al nonno la signoria del regno.
Ma non si fermò in Etolia.
Nell’isola di Corcira vi era un dragone che bisognava combattere. E Diomede, nella sua passione di lotta e di vittoria, nel tormento del suo cuore trafitto per il tradimento della moglie, andò a Corcira con i suoi soldati etoli, ed ammazzò il dragone.
Riprese quindi il mare per far ritorno in Etolia.
Ma Venere e Marte non erano ancora placati. Ramingo per il mondo, senza pace, doveva andare l’eroe che aveva affondata la sua lancia nei loro corpi, spargendo sulla terra il loro sangue divino. . Gli dei del mare e dei venti furono convertiti alla loro causa. E mentre le navi di Diomede facevano rotta verso l’Etolia, Eolo diede stura ai suoi orti, e fu nel mondo una bizzarra cavalcata di venti furiosi, che, come fuscelli, sui mari sconvolti e ribollenti, facevano scivolare le navi etole. Nettuno, barbuto e sornione, col suo tridente in mano, guardava, divertito dalla lotta tra gli dei vendicativi ed il fiero eroe greco che non si dava per vinto. E non fu vinto perchè le sue navi ed i suoi uomini approdarono finalmente, dopo la titanica lotta con i venti e col mare, in isole sconosciute e disabitate che d’allora furono chiamate Diomedee. Da esse Diomede scoprì, a poche miglia in un giorno di trasparenza d’aria in cui gli orizzonti, pare, si avvininino, una terra meravigliosa ricoperta di verde, elevata sul mare azzurro nel quale si spingeva come a dominarlo, della quale fino allora nella sua patria non si conosceva resistenza. E lì decise di fondare il suo nuovo regno. Questo era Diomede, il figlio del cinghiale, il distruttore della rocca d’ilio, il vincitore degli dei, il re di Argo e di Etolia, che gli originari garganici videro in lotta col mare e con i venti e dal quale furono soggiogati nella disperata difesa della loro libera terra.
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Diomede dunque, vinti definitivamente i garganici dopo lunga, aspra e tenace resistenza, stabilì il suo dominio su tutto il Promontorio e sulle isole dirimpettaie dove era stato buttato dalla tempesta. Venere e Marte forse in quel tempo sonnecchiavano, oppure, occupati in altre imprese, avevano perso d’occhio il loro nemico. E la terra italica subiva le conseguenze della loro distrazione. Intanto dalle vette del suo nuo-vo regno, l’eroe greco scopriva un’immensa pianura e l’occhio grifagno mal celava un desiderio forte di conquista. Nella pianura ferace, l’oro delle spighe gareggiava con i raggi del sole ed il galoppo dei cavalli senza briglie sarebbe stato lì più veloce della saetta.
Ma quella pianura era il regno di re Dauno al quale era giunta la fama del gran valore dell’etolo che sui monti garganici, sui quali egli non aveva mai potuto estendere il suo reale dominio per la natura fiera ed altera degli abitanti, aveva stabilito la sua signoria. E si temeva che lo straniero invadesse la pianura. In quei tempi il re Dauno era nei guai per la lunga guerra che sosteneva contro i Messapi; le alterne vicende della lotta lo preoccupavano. Non poteva quindi combattere contemporaneamente anche contro il conquistatore del Gargano e pensò bene di rendersi amico Diomede. Fu così che gli chiese aiuto nella guerra contro i Messapi promettendogli, a vittoria conseguita, metà del suo regno e la figlia in isposa. La guerra contro i Messapi fu vinta dagli alleati Dauno e Diomede e, superate le riluttanze del primo che malvolentieri si adattava a cedere all’eroe greco metà del suo regno, il figlio del cinghiale, con le pietre della rocca d’ilio, delle quali si era servito come zavorra nelle navi, formò delle stele che pose ai limiti del nuovo dominio. A questo punto la leggenda entra in una zona buia. Alcuni vogliono che a dirimere la quistione tra Dauno e Diomede circa l’assegnazione della metà del regno e la promessa di fargli sposare la figlia Evippe, fosse chiamato il fratello del valoroso eroe greco, Aleno. Si vuole che questi, innamorato e riamato da Evippe, decidesse la contesa a favore di Dauno. Dal che sarebbe nato un odio profondo fra i due fratelli, conclusosi con la morte di entrambi nel duello che ne seguì. Ed i loro corpi avrebbero ricevuto sepoltura comune sul monte Gargano. Altri invece ignorano Aleno e affermano che Evippe fu sposa di Diomede del quale, dopo la morte, i seguaci avrebbero sepolte le spoglie nelle isole che da lui presero il nome.
Noi seguiamo questa versione perchè ci sembra molto improbabile che in un combattimento singolare, l’imbattibile Diomede potesse essere mortalmente ferito dal fratello Aleno, di cui nessuna tradizione tramanda virtù guerriere. Comunque le due versioni concordano negli eventi che seguirono la morte del vincitore del Gargano e che noi riferiamo. La sua dinastia italica, da lui creata, con lui stesso finì. I suoi compagni etoli, dopo aver dato solenne sepoltura al suo corpo nell’isola dove avvenne il primo approdo, furono, per vendetta degli dei nemici di Diomede, trasformati in bianchi aironi e dannati a volare eternamente su quel mare e su quegli scogli, riempendo il cielo di lacrimosi ed umani lamenti. E trovavano riposo solo sulle ginocchia di uomini della Grecia dalle cui mani amavano prendere le briciole e i tozzi di pane avanzati dalle mense.
Il re Dauno sopravvisse a Diomede e ricompose il suo regno, rioccupando la porzione già ceduta all’etolo. Ma fatte disvellere e gettare a mare le stele confinarie, prodigiosamente quelle riuscirono dalle acque ed imprimendo sulla terra le loro orme ritornarono al posto che ciascuna prima occupava, e là si riconficcarono nel terreno, in modo che mai più, a forza umana, fu possibile spostarle. Il Gargano pur facendo parte del regno di Dauno, riprese sostanzialmente la sua indipendenza e le sue genti originarie si risentirono libere perchè il loro vincitore era morto e l’autorità del vecchio re non giungeva nel boscoso, aspro e primitivo promontorio.
Passarono gli anni.
L’indipendenza del fiero Gargano si riaffermò ed i suoi abitanti rivieraschi, sull’esempio degli etoli, cominciarono a prendere dimestichezza con il mare ed a costruire degli approdi. Agaso, aggregato costiero situato sulla testa del Promontorio, divenne il centro del traffico marittimo con le altre genti italiche e con quelle dell’opposta sponda. E la civiltà garganica progrediva pacifica nella libertà.
Ma un giorno sul mare calmo, immoto, apparvero all’orizzonte due navi grandi, diverse dalle altre che di solito solcavano quelle acque. E veleggiavano verso Agaso, veloci, potenti, con la prora alta che fendeva schiumando l’azzurro. Nella rada attraccarono ed a terra scesero degli uomini con ricche vesti, di una foggia molto differente da quella dei soliti naviganti. Fecero comprendere agli abitanti di Agaso di essere messi degli Etoli e che la loro mèta era la tomba di Calcante posta sulla vetta di monte Drione, laddove più alte erano le colline del Promontorio. E per scoscesi sentieri scalarono il monte coperto di fitti boschi, dove gli uomini vivevano sperduti fra innumerevoli tronchi, in abituri primitivi, in lotta continua con le fiere, nutriti dalla caccia. Ma era una razza pura, di statura più grande della normale, pronta al combattimento, coraggiosa ed insofferente di dominio, che di mal’occhio vedeva quegli stranieri aggirarsi per la sua terra nel sospetto che si potesse rinnovare il servaggio patito. Sul monte Drione poco lontano dallo antro dedicato a Calcante, dal quale sgorgava l’Alteno nelle cui acque bagnandosi si invocava salute per se e per il gregge, gli indigeni avevano fissato un notevole aggregato. Molti erano gli abitanti del Promontorio ed anche di lontane contrade che si recavano a consultare l’oracolo di Calcante. Ed a quelli che, avvolti in pelli ovine passavano la notte sulla sua tomba, il figlio di Esculapio dava, nel sonno, i suoi responsi.
Giunti sulla sommità del monte, i legati degli Etoli sacrificarono un ariete al dio indovino e sulla sua tomba dormirono avvolti nella pelle del montone per averne le rivelazioni. Ma non ne ebbero alcuna per quanto più notti ripetessero il rito. Bisognava però adempiere alla missione perchè i loro compatrioti li avevano mandati in quelle contrade daune allo scopo di individuare i vasti possessi del loro re, i feraci campi dei loro padri e riprenderne il dominio. Perchè quella era terra loro per diritto di conquista ed essi erano i legati dei discendenti dei compagni di Domede che avevano vinto il Gargano e vi avevano stabilito la loro signoria. Questo dissero agli indigeni stanziati non lungi dal tempio di Calcante. Fra gli originari vi erano alcuni vecchi che ricordavano il dominio degli Etoli. E si tenne consiglio mentre gli stranieri attendevano i responsi di Calcante. Dunque i dominatori erano ritornati per riprendere la signoria del Gargano. Avrebbero di nuovo imposto la loro volontà, agito da padroni senza rispetto per gli indigeni che ancora una volta sarebbero stati ridotti in schiavitù, sfruttata la loro montagna sulla quale liberi erano nati e sulla quale liberi volevano morire. Gli dei non potevano permettere tanta sciagura e il dio Sole, che ogni cosa vedeva tutti i giorni, doveva dardeggiare ed incenerire gli stranieri. Ma, prima di ogni cosa, bisognava sentire il responso di Calcante per conoscere se il favore degli dei era dalla loro parte. Così il più vecchio ed il più saggio del vico, avvolto in una pelle di montone, passò la notte sulla tomba del figlio di Esculapio. E, nel sonno, gli apparve una voragine nella quale rotolavano degli esseri umani vestiti come i messi degli Etoli. Poi sulla voragine si elevò un enorme mucchio di macigni mentre lontano, sul mare, una grande fiamma si alzò al cielo come se le acque prendessero fuoco. E la montagna ne fu tutta illuminata quasi che trasparenti fossero divenute le foglie ed i tronchi degli alberi annosi che l’ammantavano. Nel giorno successivo alla visione del saggio vegliardo, si tenne di nuovo consiglio. L’oracolo era chiaro poiché poco distante dalla vetta di monte Drione, sulla roccia si apriva una voragine senza fondo. Quando i legati si presentarono agli originari per chiedere che finalmente indicassero gli opimi campi dei loro padri ed i confini del regno di Diomede, furono condotti sulla vetta di monte Drione, accompagnati da tutti gli abitanti del luogo, nei pressi della voragine. E quando domandarono: « Dov’è dunque la nostra terra? », i giovani più forti li assalirono e li scaraventarono nell’abisso. Ed il vegliardo, mentre grandi massi venivano accumulati sull’ apertura, rispose loro: « Ecco la vostra terra». Nella notte, un gran fuoco avvampò sulle acque del mare di Agaso e la montagna ne fu tutta illuminata.
Il ciclo diomedeo si era, così, tragicamente concluso.
Venere poteva essere soddisfatta.
Giuseppe D’Addetta
Scrittori Dauni – 1960 –
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